LO SCANDALO DELLA CARITÀ. L’ULTIMO SPETTACOLO DI ANGELICA LIDDELL
Il teatro di Angelica Liddell viene spesso definito – a volte fin troppo facilmente – un teatro “scandaloso”, aggettivo che si porta dietro tutta la scivolosità della slabbratura che questo termine un po’ abusato porta con sé. Ma cos’è mai, oggi, uno spettacolo scandaloso? Oggi che i gesti un tempo “antiborghesi” sono percepiti come segni abituali, quasi scontati, addomesticati da un marketing del ribellismo, ogni provocazione finisce fatalmente per risultare scarica. Forse anche per questo, a volte, si finisce per confondere la ricerca dell’effetto scenico, dell’immagine che si conficca potente nella retina e nel cervello dello spettatore, come qualcosa di intimamente provocatorio.
Questa consuetudine allo scandalo, a ben vedere, sta più spesso negli scritti di chi il teatro lo racconta (e che spesso è, giusto o sbagliato che sia, incline alle “etichette”) piuttosto che nelle intenzioni di chi il teatro lo fa. Eppure l’ultimo spettacolo dell’artista catalana Angélica Liddell, «Caridad» – arrivato in Italia grazie a ERT in due date, purtroppo uniche, all’Arena del Sole di Bologna – contiene qualcosa che potremmo definire, a suo modo, scandaloso. La riflessione sulla “carità”, una delle tre virtù teologali del cristianesimo assieme alla “fede” e alla “speranza”, in intreccia ad una riflessione sulla pena di morte e sulla pena in generale che chiama in causa, in modo impellente, il concetto di giustizia delle nostre società, democratiche e liberali, che concepiscono sé stesse come baluardo di modernità e rispetto dell’essere umano.
Nei nove quadri, più o meno lunghi, che compongono lo spettacolo di Liddell ci sono diverse scene che creano un effetto visivo vivido, a tratti persino possente, ma che ricordano più l’efficacia della pittura che la frizione dello scandalo. Schermidori in sedia a rotelle che si confrontano; una donna che si abbandona a urla sfrenate, agghiaccianti; del latte che invade il palcoscenico e cola verso la platea; un tiralatte che fa la sua comparsa in mezzo alla scena; un vecchio che si attacca al seno di una giovane donna, succhiando come un bambino (che ricorda la leggenda romana di Cimone e Pero, resa celebre da Caravaggio e Rubens, e anche nota come caritas romana).
“Quanta carità sei disposto a sopportare?” chiede Liddell all’inizio dello spettacolo – e forse qui, nel discorso che l’artista allestisce, risiede davvero un nucleo di “scandalo”. Uno scandalo che si allontana dall’idea di provocazione per recuperare il suo significato etimologico di inciampo e turbamento, poiché proietta lo sguardo verso noi stessi, il consesso sociale e la sua pretesa di giustizia, piuttosto che verso gli altri. Liddell cita molte cose in «Caridad», ma si sofferma soprattutto sul Vangelo (Quante volte dovrò perdonare, Signore, sette volte? Non sette volte, ma settanta volte sette), su Bataille e l’intreccio inscindibile tra erotismo e morte de “Il processo a Gilles de Rais”, e sul Focault di “Sorvegliare e punire”.
Nonostante l’invenzione del carcere abbia allontanato dagli occhi del pubblico lo “spettacolo” della tortura, il corpo del condannato non cessa di essere il principale terreno in cui si consuma lo scontro tra l’ideale di giustizia e la sua concreta applicazione. Inciso: mentre lo spettacolo va in scena non si è ancora concluso lo sciopero della fame portato avanti da Cospito, la cui protesta contro le condizioni carcerarie al regime del 41-bis ha innescato un dibattito trasversale, che non aveva a che vedere con le sue posizioni politiche quando con la sua condizione di “corpo” affidato a un’istituzione dello Stato.
«Caridad», in una società che ha sempre più introiettato il meccanismo del merito e del demerito, della regola e della punizione, risulta scandaloso perché ci ricorda la natura profondamente rituale del meccanismo giuridico – così come risulta scandaloso Emmanuel Carrère in «V13», quando, parlando di un crimine atroce e violentissimo come gli attentati di Parigi del 2015, senza mai parteggiare per nessuno se non per le vittime, non si esime dall’affermare in modo netto e senza fronzoli che “il diritto penale è stato inventato per impedire ai poveri di derubare i ricchi, il diritto civile per permettere ai ricchi di derubare i poveri”.
