PERCHÉ "QUANDO" DI WALTER VELTRONI, UNO DEI FILM PIÙ BRUTTI DI SEMPRE, PARLA ANCHE DI NOI
di Christian Raimo
“Sono andato al cinema da solo a vedere Quando di Walter Veltroni. Anche in sala ero da solo, finché non sono arrivati due pischelli che hanno pomiciato molto.
Quando è prodotto con il contributo del ministero della cultura (di cui Veltroni è stato titolare), della Regione Lazio, di Sky e di Primevideo.
È davvero difficile rendere l’esperienza estetica di questa visione, perché Quando assomiglia a una scena di due ore degli Occhi del cuore con il ritmo di un film di Andy Warhol. La mancanza di senso filmico e narrativo, di qualunque mordente della sceneggiatura, della più elementare espressività di montaggio a un certo punto fa sì che Quando si trasfiguri in una caricatura che è al tempo stesso un’opera d’avanguardia non voluta: i colori saturissimi di una fiction di Rai vengono estenuati da dialoghi interminabili di pura didascalia emotiva. Campi e controcampi in cui i personaggi sospirano e dicono cose tipo: “Non possiamo torturarci così, non è colpa nostra”, “Io ho paura”, “A me fa paura la libertà”, “L’ideologia era sbagliata, ma i sentimenti no”, “Ma ti rendi conto che…?”.
La trama di Quando è talmente esigua che difficilmente sarebbe sufficiente persino per un corto, coincide con un’idea di soggetto che non reggerebbe a una conversazione distratta. Un uomo di nome Giovanni Privasco si risveglia a Roma nel 2015 dopo 31 anni di coma; gli è caduta addosso un’asta durante il funerale di Berlinguer nel 1984. Già.
Al suo risveglio in ospedale c’è – in maniera del tutto immotivata – una suora, Giulia, che decide di prendersene cura con dedizione assoluta, anche qui non si sa perché.
Il resto del film è il progressivo e telefonatissimo riconoscimento da parte di Giovanni del mondo contemporaneo: internet, la fine del Pci, i tablet, i mondiali del 2006, etc…
Oltre a questo c’è un unico nodo: Giovanni, quando era studente al Mamiani, aveva una fidanzatina, Flavia, che però nel frattempo ha sposato il suo migliore amico, Tommaso. I due, saputo del risveglio, si straniscono, come se avessero un segreto oltre al segreto che già sappiamo. Il segreto è che la loro figlia Francesca è in realtà figlia di Giovanni; Flavia era incinta al momento dell’incidente.
Fine, nel film non c’è letteralmente altro.
Per colmare questo vuoto, una sfibratura per cui ogni scena ha una durata decupla rispetto a qualunque altro film, Veltroni usa tutti i riempitivi possibili,.Giovanni entra in un bar a prendere un tè freddo? Quattro minuti. Giovanni e Giulia vanno al ristorante per festeggiare la dimissione dall’ospedale? Quattro minuti del cameriere (Stefano Fresi) che snocciola il menu del ristorante stellato, “carbonara destrutturata”, “osmosi di pesce” – in una scena che Veltroni ha voluto costruire come comica provando semplicemente a mettere degli emoticon alla fine delle battute in sceneggiatura.
Non c’è un solo momento di Quando che sia evocativo, allusivo, ellittico. È come se fosse un film interamente girato con il metodo “O’ dimo” di Boris 4. Quando per esempio Flavia rivela il segreto della figlia a Giovanni, la scena è un biblico riassunto di come sono andate le cose da quando loro due erano adolescenti a oggi. Quando Giovanni rincontra la figlia Francesca, lei gli urla piangendo tutte le volte che Tommaso le è stato vicino e lui – in coma – no. Nel finale, i comizi moralisti in bocca a Giovanni si moltiplicano: fa i conti con la storia e con il futuro, nulla – né la crisi della politica postideologica né quella climatica – lasciano che Giovanni esiti nel prendere parola.
Ma asserire che Quando è enfaticamente didascalico non rende il livello di autodichiarazione permanente che Veltroni riesce a propalare. È come se vedessimo il registra entrare in campo ogni secondo con l’immagine di Magritte Questa non è una pipa per dirci: Ma no, è proprio una pipa, invece. Quando non è solo uno spiegone, è un metaspiegone, si ferma a spiegare quello che abbiamo appena visto, sottolinea in ogni modo possibile il messaggio che vuole esprimere, e nel momento in cui arriva a spossare il senso nella sceneggiatura, decide di farlo ancora e ancora. È come se qualcuno ci raccontasse una barzelletta che non fa ridere, e poi provasse a spiegarci perché dovrebbe fare ridere, e poi ce la raccontasse di nuovo scandendo una parola alla volta, e dicendoci Ehi, capito?
