E’ uscito da poco per il Mulino Nel nome di Dreyfus. La storia pubblica di un caso di coscienza, di Clotilde Bertoni. Pubblichiamo il primo e l’ultimo paragrafo dell’introduzione riprendendoli dal sito https://www.leparoleelecose.it/?p=48806.
1. «Grande feuilleton nazionale»: un romanzo della realtà
«L’Affaire già tanto balzachiano […] è divenuto tanto shakespeariano con questo precipitoso accumulo di scioglimenti» scrive Proust a Geneviève Straus nel settembre 1898, dopo una doppia, decisiva e sconvolgente svolta dei fatti; molto più avanti Albert Thibaudet noterà che se con la Comédie humaine Balzac ha voluto fare concorrenza allo stato civile, l’Affaire suddetto è stato probabilmente «la sola concorrenza vittoriosa che lo stato civile abbia fatto a sua volta alla Comédie humaine». E nel mezzo, specie nella fase più incandescente degli eventi, fioccano a volontà altri rimandi letterari, non sempre poi altrettanto illustri: quasi contemporaneamente a Proust, Jean Cornély osserva che «I misteri di Udolpho, il celebre romanzo di Ann Radcliffe, sono ormai scavalcati dal feuilleton su cui viviamo da sei mesi»; nel 1899, ad aprile, Guglielmo Ferrero definisce «lo scandalo dreyfusiano» «una specie di teatro» che appaga quotidianamente «tutte le immaginazioni avide di romanzesco»; a maggio Scipio Sighele lo ritiene fluttuante tra l’«altezza d’un poema» e i «miseri artifizi d’una farsa»; a settembre Marcelle Tinayre lo dichiara «grande feuilleton nazionale»; e nel 1903 Joseph Reinach (tra i suoi protagonisti e suo primo storiografo) rammenta, non troppo iperbolicamente, che nel periodo culminante il grosso pubblico trascurava i romanzi, poiché non ce ne erano di paragonabili a quello che viveva «giorno per giorno»1.
Le citazioni si potrebbero moltiplicare. Sommovimento sconvolgente di una fin de siècle divisa fra tensioni diverse2, durato dal 1894 al 1906, tra il 1897 e il 1899 giunto a risucchiare l’attenzione planetaria (a un livello in genere raggiunto solo dai grandi cataclismi), l’Affaire Dreyfus appare a tutti un incredibile romanzo della realtà, tanto più in grado di spodestare la fiction perché in grado di evocarne tutti i filoni, di volta in volta, come si è appena visto, assimilato al teatro shakespeariano, al romanzo realistico, al feuilleton d’evasione, alla commedia di grana grossa. È storia a forti tinte ma anche a tinte screziate, in cui i passaggi foschi hanno tratti caricaturali, quelli comici un sottofondo cupo; è storia antica che gronda lacrime e sangue, avvolta di tenebre mai diradate del tutto, costellata di ingiustizie, complotti e soprusi, «guerra a colpi di carte false», accostabile, secondo il Jean Jaurès suo grande denunciatore, a quelle a colpi di «coppe avvelenate» delle corti cinquecentesche3; è storia modernissima di lotta, oltre che per un uomo, per i diritti umani in generale, condotta alla luce del sole, anzi di riflettori troppo abbaglianti; tra gli innumerevoli scandali sensazionalistici che contrassegnano la modernità4, è in assoluto il più pirotecnico, disseminato di sorprese spiazzanti, folto di conflitti al tempo stesso nevralgici e mediatici, oscillante tra momenti tragici, occasioni tragicomiche, siparietti comici tout court.
Innanzitutto, è la vicenda in parte ancora enigmatica di un atto di spionaggio a favore della Germania imperiale, in effetti poco rilevante, ma classificato come alto tradimento; dell’arresto a sorpresa, presso il ministero francese della Guerra, di un innocente, il capitano ebreo Alfred Dreyfus, creduto, se non voluto, colpevole a ogni costo; di un enorme e stravagante abuso giudiziario perpetrato in segreto, di un’istruttoria misteriosa, di un processo a porte chiuse, di una condanna iniqua alla deportazione a vita in una sperduta isola della Guyana; di un colpevole vero, il maggiore Ferdinand Walsin-Esterhazy, a lungo ignorato, in sostanza sempre impunito; di abusi ulteriori, di intricate sovrapposizioni tra la giustizia militare e quella civile, di accordi stretti dai vertici dell’esercito e della politica nel chiuso degli uffici e dei corridoi.
