Lunedì 17 aprile 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto
Giuseppe Leuzzi
Il signor latitante – o la lotta alla mafia
Più si va avanti, per giunta stancamente, in questa vicenda di Messina Denaro più si resta sconcertati. Come il giudice Montalto, uno specialista dei “concorsi esterni”, ma anche di più. Che l’uomo più ricercato d’Italia frequentasse familiari, parenti, amici, conoscenti. Girasse in automobile, da solo, senza staffette o guardie del corpo, a rischio incidenti, o multe. Con più di una residenza. Uno che faceva la spesa. E probabilmente andava al ristorante. Non ogni giorno, certo, ogni tanto, come tutti. Con i suoi tratti fisionomici, senza maschere né plastiche. E per contrasto, scorrendo il giornale, si legga delle indagini a tappeto, con schieramento di almeno tre giudici della Procura di Torino, e di decine o centinaia di Guardie di Finanza, per ascoltare, registrare, selezionare le conversazioni quotidiane di decine di dirigenti e impiegati di una squadra di calcio, per giorni, settimane, mesi, probabilmente anni, alla ricerca, con insistenza, acribia, determinazione, di un qualche fumus delicti. E questo è il quadro: al Sud si può delinquere impuniti, anche di delitti gravi e gravissimi, mentre di una squadra di calcio si cerca anche il pelo nell’uovo. Si dice che Messina Denaro è stato protetto dall’omertà. Non lo è stato (quanta omertà ci sarebbe voluta nel suo caso?), è stato protetto dal menefreghismo. La stessa lentezza con cui la miriade di contatti “normali” del superlatitante emerge dice che non c’era molto materiale già raccolto su di lui. Che si procede a naso – a tentoni si direbbe nel falso toscano. Di fatto, senza interesse, senza impegno, nemmeno “normale”.
Ma se l’omertà ci fosse, di decine, centinaia di siciliani dell’agrigentino, quelli del commissario Montalbano, e avesse protetto Messina Denaro, si capirebbe: non si può fare il poliziotto contro lo “Stato” – c’è nei gialli americani, ma sono buffonate. Il servizio “I” della Guardia di Finanza, che controlla fino al cosiddetto buco del culo della Juventus, a Torino come già a Napoli, non lo permetterebbe.
Si potrebbe pensare Messina Denaro protetto dall’incapacità. Ma lo stesso giudice Montalto ha smosso montagne per avere i fratelli Graviano testimoni contro Berlusconi. Come già la Guardia di Finanza con le sue perquisizioni quotidiane, e biquotidiane, negli uffici e le residenze del tycoon milanese: quando si vuole si fa l’impossibile. Il problema del Sud è che non ha Agnelli o Berlusconi, roba in grado di stimolare il fiuto degli investigatori – non si fa carriera. Una volta si diceva dei funzionari pubblici per un qualche motivo in disgrazia che sarebbero stati mandati a Petralia Sottana, oppure “in Sardegna”. Si vede che non era, non è, un modo di dire.
La bistecca sintetica era già nata, e morta, a Reggio Calabria
Avvicinandosi alla fine, il protagonista del romanzo di Rocco Carbone “L’apparizione”, 2002, ritorna alla città natia, dal padre, e in macchina si spinge poi oltre, fino a “una fabbrica, costruita a ridosso della costa, accanto alla spiaggia”, in stato di abbandono. La città è Reggio Calabria, e la fabbrica è Saline Joniche, costruita sotto Reggio Calabria perché senza spese, a carico dello Stato, per la “chimica dei “pareri di conformità” dei governicchi andreottiani del compromesso storico nei secondi anni 1970. Un luogo abbandonato che a Carbone è sembrato propizio per ambientarvi l’esito tragico del romanzo.
