Degrowth communism
Paolo CacciariIl “regno della libertà” auspicato dal comunismo è oggi un mondo liberato dall’ossessione della crescita, della produttività, del denaro. Un “comunismo decrescente”, una rivoluzione antropologica, cioè un processo di liberazione – non solo dell’immaginario – dalle costrizioni materiali che compromettono le possibilità di una vita piena e sana, ricca e soddisfacente
La ripresa di interesse al pensiero ecomarxista – penso ad autori come John Bellamy Foster, Ian Angus, Paul Burket, Michael Löwy, Jason W. Moore, Andreas Malmo – con al vertice il caso dello straordinario successo dei libri di Kohei Saito, il giovane studioso giapponese che ha portato in luce una vena protoecologista del pensiero marxiano (Marx in the Anthropocene. Towards the Idea of Degrowth Communism, di Kohei Saito, Università di Tokyo), ci riporta alla vexata questio che ha tormentato le avanguardie politiche rosso-verdi fin dagli anni Settanta del Novecento: come riuscire a connettere i diversi aspetti della critica al capitalismo? Come fare in modo che il “rosso” e il “verde”, ma anche il “rosa” del femminismo, il “bianco” del pacifismo antimilitarista, antinucleare e nonviolento, il “nero” dell’antiautoritarismo libertario, la “linea del colore” contro cui si scontano le lotte di liberazione postcoloniali, l’“arcobaleno” delle lotte per i diritti civili e le libertà individuali… insomma, l’intero spettro delle resistenze alle pluriverse contraddizioni scatenate dal sistema capitalista possa connettersi e convergere in un movimento d’opinione, culturale e politico capace di impensierire il comune nemico?
Ognuno capisce da sé che le dolorose crisi finanziarie, economiche, sociali, demografiche, alimentari, migratorie, ambientali… sono concatenate e hanno un’origine comune. C’è una fonte avvelenata che origina ogni male; ci sono un insieme di relazioni (non solo produttive), c’è un ordine sociale (non solo economico) e un potere simbolico che sfibrano i tessuti della solidarietà sociale e minano la convivenza civile, che generano insopportabili discriminazioni e ingiustizie, che mettono a repentaglio le stesse basi biologiche della vita, che mortificano gli individui fino a metterne in discussioni l’esistenza, la “nuda vita”. La guerra è forse l’esito finale, l’apoteosi di una logica di violenza ubiquitaria e strutturale.
Non è questa la sede per dimostrare questa realtà. Ci basti qui ricordare la fallacia della teoria di base del liberalismo secondo la quale il commercio globale e il desiderio di benessere materiale dei popoli avrebbero pacificato i rapporti tra gli stati moderni. Non serve qui elencare le molte evidenze fattuali per dimostrare che vale esattamente il contrario. È proprio la competizione economica tra le imprese di capitale finalizzata alla massimizzazione dei profitti, all’accumulazione “primitiva” permanente, all’aumento della produttività e alla crescita a tassi compositi del valore delle merci sui mercati a creare uno stato permanete di prevaricazione, sfruttamento dei “fattori” di produzione, espropriazione, estrazione e dissipazione dei beni comuni naturali. Un sistema che cannibalizza – per dirla con Nancy Fraser (Il capitale cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, 2023) – i supporti stessi del suo funzionamento.
Come fermare la bestia biblica, il mostro leviatano?
Nel corso della storia a ogni fase di espansione della marcia trionfale del capitalismo (del processo di occidentalizzazione del pianeta) si sono affacciate varie forze di opposizione e resistenza. Innanzitutto le comunità autoctone, indigene e contadine che, difendendo il loro territorio, hanno tentato di impedire la predazione coloniale dei mezzi naturali di sussistenza. Poi le masse proletarie inurbate attraverso le varie formazioni del movimento operaio hanno tentato di contrastare l’estrazione diretta di plusvalore. Le donne, per parte loro, hanno da sempre denunciato il disconoscimento del “lavoro riproduttivo” e di cura, la divisione sessista dei ruoli sociali, il patriarcato come forma primaria di dominio. Inoltre, con l’evidenziazione della “frattura metabolica” (per usare il linguaggio marxiano) provocata dall’industrializzazione gli abitanti dei territori in tutti i luoghi del pianeta hanno manifestato la loro contrarietà alla deturpazione e alla mercificazione della natura. Aggiungiamoci i gruppi di pressione e i movimenti che sono mossi direttamente da motivazioni etiche, come gli animalisti antispecisti, i pacifisti nonviolenti, la cittadinanza attiva impegnata nel far valere i diritti civili individuali… e raggiungeremo a contare quel 99% della popolazione della Terra che viene costantemente depredato dal’1% dei super-ricchi.