Ma diventa pure una vicenda pubblica, reiteratamente bloccata da colpi di forza, irresistibilmente riaperta da colpi di ingegno e da colpi di scena: che vede l’opinione e la stampa prima compatte nel plauso alla condanna – in parte per accanimento antisemita, soprattutto per fervore militarista – poi radicalmente lacerate; che dopo processi sbarrati agli spettatori, prosegue con processi spettacolarizzati al massimo; che aggredisce i poteri costituiti come l’inerzia conformista, che scuote o forma le coscienze, che catalizza fantasie, identificazioni, commozioni a volontà.
Ed è una vicenda di incessanti contrapposizioni: tra intellettuali che sottomettono la propria capacità di discernimento all’autorità costituita o a preconcetti perentori, e altri che invece si vogliono tali in pieno, che rivendicano la loro autonomia di giudizio fino a conseguenze assai pesanti; tra uomini di legge che dietro la soggezione alla norma mascherano a stento quella a poteri più forti, e altri invece determinati a tradurre la legge in giustizia; tra una maggioranza, in principio schiacciante, di politici dominati dalla paura o dall’opportunismo, e una minoranza, progressivamente più nutrita (ma sempre esile), di altri che non temono di andare all’assalto.
Certo, la cronaca nera e giudiziaria riesce in innumerevoli altri casi a dimostrare che, secondo un celebre, citatissimo verso di Nicolas Boileau, «il vero può a volte essere inverosimile»5, e a irretire l’attenzione quanto le invenzioni più spericolate6; ma probabilmente niente è mai arrivato a farlo al livello di questo romanzo della realtà, non solo assimilabile ai filoni letterari più vari, ma più di tutti irregolare e spiazzante. È un romanzo fatto di villains sciocchi o eccentrici, di eroi troppo acclamati o troppo ignorati; di una moltiplicazione vertiginosa delle carte posticce, arma tipica degli intrighi di potere7, di documenti taroccati controllati in ritardo, di un documento clamorosamente e bizzarramente falso oggetto di una scoperta altrettanto clamorosa e bizzarra, di uno invocato da molti e mai visto da nessuno, perché, anziché falso, inventato di sana pianta; di duelli alla spada e alla pistola generalmente (ma non sempre) innocui, di ben più cruciali duelli giornalistici e giudiziari, di rotture aspre e sintonie impreviste, di suicidi che forse non sono tali, di zuffe, aggressioni, attentati. Ma è pure un romanzo trapuntato di banchetti, mondanità, pettegolezzi da caffè e salotto, e spunto di mode, gadget, giochi di società: in cui compaiono due ufficiali gaudenti, presi da signore della buona società e altrettanto presi l’uno dall’altro; chiacchierate donne di identità incerta, da una «dama velata», argomento di conversazione per mesi, che molto semplicemente non esiste, a una «dama bianca» assidua spettatrice dei processi, a un’altra, a lungo sconosciuta, tra le cui braccia (per ingentilire un po’ le cose) un presidente della Repubblica ha il malore in seguito al quale perderà la vita che mai ha voluto angustiata da questi eventi; giornalisti francesi che organizzano un funambolico appostamento notturno per essere i primi a vedere il Dreyfus finalmente ricondotto in patria, e giornalisti stranieri che affollano il suo secondo processo militare pur non potendo capirne una parola causa ignoranza della lingua; un celebre attore che, ascoltandolo in quell’occasione contraddire un testimone con voce troppo flebile, sbuffa che lui avrebbe saputo pronunciare ben altrimenti le sue parole.