La parte principale in questo estremismo della tautologia è lasciata all’interpretazione di Neri Marcoré (Giovanni) che satura di parole ogni scena; a lui sono affidati una serie di monologhi sentenziosi, voci fuori scena, scene che dovrebbero essere sempre scene madri, dialoghi da Gpt versione Playmobil. Non c’è una sola scena, un solo secondo, che Veltroni senta che il suo film può reggere solo con le immagini.
“Fino adesso ti ho protetto dalla storia, ma sei diventato un ometto”, dice suor Giulia.
“Il mondo è cambiato in meglio o in peggio?”, chiede Giovanni.
“Solo tu ce lo puoi dire”, chiosa suor Giulia.
“Berlusconi è diventato prima presidente del Milan e poi del consiglio”
“Meglio se non mi svegliavo”.
“Qui c’era la libreria Rinascita”
“Ora c’è un supermercato”.
“La rinascita delle cotolette”.
La non credibilità del personaggio di Giovanni (la commedia che non fa ridere si alterna al dramma inverosimile, un mash up degli sketch di Antonello Fassari che faceva il compagno Antonio a Avanzi e di Goodbye Lenin, ovviamente) è tale che Marcoré mostra in controluce la sua involontaria comicità: per fare un personaggio che dovrebbe essere un adulto non del tutto cresciuto, Marcoré mette in scena sempicemente un coglione.
(Che parla schizofrenicamente un po’ come il suo Maurizio Gasparri e che si muove sbilenco un po’ come il suo Alberto Angela).
La non credibilità del personaggio di suor Giulia invece è talmente determinata dalla dolorosa incapacità di pensare al suo personaggio che si ha un po’ di pietas per Valeria Solarino. A lei Veltroni concede solo un sorriso ortodentale per ogni sentimento che è chiamata a portare sullo schermo. Felicità, rimpianto, dubbio, speranza: suor Giulia – Solarino sorride con composta sobrietà, per poi rimettersi nella sua casta impossibile inespressività.
Basterebbe già questo a rendere imbarazzante o autoparodico il tono del film, ma Veltroni è come se volesse evitare l’ipotesi più scontata, che lo spettatore si distragga o molli, che non ne possa più a un certo punto, che non riesca a farsi incantare da una bruttezza edwoodiana, e quindi affastella ogni momento di musica da piattaforma gratuita di campioni audio straziata per sottolineare in modo ridondante la sensazione elementare che vorrebbe trasmettere. C’è tensione? Piano con note basse. C’è il sole della primavera? Una ballata. C’è un momento di sollievo? Allora si canta in macchina insieme.
Ma questo sovraccarico sonoro non basta a riempire il vuoto anestetico che riguarda le quasi due ore del film, per cui appena si ferma la musica parte un pedante rumore di fondo: l’andirivieni di un pendolo, un gocciolio di una flebo, il ticchettio delle macchine ospedaliere o di un computer, lo sciacquettio delle bolle di un acquario, il miagolio di un gatto, il frinire onnipresente delle cicale, muzak, chiacchiericcio: ognuno di questi rumori è un chiaro segnale dell’accento che si vorrebbe mostrare nella scena, tensione, ritmo, paura, tenerezza, ma anche una rammemorazione costante di quel realismo da manuale di elettrodomestico che Veltroni è convinto forse sia la verosimiglianza.
Costretto a muoversi in un montaggio tra scene che è meno fluido dello scorrere di slide di un powerpoint, Veltroni prova a movimentare l’andamento della narrazione interruzioni di totale nero o di totale bianco. Del resto, non si capisce quali istruzioni siano state date al direttore della fotografia, ma i contrasti tra le scene drammatiche (quindi di notte o nello scuro di una stanza) a quelle più elegiache (quindi al sole) sono talmente polari che sembra che la palette sia stata ridotta a un interruttore.
Non meglio va agli operatori di macchina che hanno avuto istruzioni di usare le camere per i piani sequenza e per i dolly in maniera così incongrua da pensare che sia un progetto artistico surrealistico. La macchina, per esempio, segue in piano sequenza Francesca che passa da una stanza e l’altra e va al computer a lavorare, perché? Dentro il film ci sono così tante scene di raccordo in cui i personaggi si dicono: che mangiamo stasera?, fa caldo fa freddo, che il genere filmico a cui si avvicina di più Quando sono le lezioni di lingua o i tutorial. Altrimenti, se non si ossifica in un campo e controcampo sfinente da panchina o da bordo del letto, Veltroni alza la camera quando può e dove può: dolly e musica in crescendo si ripetono ogni sei sette minuti. Il cinema, secondo Veltroni.
Ancora: gli interstizi. Per dover spiegare il passaggio del tempo, la perdita, il rapporto inciampato tra generazioni, metà film è esattamente l’elenco di cose che c’erano e non ci sono più e cose che non c’erano e ora ci sono. Un album di figurine che non vuole assumere nemmeno il fascino della curiosità inesausta. A un certo punto Giovanni chiede al ragazzo che condivide con lui la lungodegenza di fargli una sintesi molto sintetica di tutto quello che s’è perso. E quello? Gliela fa. Meno di una decina di foto, meno di un paio di aneddoti.
