Una memoria non eurocentrica
Il freddo dei mesi della rossa primavera volge al termine, portandosi il ricordo di iniziative appena trascorse, dense di Memoria, pronte a riproporsi per l’Ottantesimo anniversario del prossimo anno. Dall’eccidio delle Fosse Ardeatine al rastrellamento del 17 aprile al Quadraro nella città di Roma, per arrivare alla tanto attesa festa della Liberazione ricordando quel 25 aprile del 1945. I fatti storici, accaduti 79 anni fa, aggiungono al presente una carica emotiva di rilievo tale che, al di là del pericoloso revisionismo del Governo Meloni, invita strade, piazze e cortili ad aprirsi per diventare teatro di Memorie. Varrebbe però la pena riflettere più in profondità, osando dire che l’arte del ricordare stenta a convivere con una nozione adeguata del tempo. Come se, più la Memoria viene evocata e più si fa distante, generando uno iato tra passato e prassi del presente, mancando così la possibilità di superarla, estendendone i confini.
Provo allora a riflettere proponendo la Memoria storica come parte di una complessità mondiale che deve assolutamente essere considerata, per non cadere nell’equivoco di pensarla quale unica prerogativa europea od occidentale. Facendo solo un breve riferimento alle stragi, ai genocidi ed alle discriminazioni etniche che hanno coinvolto vari Paesi del mondo dall’inizio del Novecento (gli Herero, il popolo armeno, l’Holodomor in Ucraina, il nazismo e la Shoah in Europa, l’Apartheid in Sudafrica, i crimini contro l umanità in Cina, il genocidio in Indonesia, le dittature in Cile e in Argentina, il genocidio in Cambogian, per non dimenticare Palestina e Kurdistan…), a far data dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 sono stati ancora tanti i genocidi, che varrebbe la pena approfondire e studiare. Dalla strage della comunità Maya in Guatemala tra il 1990 e il 1999, alla pulizia etnica nei Balcani durata nove anni, al genocidio in Rwanda nel 1994 e dei Rohingya in Birmania nel 2012, che si “aggiunge” al quello contro gli Yazidi nel nord dell’Iraq del 2014… Fatti storici pregni di violenze inusitate che hanno invaso e continuano ad invadere il mondo. Realtà drammatiche che, seppur distanti e lontani dal nostro continente, dovremmo avere il coraggio di intrecciare e guardare più in profondità per renderci conto che seguono tutte un filo molto preciso: quello di un pensiero anaffettivo profondo, freddo, lucido, nazista e coerente, spesso di matrice occidentale, che annulla completamente l’altro essere umano e la sua realtà.
Per il ruolo che ci siamo dunque voluti dare dall’ottobre 2020, data in cui fu fondata la Biblioteca antirazzista Carminella nella città di Roma, nostro compito è quello di ripercorrere, anche se solo narrativamente, quanto accadde in quei Paesi lontani dall’Europa, provando così a ricostruire e tessere quell’intreccio affettivo umano di Memorie storiche che attraversano trasversalmente il mondo. Così è stato che, alle iniziative del 17 aprile (data del rastrellamento nazifascista di 2000 civili avvenuta nel quartiere Quadraro di Roma nel 1944) promosse dalle associazioni attive nel territorio, abbia fatto da eco la serata svolta in Biblioteca, in Memoria del genocidio dei Tutsi in Rwanda avvenuto nell’aprile di ventinove anni fa. “La solitudine del Rwanda … e i fuggiaschi nel mondo”, ne era il titolo. Una solitudine che, insieme a Francine Banamwana, donna ruandese membro della Biblioteca e la generosa partecipazione dell’artista romano Ascanio Celestini, si è voluta ricordare e superare tra il calore dei presenti e il tempo mite di una serata primaverile.
Ripartiamo tutti insieme da qui.
I contributi ricevuti alla serata sono andati a sostegno del progetto SEVOTA in Rwanda. Un progetto pensato da donne rwandesi che lavora per la ricostruzione delle relazioni umane, tra hutu e tutsi, distrutte dal genocidio, con particolare attenzione alle donne e ai bambini.
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