Ma se avvince per anni le aspettative allo spasimo, questo strano romanzo non riesce a gratificarle abbastanza: stuzzica la bramosia di melodramma imperversante, per frustrarla a più riprese8; non offre una morale edificante, non approda a un finale consolatorio. La scoperta e lo smascheramento del traditore autentico arrivano davvero, proprio come nelle messinscene a effetto, ma, diversamente che nelle messinscene a effetto, non servono a rimediare all’ingiustizia; l’happy end attesissimo è tardivo, apice imperfetto di un faticoso epilogo, lontano dalla conclusione trionfale come dal bagno di disgrazie alternativa classica dei feuilleton, e troppo lento e sfilacciato pure per il più complesso dei romanzi realistici: vede le colpe nell’insieme accertate ma non punite affatto, l’innocenza risarcita parzialmente, le speranze più radiose infrante, le antiche alleanze disgregate.
E oltre a non rispettare la regola secondo cui i buoni devono finir bene e i cattivi male, lo svolgimento dei fatti non divide buoni e cattivi in modo immancabilmente netto, non traccia sempre antinomie convenientemente rigide. Certo, nell’insieme quelli noti come schieramento antidreyfusardo e schieramento dreyfusardo sono radicalmente in contrasto: il primo è arroccato su un autoritarismo protervo e su preconcetti oscurantisti, il secondo è strenuamente proteso a chiedere giustizia e ad affermare i principi illuministi a fondo; si tratta davvero di una «battaglia del giorno e della notte», come osserva (citando Hugo) Daniel Halévy, tra i giovani dreyfusardi più coinvolti9. Ma a guardare da vicino, le cose sono meno semplici: entrambi i fronti riservano parecchie sorprese, come qualche primo esempio basta a evidenziare. Due degli antidreyfusardi più smodati, i giornalisti Édouard Drumont e Henri Rochefort, peraltro diversissimi l’uno dall’altro, ma furiosi antisemiti entrambi, sono anche entrambi sinceri sostenitori dei diritti e delle lotte del proletariato; tra gli alfieri dei dreyfusardi spiccano il repubblicano moderato Joseph Reinach, gran borghese ricchissimo e politicante avvezzo a manovre e compromessi, e il repubblicano di destra Ludovic Trarieux, relatore della più severa tra le leggi repressive (le cosiddette «leggi scellerate»), varate contro le contestazioni anarchiche; gli stessi numerosi anarchici che militano al loro fianco non sono affatto omologabili, includono libertari a tutto tondo come Bernard Lazare e Octave Mirbeau, ma anche l’Urbain Gohier antimilitarista quanto antisemita (all’altezza di Drumont e di Rochefort), che non abiura mai i suoi preconcetti; Edgar Demange, fedele avvocato dell’innocente Dreyfus, in precedenza difende (inutilmente) Henri Pranzini, criminale dei più biechi, e fa assolvere il virulento antisemita Antoine de Morès dall’accusa di aver ucciso in duello un altro capitano ebreo, Armand Mayer; Maurice Tézénas, facondo avvocato del colpevole Esterhazy, prima della sua causa patrocina (con successo) quella sostenuta dallo scrittore poi dreyfusardo Lucien Descaves per il romanzo antimilitarista Sous-offs; il colonnello Georges Picquart, insieme a Émile Zola idolo dei dreyfusardi per eccellenza, è, e rimane, oltre che a sua volta (benché a livelli blandi) antisemita, un militare sostanzialmente reazionario, in ottimi rapporti con il generale Gaston de Galliffet, famigerato sterminatore della Comune (che finirà, quasi malgré lui, per contribuire alla lotta innocentista); il senatore Auguste Scheurer-Kestner, tra le coscienze più pure scese in campo, riserva a un altro dei personaggi più ammirevoli, la giornalista Caroline Rémy nota come Séverine, considerazioni maschiliste di una triste volgarità esagerata anche per l’epoca. Di casi, o di tragitti, disorientanti, ne incontreremo molti altri: ai livelli più vari la complessità, in una certa misura l’incoerenza, sono cifra costante dell’Affaire.