Molte volte ci si chiede: siamo dalle parti di un Occhi del cuore con la luce ancora più sparata o dalla parte di Boris con gli attori che per un buon cachet ripetono sciattamente le loro macchiette? La presenza di Ninni Bruschetta o di Massimiliano Bruno ridotti a un ahò e un anvedi porta all’improvviso lo spettatore a estraniarsi e riflettere sui contributi pubblici che sono serviti a finanziare Quando.
Ma la domanda più onesta che ci si può fare invece è: perché occuparsi in maniera così accurata di un film di Veltroni? Per il piacere di stroncarlo?
La vita è breve, e c’è ovunque – anche nell’attesa di un idraulico – di meglio.
L’assoluta insipienza nel distinguere la dimensione poetica da quella informativa che riguarda il Veltroni produttore di testi e di immagini è effettivamente significativa tanto da essere un esempio di come qualunque linguaggio artistico, politico, giornalistico, narrativo, possa essere ridotto a uno spieghino o uno spiegone. Potremmo dire che il veltronismo è precisamente questo: la coincidenza pura di connotativo e denotativo.
Però non è solo questa terribile verità, che non riguarda solo Veltroni, che si dispiega platealmente a chi si mette di buzzo buono a vedere per intero Quando.
L’incoscienza della dimensione estetica fa di Veltroni regista o scrittore un caso paradigmatico e significativo anche per un’altra ragione. L’artista che usa solo letteralità in quello che fa, diventa interessante quando questa letteralità lascia il passo a quello che Veltroni non sa dire eppure dice.
C’è una scena del tutto slegata dal resto in cui Giovanni bambino alla festa dell’Unità viene chiamato sul palco a giocare insieme a un mago comunista, interpretato dal Mago Forest. Prende una carta e il mago dovrebbe indovinarla. Noi spettatori vediamo che non è così, ma Giovanni risponde che invece l’ha azzeccata.
Ecco che qui noi possiamo ritrovare il cuore del veltronismo: il pensiero magico eletto a ideologia politica.
In ogni romanzo o film o documentario di Veltroni c’è una scena o una dichiarazione del genere.
Del resto più volte Veltroni cita come suo film preferito L’uomo dei sogni.
È la storia di un uomo a cui una voce dal cielo dice di costruire un campo da baseball. L’uomo obbedisce alla voce, e alla fine non solo vede comparire da un passato fantastico i giocatori di baseball di una squadra mitica, ma anche la folla degli spettatori, e infine suo padre. Come scrive Veltroni a pag. 107 dell’Inizio del buio: “Quel campo diviene il luogo in cui passato e presente si toccano, in cui realtà e desiderio si conoscono”.
Realtà e desiderio nell’immaginario veltroniano non si conoscono, ma si confondono, riscritti in una versione edulcorata, in cui ciò che manca sono sempre gli elementi di conflitto – ossia il principio di realtà.
L’interpretazione psicanalitica dell’intera produzione veltroniana si potrebbe riassumere nella mancata elaborazione del trauma della morte del padre (Walter aveva solo un anno); ci sono continui ritorni su questo tema in ogni film o romanzo, e anche in questo. Il mancato conflitto edipico con il padre diventa in ogni produzione veltroniana anche il mancato conflitto in sé, il mancato conflitto con la Storia, con le contraddizioni del presente, con il reale.
In Quando il padre di Giovanni è morto ma questo non sembra causare nessun dolore, come se Giovanni non ne prendesse veramente coscienza – e del resto è l’unica figura che non va a trovare (al cimitero o in altre forme) nel suo ritorno al mondo. Così anche la fine del comunismo, la morte di Berlinguer, la caduta del muro, etc… sono interpretate dal coma di Giovanni come eventi non traumatici, che hanno lasciato un’idea totalmente adolescenziale della storia politica del novecento. Giovanni lo dice proprio: non mi piacevano le ideologie, ma i sentimenti, e i sentimenti sono nel mondo una confusa nostalgia giovanile, le bandiere rosse e i primi baci, il jukebox e Italia Germania 4-3. Il correlato oggettivo di questo discorso finale è, in un crescendo di cringe, la figura di un vecchio militante interpretato da Pierluigi Battista.
Noi spettatori dobbiamo essere incantati dall’incubo veltroniano, alla lettera un trauma che né lui né noi vogliamo affrontare, e che continuiamo a portare avanti con la coazione a ripetere di chi sa che ci saranno altri film e altri romanzi di Veltroni che corrisponderà alla pigrizia tenace, alla pervicacia di non elaborare nemmeno un conflitto della Storia”.
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