Come è possibile che si verifichi una tale schiavitù di massa (più o meno) volontaria?
Sono due le principali abilità con cui il capitalismo supera le sue criticità: da una parte la capacità plastica di assorbire e trasformare le disfunzioni che genera in stimoli di cambiamento (innovazioni organizzative e tecnologiche) spostando sempre in avanti la frontiera delle condizioni di riproducibilità del sistema; dall’altra la capacità di rovesciare e distribuire i costi delle crisi sui diversi costrutti sociali (classi, nazioni, etnie, generazioni, generi…) in modo da mettere in contrasto gli uni agli altri. Non serve ricordare casi già noti come il ricatto costante esercitato dal sistema imprenditoriale sulle forze del lavoro poste di fronte all’alternativa tra accettare condizioni di lavoro insalubri e la perdita del reddito. “Lavoro contro salute è una partita impossibile da giocare, perché i giocatori appartengono a entrambe le squadre – Ha scritto Stefania Barca (Ecologia operaia, in Trame, Tamu, nov. 2021, p.78) – L’unico modo di vincere è non giocare”. Scrivevano, tanti anni fa, i pionieri dell’ecologismo operaio del collettivo di medicina democratica di Castellanza: “La minaccia del posto di lavoro spinge gli operai a una oggettiva alleanza con il padrone. […] L’operaio come figura sociale entra in conflitto con sé stesso: la sua lotta contro l’inquinamento prodotto dalle aziende entra in contraddizione con le sue possibilità di occupazione” (Edoardo Bai, Una nuova ecologia, Cooperativa Smemoranda, Milano, 1983).
Analoghe situazioni conflittuali si trovano abitualmente nelle comunità urbane schiacciate tra una condizione abitativa che obbliga gli abitanti a consumi energetici assurdi (mobilità privata, raffrescamento, servizi tecnologici sempre più raffinati) e l’avvelenamento dell’aria, la scarsità idrica, la perdita degli spazi comuni e della biodiversità.
La progressiva dipendenza delle singole vite umane dalla disponibilità economica individuale porta le persone a introiettare fino ad accettare condizioni e stili di vita autodistruttivi oltre che alienanti. L’ordine economico capitalista non ha solo diviso le popolazioni a seconda delle funzioni loro assegnate nella catena di produzione del valore economico, ma è penetrato fin dentro i singoli individui riuscendo a suddividere il loro quadrante biologico in comparti separati: lavoro, consumo, spostamenti, cura, svago. A ogni dimensione del vivere vengono assegnati tempi, dosi di risorse psicofisiche da impegnare, modelli comportamentali, rituali. Il tutto mediato indissolubilmente dal denaro a disposizione, o meglio, dall’accesso al credito, dai limiti di solvibilità del ricorso al debito. Ordini sociali e sistemi di vita non capitalisti non sono tollerati, ovvero, costituiscono il campo su cui le imprese – come tanks in battaglia – penetrano, distruggono, conquistano, investono, colonizzano; in competizione tra loro. L’economia di mercato mutua i propri modelli di azioni da quelli della guerra. “La competizione – ha affermato qualche tempo fa una commissaria europea per la ricerca, Máire Geoghegan-Quinn (citata da Alice Benessa e Silvio Funtowics in L’innovazione tra utopia e storia, Codice edizioni, 2013) – è la nuova legge di gravità dell’economia, che nessuno può sfidare”.