Ma questo turbolento, destabilizzante romanzo della realtà è anche, per usare la formula che impazza attualmente, trionfo dello storytelling, o meglio, di forme di storytelling disparate10: dal principio alla fine, e oltre, è insistentemente ordinato e compresso da mitologie differenti, ma che ne stringono sempre le sfaccettature e incongruenze in una logica prestabilita, in una coerenza caparbia; che, pur a volte smaccatamente inverosimili sul piano fattuale, rispettano un certo «verosimile estetico», cioè assecondano l’insieme di credenze, ossessioni e cliché che condiziona il pubblico a cui sono rivolte e che ne forma le aspettative11. Le mitologie del fronte antidreyfusardo, intrise di fanatismo tracotante e spinte alla mistificazione spudorata, sono preesistenti all’accaduto, e ne orientano subito, anzi ne sfigurano imperiosamente il corso; quelle del fronte dreyfusardo sopraggiungono più tardi, generate dalla battaglia di giustizia stessa, ma comunque affondano in convinzioni e stereotipi sedimentati, e, se non sfigurano, riconfigurano i fatti. In gradi molto vari, tutte offuscano la problematicità della vicenda, irreggimentano e restringono il suo senso.
[…]
5. «La realtà ha compiuto questo miracolo»: una storia d’amore
La presa dell’Affaire, comunque, è magari offuscata o deviata, ma mai del tutto neutralizzata dalle narrazioni che l’affollano; travalica quella delle mitologie di cui è incrostata, come quella della fiction più adagiata su di esse. Proprio la varietà delle sue componenti, sfuggente a ogni tentativo di serrarla in una coerenza artificiosa, le ha permesso di resistere, sia pur in forme vaghe, nella memoria collettiva; probabilmente specie grazie alla potenza di una di esse, che non abbiamo valutato ancora.
A suo tempo il già citato Scipio Sighele, noto giurista e sociologo, osserva che mentre fino ad allora un romanzo in grado di avvincere senza «la donna e l’amore» appariva impensabile, con l’Affaire la realtà, «più strana e più inverosimile di qualunque romanzo», «ha compiuto questo miracolo»32. In superficie, sembra constatare l’ovvio; di fatto sbaglia, su tutta la linea. Non tanto perché in realtà nel caso ci sono parecchie donne, dalle compagne assai partecipi di alcuni dei protagonisti (Lucie Dreyfus, Alexandrine Zola, Marguerite Labori), alle giornaliste d’assalto della «Fronde»; visto che purtroppo il loro contributo viene riconosciuto solo in modi tiepidi e parziali. E nemmeno perché ci sono diversi legami sentimentali in gioco, dalle avventure (quasi tutte precedenti al matrimonio) di Dreyfus, strombazzate fino allo sfinimento dagli antidreyfusardi, al suo intenso rapporto coniugale con Lucie, dalla relazione di Esterhazy con Marguerite Pays a quella di Picquart con Pauline Romazzotti, a quella clandestina che unisce Schwartzkoppen e Panizzardi (senza precludere loro di averne parallelamente altre, sempre clandestine, con signore sposate); visto che, sebbene oggetto di pettegolezzi, o pure di bieche strumentalizzazioni, tali legami comunque non attirano mai granché l’attenzione collettiva.
Ma per un’altra, più essenziale ragione: perché in senso lato, l’Affaire è tutto una storia d’amore. Una storia d’amore a più facce: di amore fraterno, in cui il vincolo di sangue sentito con l’anima dal Mathieu Dreyfus inizialmente unico a non rassegnarsi, si dilata via via tra i combattenti (come nota tempestivamente Zola) in un provvisorio quanto travolgente senso di fraternità ideale; di amore generoso, di solidarietà, di sodalizi, di abnegazione; di amore per l’umanità e per la giustizia, vissuto nel fondo della carne. Anche per questo è storia ardua da trasferire nella finzione artistica; che, se non è necessariamente in conflitto con l’etica, se non è sempre incompatibile con i buoni sentimenti come vuole una celebre, troppo enfatizzata, constatazione di André Gide, certo spessissimo fatica a esprimerli senza cadere in toni pedagogici o melensi33. E d’altra parte anche per questo, proprio come scrive Sighele, è un «miracolo» della realtà, diverso da ogni scandalo precedente e successivo: come evidenziano, lo vedremo, tanti momenti delle sue varie stagioni, alcuni rimasti famosi, altri assai meno noti.