Il protagonista del romanzo “conosceva quel luogo”: “Era stato costruito quando lui era un ragazzo ed era l’unico grande impianto industriale di tutta la regione. Avrebbe dovuto produrre materiale biochimico, ma non era mai entrato in funzione, perché nel lungo tempo impiegato per la sua costruzione si era scoperto che i rifiuti di produzione erano tossici”. Il “materiale biochimico” era la “bistecca sintetica”. Un derivato dal petrolio, su licenza della British Petroleum, che però non l’aveva mai sperimentato industrialmente, per non sprecare l’investimento.
L’impianto costò la carriera a Guido Papalia, il magistrato che s’illustrerà a Verona nella liberazione del generale Dozier, l’unica azione condotta positivamente contro le Br. Ma anche nella lotta puntuale alla corruzione, attorno alle Casse di risparmio, e contro le melensaggini terroristiche dell’indipendentismo padano, del primo Bossi. Senza però andare oltre l’incarico di Procuratore Capo a Verona, perché classificato al Csm di destra. A causa dell’indagine che aveva aperto a Reggio Calabria sulla bistecca sintetica. Sul gruppo della bistecca sintetica, la Liquigas di Raffaele Ursini, un ragioniere di Roccella Jonica portato alla grande finanza da Michelangelo Virgillito, operatore di Borsa, milanese di Paternò vicino Catania. Sul traffico di influenze, o corruzione, che aveva facilitato i trasferimenti pubblici alla “bistecca”. E sul trasferimento di parte di questi “trasferimenti” alla “Svizzera”, via la capogruppo Liquigas, cioè al tesoro personale di Ursini. L’inchiesta gli fu scippata – finirà insabbiata – e il giovane Papalia fu trasferito lontano.
Siete meridionali? State confiscati!
Stia punito! Era il leitmotiv del servizio militare quando era d’obbligo. Ora la leva non c’è più, ma l’ordine dei servitori dello Stato non è venuto meno: invece che punire, confiscano – e poi arrangiatevi.
Alessandro Barbano, “L’inganno”, denuncia un “sistema” dove l’eccezione diventa regola. Al Sud sequestri e confische di beni e patrimoni colpiscono a caso, migliaia di cittadini e imprenditori mai processati, oppure assolti, ma con “sentenze” di condanna comunque indelebili emesse dagli inquirenti sui media. O anche liberamente – nomn c’è bisogno di condanna - applicati ai patrimoni dai “tribunali speciali” addetti alla “prevenzione” del crimine. Questi giudici possono, senza dover provare niente, sequestrare, confiscare e anche alienare i patrimoni di gente anche onesta, a uzzo di voci e convinzioni, che spesso non è condannata – in un paio di casi nemmeno indagata – e perde tutto (quando il patrimonio viene restituito è sempre azzerato di valore: le confische servono a riempire le tasche di amministratori che il tribunale di prevenzione nomina liberamente, tra amici e consoci). Barbano ricostituisce anche storie di eredi, figli o nipoti, confiscati perché non provano in tutti i dettagli la provenienza del patrimonio.
Si anticipano giudizialmente e si impongono leggi inutili o cattive. Si moltiplicano i reati e le pene. Professando di fatto il rovesciamento dello Stato di diritto, sotto l’apparenza di una migliore difesa contro le mafie. Con un uso spropositato delle punizioni amministrative, non contestabili, in uso nel fascismo, quali appunto le interdittive antimafia e la carcerazione preventiva. Assortite dagli scioglimenti a iosa dei consigli comunali, solo per distribuire incarichi e prebende ai funzionari prefettizi. Per non dire degli arbitrii giudiziari veri e propri, che in un ordinamento costituzionalmente regolato sarebbero materia penale. Sotto le bandiere dell’antimafia, che poco cura le mafie, giusto quanto basta alle carriere.
Barbano cita i numeri di una ricerca dello scrittore Mimmo Gangemi – che non è riuscito a pubblicarla – sulle retate periodicamente disposte dal Procuratore Antimafia Gratteri e le condanne: ogni volta centinaia di arresti, e poi una decina di condanne, anche meno. Cita anche almeno un caso di manipolazione delle prove, a opera degli inquirenti – ma si sa che la pratica è costante: una registrazione tagliata a metà prodotta in aula come testimonianza d’accusa. Della moglie che chiede al marito, di una persona di cui si parla: “Ma è mafioso?”, che diventa: “Ma è mafioso”.