“La pena non ha a che vedere con la legge e la giustizia, ma con la purificazione” ci dice Liddell, mentre evoca lo spettro della pena di morte, mostrando una ghigliottina rossa e ricordandoci la sua storia di pena “umanitaria” introdotta grazie allo spirito dei Lumi e alla Rivoluzione – quella rivoluzione capitanata da un Robespierre contrario alla pena capitale che si trovò, tuttavia, ad applicarla copiosamente. La storia della ghigliottina, che comincia dalla sua realizzazione ad opera di fabbricante di clavicembali e arriva alle ultime tre esecuzioni capitali avvenute in Francia (l’ultima risale a 1977), racchiude in sé il tentativo impossibile della ragione di dispensare giustizia coniugandola all’intransigenza e alla fermezza – e non è un caso, sembra dirci Liddell in controluce, se le grandi rivoluzioni si sono rovesciate in un bagno di sangue e se i crimini più efferati della Storia sono stati spesso compiute da popoli colti e raffinati; senza la carità, che viene prima e dopo della logica, non è davvero raggiungibile l’ideale di giustizia.
Liddell ce lo ricorda sì rievocando il carattere rituale del processo, ma anche soprattutto rammentando in maniera radicale il ruolo sacrificale della vittima: “Che tu sia la causa della mia morte non significa che tu sia il colpevole, amore mio. Nemmeno i bambini e i pazzi lo sono. Dai crimini emana solo un profondo canto all’innocenza. Cosa c’è di male a essere un mostro se il mostro è, tra tutti, il più innocente? Anche colui che dopo aver commesso una strage spara contro se stesso dovrebbe essere annoverato tra le vittime. Il mostro è il cadavere più solo al mondo. Inoltre, non so perché, ma essere leale al criminale mi fa sentire più onesta”.
Difficile immaginare uno scardinamento dell’ideale di giustizia più grande di questo. Difficile immaginare un maggiore “inciampo”. D’altronde nemmeno l’arte è esente dalle implicazioni più estreme di questo ragionamento, anche se può tracciare una strada di consapevolezza, anche se può illuminare l’inciampo: “La Carità implica l’accettazione totale della natura umana, inclusa la cattiveria, che non è altro che una gran concentrazione di sofferenza. / La cattiveria è una gran concentrazione di innocenza. La cattiveria è una gran concentrazione di libertà. / L’arte è una gran concentrazione di sofferenza, innocenza e libertà. / La proibizione getta luce su ciò che proibisce. Dateci proibizioni e risplenderemo sul rogo”.
Più che le immagini come gesto di provocazione, sono i discorsi di Liddell come inciampo a rivelarsi la scaturigine di un pensiero scandaloso che non è più retorico gesto di accusa contro gli altri, ma strumento di scandaglio dell’indicibile rivolto verso di noi.
Piccola nota conclusiva: dopo averci raccontato che la ghigliottina, prima di essere stata utilizzata fu testata su delle pecore vive e su cadaveri umani, sul finale dello spettacolo vediamo comparire delle pecore che, istintivamente, fanno presagire – sia pure come possibilità immaginata più che reale – un finale cruento, secondo il principio della pistola di Cechov, per cui se nel primo atto compare un’arma entro l’ultimo quell’arma dovrà sparare. Ovviamente non avviene nulla di tutto questo ma l’evocazione, forse sarcastica, si sovrascrive al rovesciamento del gesto scandaloso nel discorso scandaloso che sovrasta l’intero spettacolo (e di cui si trova traccia nel libro con il testo dello spettacolo pubblicato da Sossella editore, nella bella collana curata da Debora Pietrobono e Sergio Lo Gatto).
E sembra, in questo modo, andare a descrivere l’arco di una critica radicale dell’autoassoluzione dell’Occidente democratico, razionale e funzionale, rispettoso dei diritti e dispensatore dei meriti, innervato sempre di più di una ideologia del giusto senza sfumature, senza ombre, senza perdono. E se a qualcuno può sembrare che una simile critica costruita con le parole del Vangelo sia contraddittoria, giacché anche la morale cristiana è spesso sul banco degli imputati della Storia assieme alle politiche dell’Occidente, beh, forse proprio nel recuperarne uno dei messaggi più indigesti sta il nocciolo di scandalo più profondo che Angelica Liddell ci consegna con «Caridad».
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