Ad esempio, certi momenti delle prime fasi, del tempo dello sconforto, di quello della speranza: Lucie che dopo la condanna convince a resistere il marito determinato a suicidarsi; Mathieu che le promette di rimanere al suo fianco a reclamare giustizia, e per farlo rinuncia per anni a tutta la sua vita; Lazare, primo intellettuale esposto, che cerca di sensibilizzare gli interlocutori più vari, sbattendo contro muri di scetticismo o noncuranza con «meravigliosa testardaggine»34; l’uscita del J’Accuse, che riapre di colpo la storia creduta insabbiata, facendo ai giovani caduti nello sconforto l’effetto di «un potente cordiale»35.
Oppure, certi momenti del processo Zola: lo scrittore quasi sessantenne, miope, fragile, tanto a disagio in pubblico, che entra ed esce dall’aula subissato di contumelie e assalti dei nazionalisti e degli antisemiti, ma circondato da amici che gli fanno scudo con il loro corpo; la sua dichiarazione ai giurati, in cui, con voce malferma e parole saldissime, impegna sull’innocenza di Dreyfus la propria esistenza e le proprie opere; il Grimaux prestigioso chimico (fervido ammiratore dell’esercito ma del magis amica veritas persuaso seriamente), che, senza averlo mai visto, testimonia caldamente in suo favore, ben sapendo di giocarsi così la cattedra e il laboratorio sua ragione di vita; Jaurès che, testimone a sua volta, trasforma la propria deposizione in un comizio così travolgente da disarmare per un istante persino il severissimo presidente della Corte; Clemenceau che, in reazione ai continui moniti sul dovere di rispettare la condanna di Dreyfus res iudicata, sbotta «eccola la cosa giudicata», indicando il ritratto di un Cristo in croce.
O ancora, certi momenti dell’incandescente fase successiva: Octave Mirbeau, penna al vetriolo e dolce cuore, che mentre Zola è forzatamente lontano dalla Francia, si occupa delle sue vertenze giudiziarie e delle spese a esse legate, prontissimo a rimetterci di tasca sua; i dreyfusardi che si stringono le mani esultanti nell’udienza di Cassazione che dispone una nuova inchiesta, e gridano di gioia alla chiusura di quella che stabilisce un nuovo processo; la già citata Séverine, giornalista di punta della «Fronde», pronta a sfidare ogni dramma con «l’eroismo del sorriso» (secondo le parole di Victor Basch, altro dreyfusardo d’assalto), che, dopo aver affrontato un’operazione rischiosa confortata dall’affetto delle colleghe, si informa sul caso appena uscita dall’anestesia e riprende a scriverne ancor prima di iniziare la convalescenza; Scheurer-Kestner che, invece definitivamente relegato fuori scena da una malattia irreversibile, chiede notizie degli sviluppi letteralmente fino all’ultimo respiro; Dreyfus che, tornato dall’Île du Diable fisicamente distrutto ma prontissimo alla lotta, fronteggia nel processo di Rennes le calunnie che, secondo le sue parole, tornano a strappargli «il cuore e l’anima».
Beninteso, anche questa forza ideale può essere vista come un «effetto di senso», una costruzione legata a un entusiasmo temporaneo. Tanto più che, privato dell’happy end tanto atteso, frustrato dall’intromissione della politica di governo, questo entusiasmo si spegne, anzi si sciupa tristemente nei contrasti: il fronte dreyfusardo è sfaldato non solo dalla riemersione di divergenze temporaneamente accantonate, ma pure da dissapori meschini, le ambizioni prendono il sopravvento sui convincimenti, l’ascesa al potere e l’irrigidimento repressivo di Clemenceau e Picquart deludono amaramente i combattenti più libertari.