E non è tutto, qualcosa ancora andava detto, perché è il nodo centrale di un’antimafia che è diventata una questione politica del tipo “leghista” - si ricordano ancora con orrore le maledizioni, non remote, di Bobbio, che sulla “Stampa” di Torino il Sud voleva recintato con i cavalli di frisia, e di Galli della Loggia, che ipotizzava un nuovo decalogo, sempre sulla “Stampa”, “contro la mafia”, attorno al principio che “lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”, tagliando l’acqua, la luce e il telefono, togliendo la patente - e poco efficace sul piano criminale, della prevenzione e del contrasto al crimine. Le “retate” di Gratteri nascono dalle informative che i comandanti delle stazioni locali dei Carabinieri quotidianamente redigono, senza accertamenti, sulla sola voce popolare. La quale, essendo i Carabinieri ormai da quarant’anni barricati dentro caserme con le sbarre, è quella degli informatori. I quali più spesso sono gestiti dai mafiosi. Con l’effetto che si parla da anni, da decenni, da poco meno di un secolo ormai, degli Alvaro di Sinopoli, dei Mancuso del Monte Poro, marine del capo Vaticano incluse, dei Grande Aracri di Crotone, che sono sempre lì – i Piromalli di Gioia Tauro, i Mammoliti di Castellace, i Pesce di Rosarno, i Pelle di San Luca, i Crea di Rizziconi, i Cordì e i tanti altri di Locri sono andati in bassa fortuna, ma per errori o impicci loro.
Se mafioso era Pantaleone
Si ricorda ancora con raccapriccio l’uso disinvolto che di queste informative, o note di servizio, fu fatto dalla prima Antimafia parlamentare - che il giornalista “Straccio”, Paolo Liguori, documentò sul “Giornale” di Montanelli. Le tante cattiverie raccolte dai Carabinieri di Villalba (Caltanissetta), negli anni 1940-1960 a carico di Michele Pantaleone, socialista, sociologo e parlamentare, che documentò gli intrecci politici della mafia siciliana, con libri importanti, valutati e pubblicati da Einaudi: “Mafia e politica”, 1962, “Mafia e droga” 1966. Riproponendo tutte le voci che lo davano intrigante in paese, borsanerista in guerra, incettatore di grano nel dopoguerra, adultero, eccetera.
Già nel 1969 Pantaleone poteva pubblicare, sempre da Einaudi, “Antimafia: un’occasione mancata”. Ma le voci di cui si nutriva la prima Commissione erano le Note di servizio dei Carabinieri di Villalba, notorio centro di mafia, controllato fin dal primo dopoguerra da Calogero Vizzini – le Note di servizio raccolgono le voci degli informatori, che a giudizio del maresciallo comandante la stazione, o brigadiere, hanno qualche fondamento. Oppure sono utili allo “Stato” - al ministro, al potere.
Sicilia
È la regione italiana con il maggior numero di abbandoni scolastici, il 21,2 per cento nel 2021, un ragazzo su cinque.
Il presidente della Regione Schifani dice no ai pannelli solari: “Ho deciso di sospendere il rilascio delle autorizzazioni per il fotovoltaico. Questa attività porta lavoro? L’energia rimane in Sicilia? No. Rimane il danno ambientale”. Elementare: consumo e desertificazione del territorio – il verde spesso si morde la coda.