Per coloro che desiderano tentare una fuoriuscita politica dal presente ordine sociale si pone quindi la necessità di ricondurre a unità le identità sociali frammentate, di superare le separazioni, di unificare le opposizioni, le lotte, le proposte alternative. Per riuscirci servono una teoria critica generale capace di cogliere la centralità del sistema che domina le relazioni sociali esistenti e un progetto di emancipazione che vada bene per tutte le popolazioni variamente soggiogate dal sistema; una visione e un progetto di società alternativa, plausibile, desiderabile oltre che necessaria, capace di mobilitare i soggetti della trasformazione.
Come noto, i molti tentativi fin qui prodotti non hanno dato buon esito. Perché? Quali sono stati i loro limiti? Ogni movimento antagonista ha creduto di aver trovato il bandolo giusto della matassa. Cosicché ognuno ha tirato il suo rendendo la matassa ancora più intricata. Le organizzazioni politiche del movimento operaio hanno pensato che il motore del processo di trasformazione fosse il proletariato industriale, liberato il quale tutti ne avrebbe tratto beneficio. Scrisse Giuseppe Prestipino a proposito delle pretese universalistiche della teoria marxista ortodossa: “I vecchi marxisti ripetevano che la classe operaia, in quanto ‘classe generale’, avrebbe avuto il compito di abolire tutte le classi e che, liberando se stessa, avrebbe liberato tutta l’umanità da ogni forma di servaggio” (in Accadde domani, Centro per la filosofia italiana, Aracne 2005).
I partiti verdi, dal canto loro, hanno ritenuto che la preservazione dell’ambiente naturale avrebbe dovuto interessare e mobilitare l’intera umanità. I movimenti femministi, come quelli anticoloniali e antirazzisti, hanno creduto che senza l’abbattimento delle discriminazioni di genere, razza, religione nessuna persona si sarebbe mai potuta sentire davvero libera.
Soffermiamoci sulle ragioni dei “rossi” e dei “verdi”.
C’è uno scritto illuminante di Alex Langer del 1985 (Il verde non passa per la cruna dell’ago rosso, pubblicato su “il manifesto” del 26/01/85) che spiega molto chiaramente la situazione. Come noto, Langer rifiutava di schiacciare il neopartito verde sul lato della sinistra parlamentare, non solo o tanto per ragioni tattiche di opportunità elettorale e nemmeno per la differenza di contenuti, alle volte davvero grande (pensiamo al nucleare), ma su questioni più di fondo. Scrive il fondatore dei Verdi italiani: “Bisognerà interrogarsi anche sull’utilità pratica di certe classificazioni, e trarne le conseguenze. […] Ci sono oggi più cose tra cielo e terra di quante non se ne riescono ad afferrare con categorie politiche che già in passato faticavano a rendere l’idea e oggi sono manifestazioni in crisi”. Langer rinfaccia alle sinistre di aver perduto una dimensione utopica ed etica e di occuparsi solo di “giustizia distributiva e migliori condizioni di vita sociale” rinunciando alla “critica di fondo alla civiltà dominante”. Per contro Langer paragonava la battaglia dei verdi per la “sopravvivenza della specie” a quella dei cristiani delle origini che scelsero il Nuovo Testamento e rifiutano i profeti e le leggi di Israele. I verdi quindi non si consideravano una “terza posizione” tra le destre e le sinistre, ma una cosa altra, un’altra categoria politica alla ricerca di un “proprio progetto complessivo” che Langer delinea attorno ad alcune missioni di base: dare risposte a “una domanda di spiritualità e di interiorità; una rivalutazione dell’iniziativa personale e di gruppo rispetto alla priorità dell’’ente pubblico’; una ricerca di comunità non riconducibile alla socialità politicizzata e strutturata propria della tradizione di sinistra…”. Da qui l’inevitabile profetico pessimismo: “A ben guardare e per tutto un periodo non breve l’approfondimento di una visione ecologista porterà allo scoperto distanze assai più marcate tra ‘verde’ e ‘rosso’ di quanto oggi non si pensi, e i conflitti sul nucleare, sul terzo mondo, sul militarismo, sulla ‘fuoriuscita dall’industrialismo’, sul sindacato e più in generale sulla concezione del ‘progresso’ che si preannunciano saranno assai dolorosi”.