Nondimeno, questo romanzo della realtà resta spiazzante fino in fondo: seppur mortificato e sfilacciato, il suo vigore persiste; lascia una traccia carsica che via via riaffiora in molti passaggi del suo epilogo, e in altri dei decenni successivi. Ad esempio, i «funerali di battaglia» di Zola, in cui un gruppo di minatori marcia scandendo «Germinal! Germinal! Germinal!», il titolo del suo romanzo che ha dato fiato alle loro proteste, e Anatole France lo commemora definendolo «un momento della coscienza umana»; la cerimonia per la traslazione delle sue ceneri al Panthéon, in cui Alexandrine, la sua vedova, sempre al suo fianco nel pericolo, vuole vicino a lei Jeanne, l’altra donna, oggetto del disdegno generale (e per lei già ragione di tremenda sofferenza), in segno di giustizia e di sfida all’ipocrisia dell’epoca; l’attentato andato a vuoto contro Dreyfus, in cui Mathieu si slancia a disarmare l’attentatore, per poi slanciarsi con altrettanta rapidità a proteggerlo dalle ritorsioni; l’attentato andato a segno contro Jaurès, proteso a bloccare la prima guerra mondiale con la stessa energia che ha messo nell’Affaire, e la sua scomparsa tra le braccia e le lacrime dei redattori dell’«Humanité», che giustamente nella sua fine vedono quella di ogni speranza; l’ultimo discorso pubblico della Séverine ormai anziana, in difesa di Sacco e Vanzetti, e l’ovazione che lo accoglie; le pagine di ricordi lasciate da Dreyfus, che al Picquart verso di lui assai sprezzante riservano parole di incondizionata gratititudine; la fondazione del Fronte popolare che ha tra i suoi artefici il Léon Blum e il Victor Basch già dreyfusardi appassionati, e la tragedia del secondo, ucciso ultraottantenne insieme alla moglie dai miliziani di Vichy; l’impegno nella Resistenza di alcuni nipoti dei Dreyfus, tanto più esposti al rischio in quanto ebrei, con un coraggio che a una di loro, Madeleine Lévy, costa la deportazione e la morte ad Auschwitz.
Si può poi comunque declassare l’indugio su questi momenti a irrilevante sviolinata retorica, a superflua smanceria sentimentale. Non ci sarebbe niente di male. E, va aggiunto, neanche niente di originale o di provocatorio: visto che è stato già abbondantemente fatto, e già mentre la storia è ancora in fieri, oltretutto da personaggi assai difformi. Non solo antidreyfusardi facinorosi, capaci di riversare sullo strazio più acuto fiotti incontrollati di cinismo, come il Drumont secondo cui all’Île du Diable Dreyfus «mangia, beve, fuma quanto vuole»; o il Rochefort che sghignazza su Lucie, «mater dolorosa». Ma anche osservatori distaccati, quali Émile Bergerat, scrittore giornalista squisitamente blasé, che si professa tediato dalla lotta, stanco delle due «orribili campane» in cui ha tanto sentito rintoccare i nomi di Dreyfus ed Esterhazy, da confonderli ormai in «Dreyzy» ed «Esterafus»; o Jean Cornély, antidreyfusardo moderato al tempo del processo Zola (e poi dreyfusardo con altrettanta moderazione), che ridimensiona il giuramento in cui l’imputato ha impegnato sull’innocenza di Dreyfus il futuro dei propri libri, a vanteria così candida da far «sorridere le persone di buon gusto». O persino dreyfusardi assai coinvolti, quali Clemenceau, dissacratore senza remore, che, dopo aver ascoltato Zola leggere il J’Accuse alla trepidante redazione dell’«Aurore», fa il verso al suo «La verità è in cammino», sogghignando: «Il bambino cammina da solo»; o Julien Benda, engagé in modo deliberatamente razionalista, che irride lui pure il fervore di Zola, «buono solo a sacrificarsi», e riserva un sarcasmo ugualmente tranchant al «romanticismo sfrenato» di Séverine, all’indisponibilità di Jaurès per «il basso profilo, la sfumatura, il dubbio», in generale a quello che bolla come l’atteggiamento del «dreyfusista piagnucoloso»36.
A mettersi su questa scia si ha sempre buon gioco: il distacco, l’understatement, lo snobismo, garantiscono immancabilmente un’ottima figura, hanno immancabilmente l’ultima parola. Però, tant’è, non hanno grande presa sul futuro: sulla lunga durata i trasporti facili da ridicolizzare hanno la meglio; il fervore degli ideali, benché a rischio di irrigidirsi in fanatismo, resta parte integrante delle rivoluzioni; la piena delle emozioni, se minaccia di confondere o annacquare le idee, è componente indispensabile della loro potenza. Ed è anche in loro virtù che questa lotta diventa modello e pungolo di altre, che questo caso è a tutt’oggi il caso per antonomasia. Un’altra mitologia, magari; ma di tutte la più vitale. Il «romanticismo sfrenato» è anima profonda dell’Affaire Dreyfus: si può, forse si deve valorizzarlo.