Natalia Ginzburg vi è nata, a Palermo, ma ne ha poco ricordo, nelle tante memorie. Giusto una filastrocca, probabilmente memorizzata dalla madre: “Palermino, Palermino,\ sei più bello di Torino”. Se ne dispiace: “Io ero, a quel tempo, una bambina piccola; e non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale, dalla quale ero partita a tre anni. M’immaginavo però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo, come mia sorella e mia madre; e della spiaggia di Mondello, dove andavamo a fare i bagni, e di una certa signora Messina, amica di mia madre, e di una ragazzina chiamata Olga, amica di mia sorella, e che io chiamavo «Olga viva» per distinguerla dalla mia bambola Olga”. Ma non ci è mai tornata. Neppure per presentare un libro o una sua commedia. Era nata un 14 luglio, che è la presa della Bastiglia ma anche la festa di Palermo, di santa Rosalia.
Palermo invece la ricorda, in due modi, come scrittrice e come figlia: una via le ha intitolato, nella parte Est della città lungo l’Oreto, tra la stazione centrale e Brancaccio, col nome Natalia Levi Ginzburg. Col nome cioè anche di famiglia, il padre, professor Giuseppe Levi, insigne anatomista, essendo stato professore a Palermo per cinque anni, dal 1914 al 1919 (con lunghi intervalli al fronte, volontario ufficiale medico), prima del trasferimento a Torino – che si considera “la” città di Natalia.
Giuseppe Levi invece non ha lasciato altro ricordo a Palermo. Pur essendo stato il maestro di tre premi Nobel: i torinesi Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, e il calabrese (di Catanzaro) Renato Dulbecco. La letteratura sì, la scienza non è siciliana?
“È nato mio fratello, nella nostra famiglia siciliana c’è molta frenesia per il figlio maschio”, racconta Stefania Craxi sul “Corriere della sera” della sua infanzia. Domanda Cazzullo, l’intervistatore: “Suo padre non era milanese?” “Era nato a Milano, parlava dialetto milanese, sapeva tutte le canzoni popolari, oltre a tutte le canzoni politiche, da quelle anarchiche a quelle fasciste; ma era un siciliano”.
“Era un papà molto fisico”, continua Stefania Craxi: “Non abbiamo una sola foto insieme in cui non siamo abbracciati o per mano. Ma era un padre impossibile. Era gelosissimo di me”. Tutto verosimile, al limite della caricatura – ma Craxi allora sicuramente siciliano in questo, che non teme l’eccesso, la caricatura.
Fra i tanti questori e commissari con cui Tina Pizzardo, la fiamma di Pavese a metà degli anni 1930, antifascista, ebbe a che fare nel decennio, di uno conserva memoria perfino grata, nel postumo libro di ricordi “Senza pensarci due volte”: “Un giovane siciliano alto, con un grande naso a vela”, che si presenta come “dottor Lutri dell’ufficio politikco”, e sbriga subito le formalità perché Tina possa andarsene dopo una convocazione in questura. “Negli anni a venire avrò spesso da fare con l’ufficio politico”, continua Pizzardo, “”e troverò sempre nel dottor Lutri correttezza, comprensione e, per quanto possible, protezione dai soprusi polizieschi”.
“Vorrei far notare”, lamenta Sciascia con l’intervistatore del “London Magazine” Ian Thomson, giugno 1985, “che noi siciliani abbiam scritto sporadicamente libri storici e sociologici sulla mafia. Ma per quanto riguarda il racconto, non c’è quasi nulla sull’argomento”. Cioé: siamo ottimi e numerosi scrittori di racconti, ma è come se non ci fossimo, siamo solo scrittori di mafia.
Ma è “colpa” di Sciascia. Col successo del “Giorno della civetta” ha aperto un grasso filone a Milano, all’editoria. Un filone doppio, alle storie di mafia e ai gialli, che in Italia fino a lui pochi amavano.
Anche Riina, per la verità, ha contribuito, il tranquillo padre di famiglia che organizzava e ordinava stragi a ripetizione, di mafiosi, e di giudici, politici, militi, generali, giornalisti. Col senno di poi, anche nel suo caso l’antimafia sembra sia stata a lungo debole, debolissima. L’antimafia vera, dell’apparato repressivo.
leuzzi@antiit.eu
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