A Langer, quindi, (ma anche a Ernesto Balducci e alla corrente cattolica che militava nel Pci, Franco Rodano, Claudio Napoleoni, Raniero La Valle) non bastavano né le risposte apparentemente inoppugnabili, neutrali che venivano dall’“ambientalismo scientifico”, né quelle dell’ecomarxismo di James O’Connor (teorico della “seconda contraddizione” tra capitale e natura)e dell’”ecologismo sociale” di Barry Commoner, Richard Levins e altri. Le prime finivano nell’affidare le sorti del pianeta alla tecnoscienza, le seconde all’automatico rovesciamento dei rapporti di potere tra le classi sociali.
Era quindi chiaro fin dall’inizio della storia del pensiero politico ecologista che la convergenza tra verdi e rossi, tra l’ecologia pura (conservazionista, profonda) e l’ecologia sociale (operaia), non si sarebbe potuta realizzare per giustapposizione aritmetica, ma attraverso un processo alchemico, fusionale che avrebbe dovuto modificare la natura stessa delle parti coinvolte e dei loro punti di vista.
Il pensiero ecologico stesso (sistemico, complesso, relazionale) è un modo di pensare il mondo e di pensare sé stessi in rapporto a ogni altro ente. È una “scienza sovversiva”, diceva Giorgio Nebbia, poiché riunisce le conoscenze fisiche, geologiche, biologiche, climatiche… e le pone in relazione con le scienze che studiano i comportamenti umani. L’ecologia non è una branca della biologia è piuttosto una “superscienza”, una “filosofia globale”, poiché “nella grande concatenazione di causa ed effetto nessuna materia, nessuna attività può essere considerata isolatamente” (Ludwig Trepl, in Profeti verdi, a cura di Gianfranco Bettin, 2022). Se presa sul serio, l’ecologia rimette in discussione alla base i miti fondativi della civiltà occidentale, la separazione tra essere umano e natura, la cosificazione della natura e così via. “In questo universo tutto ha a che fare con tutto, formando una incommensurabile rete di relazioni” (Leonardo Boff, La terra è nelle nostre mani, edizioni Terra Santa, 2017).
L’ecologismo, quindi non è solo anticapitalista, anche se per andare oltre dovrà necessariamente abbatterlo.
Un primo tentativo di connessione tra le istanze ecologiste e sociali venne dalla proposta ecosocialista (vedi, di Antunes, Jaquin, Kemp, Krieger, Stengers, Telkamper, Wolf, Ecosocilaismo, Per un’alternativa verde in Europa, pubblicato in Metafora verde, n.1 1990) che si ispirava alle posizioni di Barry Commoner, Gorz e che in Italia prese la via dei Verdi Arcobaleno, dove confluivano spezzoni della “nuova sinistra”.
L’ecosocialismo, il bio-umanesimo, il “comunismo di base” di Luis Munford (Tercnica e potere), il “comunismo dei beni fondamentali” di Giorgio Nebbia, l’“ecologia rivoluzionaria” e ora il “comunismo decrescente” di Saito indicano sentieri di riconciliazione della società umana con la natura che implicano una rivoluzione antropologica. Una rivoluzione del sentire comune, nel senso di coscienza di specie che si recepisce come parte integrante della rete della vita, non soggetti esterni superiori. E ciò può avvenire solo riscoprendo un rapporto empatico, emozionante (non solo razionale e utilitaristico) con la natura, a partire dal proprio corpo. Nulla di new age. Nessuna fuga nell’intimismo individuale o nel metafisico. Al contrario, un processo di liberazione – non solo dell’immaginario – dalle costrizioni materiali che compromettono le possibilità di una vita piena e sana, ricca e soddisfacente. Timothée Parrique, commentando i lavori di Saito ha confermato che non potrà esserci mai un ridimensionamento pianificato democraticamente delle produzioni e dei consumi (al fine di alleggerire le pressioni ambientali) senza fare uno “sforzo di condivisione delle ricchezze e del benessere”. Il “regno della libertà” auspicato dal comunismo è quindi un mondo liberato dall’ossessione della crescita, della produttività, del denaro. Un “socialismo senza crescita”, un “comunismo decrescente”.
Testo, rivisto dall’autore, dell’intervento al seminario Decrescita: una via ecosociale al cambiamento, promosso a Brescia dalla Fondazione Micheletti il 31 marzo 2023.
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