Note all’introduzione
1 Cfr. M. Proust, Correspondance, (éd. par P. Kolb), Paris, Plon, 1976, vol. II, p. 252; A. Thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, Paris, Stock, 1936, p. 421; J. Cornély, Les Deux Justices, «Le Figaro», 23 settembre 1898 (NAD, 56-57); G. Ferrero, Leggendo l’inchiesta, «Il Secolo», 21-22 aprile 1899; S. Sighele, L’affare Dreyfus alla vigilia della sentenza (Impressioni e ricordi), «L’Illustrazione italiana», 21 maggio 1899 (XXVI, 21, pp. 330-331); M. Tinayre, Les victimes de l’affaire, «La Fronde», 11 settembre 1899; J. Reinach, Histoire de l’Affaire Dreyfus, Paris, Stock, 1903, vol. III, p. 249.
2 Sulla crisi del pensiero liberale e sulle dissonanti spinte irrazionalistiche che segnano l’Europa a cavallo tra Otto e Novecento, cfr. – oltre a classici (controversissimi) come il tanto tendenzioso O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1923), Milano, Longanesi, 2008; e B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Milano, Adelphi, 1993 – J.W. Burrow, La crisi della ragione. Il pensiero europeo 1848-1914 (2000), Bologna, Il Mulino, 2002; e B. de Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, Bologna, Il Mulino, 2022.
3 Cfr. J. Jaurès, Les Preuves. Affaire Dreyfus, Paris, Éditions de la Pétite République, 1898, p. XI.
4 Sulla storia e sulla fenomenologia degli scandali moderni, cfr. in particolare A.S. Markovits e M. Silverstein (eds.), The Politics of Scandal. Power and Process in Liberal Democracies, New York, Holmes & Meier, 1988; J.B. Thompson, Power and Visibility in the Media Age, Malden, Blackwell, 2000; C. Delporte, M. Palmer e D. Ruellan (éds.), Presse à scandale, scandale de presse, Paris, L’Harmattan, 2001; H. Rayner, Dynamique du scandale. De l’affaire Dreyfus à Clearstream, Paris, Le Cavalier Bleu, 2007; L. Boltanski, E. Claverie, N. Offenstadt e S. Van Damme (éds.), Affaires, scandales et grandes causes: de Socrate à Pinochet, Paris, Stock, 2007; J. Garrigues, Les Scandales de la République: de Panama à l’affaire Cahuzac, Paris, Éditions du Nouveau Monde, 2013.
5 Cfr. N. Boileau, Arte poetica (1674), Venezia, Marsilio, 1995, p. 73.
6 Sulle dinamiche spesso inverosimili dei faits divers, sulle loro amplificazioni mediatiche, e sulle curiosità morbose loro retaggio, cfr. R. Barthes, Struttura del fatto di cronaca (1962), in Id., Saggi critici, a cura di G. Marrone, Torino, Einaudi, 2002, pp. 184-194; M. Lever, Canards sanglants. Naissance du fait divers, Paris, Fayard, 1993; D. Walker, Outrage and Insight. Modern French Writers and the «Fait Divers», Oxford, Berg, 1995; L. Chevalier, Splendeurs et misères des courtisanes, Paris, Perrin, 2004; A. Dubied, Les Dits et scènes du fait divers, Genèse, Droz, 2004; I. Garcin-Marrou e C. Jamet (éds.), Récits et dispositifs du fait divers, Paris, L’Harmattan, 2008. E, specificamente sull’epoca considerata qui, cfr. D. Kalifa, L’Encre et le sang. Récits de crime et de société à la Belle Epoque, Paris, Fayard, 1995; L. Gonon, Le Fait divers quotidien dans la presse quotidienne française du XIXe siècle, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2012; D.B. Sachsman e D.W. Bulla (eds.), Sensationalism. Murder, Mayhem, Mudslinging, Scandals and Disasters in 19th-Century Reporting, Piscataway, Transaction Publishers, 2013.
7 Cfr. L. Canfora, La storia falsa, Milano, Rizzoli, 2010, carrellata su casi celebri di documenti falsi condizionanti per la grande storia.
8 Sul peso dell’immaginario melodrammatico nella modernità, e sulla sua trasversalità a culture e a generi diversi, cfr. P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976), Parma, Pratiche, 1985; C. Gledhill e L. Williams (eds.), Melodrama Unbound. Across History, Media, and National Cultures, New York, Columbia University Press, 2018; F. Vittorini, Melodramma. Sul percorso intermediale tra teatro, romanzo, cinema e serie tv, Bologna, Patron, 2020. Circa il suo ruolo nella Francia otto-novecentesca, nella sua percezione e rappresentazione della vita pubblica, cfr. J. Lehning, The Melodramatic Thread. Spectacle and Political Culture in Modern France, Bloomington, Indiana University Press, 2007.
9 Cfr. i ricordi di Halévy sulla vicenda (RAD, 35).
10 Sul potere dello storytelling, cfr. Ch. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie (2007), Roma, Fazi, 2008; e Id., La politica nell’era dello storytelling (2013), Roma, Fazi, 2014 (che però lo circoscrivono troppo alla contemporaneità); sul suo peso in ambito legale, J. Shapiro, Lawyers, Liars and the Art of Storytelling. Using Stories to Advocate, Influence and Persuade, Chicago, ABA Publishing, 2016; sul suo sostrato biologico e sul suo ruolo nella formazione dell’identità, M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria, Milano, Raffaello Cortina, 2017; sulla sua capacità di saldare le comunità quanto di inquinarle (attraverso inganni, racconti condizionanti, fake news), J. Gottschall, Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge (2021), Torino, Bollati Boringhieri, 2022; sulle sue virtù manipolatrici, P. Brooks, Seduced by Story. The Use and Abuse of Narrative, New York, New York Review Books, 2022.
11 Si può definire «verosimile estetico» l’adesione a un insieme condiviso di attese, a seconda dei casi di stampo morale, comportamentale o culturale (già Aristotele nella Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 57, individua questa accezione del termine, messa poi ancora a fuoco dalla trattatistica sei-settecentesca). Su questo verosimile, su quello fattuale, e sui problemi che pongono al realismo moderno, cfr. G. Genette, Verosimiglianza e motivazione, in Id., Figure II. La parola letteraria (1969), Torino, Einaudi, 1972, pp. 43-69; F. Bertoni, Realismo e letteratura, Torino, Einaudi, 2007, in particolare pp. 130-134; D. Balicco, Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 39-48; S. Lazzarin e P. Pellini, Il vero inverosimile e il fantastico verosimile. Tradizione aristotelica e modernità nelle poetiche dell’Ottocento, Roma, Artemide, 2021.
[…]
32 Cfr. S. Sighele, I rancori di un avvocato, in «L’Illustrazione italiana», 22 dicembre 1901 (XXVIII, 51, pp. 422-423).
33 Tra gli studi rappresentativi del cosiddetto ethical turn, concentrati su una valorizzazione della dimensione morale e impegnata della letteratura, non priva di ragioni, ma troppo arginata ai suoi contenuti manifesti, cfr. M.C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile (1995), Milano, Feltrinelli, 1996; H.T. Edmondson III (ed.), The Moral of the Story. Literature and Public Ethics, Oxford, Lexington, 2000; J. Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita (2002), Roma-Bari, Laterza, 2006. Per un approccio diverso, cfr. A. Mazzarella, Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 2014; S. Ercolino e M. Fusillo, Empatia negativa. Il punto di vista del male, Milano, Bompiani, 2022; G. Carrara e L. Neri (a cura di), Con i buoni sentimenti si fanno brutti libri? Etiche, estetiche e problemi della rappresentazione, Milano, Ledizioni, 2022.
34 Cfr. G. Bertrand, Bernard Lazare, «La Petite République», 3 settembre 1903.
35 Cfr. L. Blum, Souvenirs sur l’Affaire, Paris, Gallimard, 1935, p. 129.
36 Cfr. J. Benda, La Jeunesse d’un clerc (1936), Paris, Gallimard, 1968, pp. 117-125. Tutte le precedenti citazioni e le relative fonti si ritroveranno nel corso del libro.
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