30 novembre 2024

LA MACCHINA MONDIALE DI PAOLO VOLPONI

 


A Londra all'Istituto Italiano di Cultura un incontro sullo scrittore urbinate per il centenario della nascita.
VOLPONI, OLIVETTI E "LA MACCHINA MONDIALE"
Per il centenario della nascita dello scrittore Paolo Volponi, l'Istituto italiano di Cultura a Londra ha organizzato lo scorso 25 novembre un seminario dal titolo "Volponi, Olivetti e La macchina mondiale" dedicata all'importante ruolo dell'autore nella letteratura italiana e alla profonda influenza di Adriano Olivetti nelle sue opere e nel suo pensiero politico.
All'evento hanno preso parte Francesca Limana, esperta di comunicazione che ha curato alcuni tra i più importanti progetti culturali all'interno della Fondazione Olivetti, David Albert Best, direttore della sezione linguistica all'Université Libre de Bruxelles, e Richard Dixon, traduttore in inglese di "La macchina mondiale" di Volponi, romanzo filosofico vincitore del premio Strega nel 1965, pubblicato proprio quest'anno col titolo "The World Machine" dalla Seagull Books e la University of Chicago Press.
Il focus principale dell’incontro appunto è stato il romanzo “La macchina mondiale”, in cui Volponi riflette sui temi della meccanizzazione della vita e sull’impatto della modernità sulla società.
Nell'occasione si è parlato della figura di Olivetti, uno degli industriali più illuminati d'Europa e a capo della società passata alla storia come produttrice del primo computer desktop al mondo, che incontrò Volponi nel 1949 riconoscendo il potenziale del giovane poeta laureato in legge e proveniente da Urbino, nelle Marche.
Gli fu affidato il compito di cercare modi sostenibili per migliorare le condizioni di vita della forza lavoro, composta in larga parte da immigrati dal sud Italia che avevano abbandonato povertà e privazioni del mondo contadino in cerca di un futuro migliore.
Nel 1956 Olivetti nominò Volponi come suo direttore dei Servizi sociali nello stabilimento di Ivrea, dove rimase fino agli inizi degli anni Settanta, anche dopo la scomparsa prematura dell'imprenditore nel 1960.
Durante l'evento è stato anche messo in evidenza come gli otto romanzi che Volponi ha pubblicato tra il 1962 e il 1991 abbiano reso un ritratto vivido dei contrasti e delle contraddizioni tra la società contadina e quella industrializzata, con particolare riferimento ai temi ancora fortemente attuali trattati ne "La macchina mondiale".
Foto: la copertina del libro The World machine.

LA ROSA DI FEDERICO GARCIA LORCA

 



La rosa
non cercava l'aurora:
quasi eterna sul ramo
cercava altra cosa.
La rosa
non cercava né scienza né ombra:
confine di carne e sogno
cercava altra cosa.
La rosa
non cercava la rosa.
Immobile nel cielo
cercava altra cosa
[Federico García Lorca]

LUNA D' INVERNO

 

© Fan Ho 2014



Luna d'inverno
Luna d’inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci di ladro
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t’appanna
e presto l’ora suonerà…
Lontano
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano, poi splenderai lieta
tu, insegna d’oro all’ultima locanda
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi cancella
Maria Luisa Spaziani

LA POESIA DI MARIA GRAZIA INSINGA TRADOTTA IN INGLESE

 


𝐴 𝑠𝑐𝑖𝑎𝑚𝑒 (Arcipelago itaca Edizioni, 2023 - prefazione di Giuseppe Martella) sciama all'Università della Florida con sedici poesie tradotte da Marco Nicosia – che ringrazio di cuore – e da lui accompagnate con una splendida analisi critica. Ringrazio «Delos: A Journal of Translation and World Literature», e l'University of Florida Press, per l'ospitalità. (MGI)

29 novembre 2024

CONTRO TUTTE LE GUERRE E CONTRO IL MUTISMO

 


"La Bomba in testa e il mutismo dei colti"



Le inquietanti dichiarazioni di questi giorni di Vladimir Putin che alludono esplicitamente all’uso delle armi nucleari contro l’Ucraina e i Paesi che la sostengono non vanno per nulla sottovalutate né derubricate a mera retorica propagandistica. Affermazioni come “Gli Stati Uniti ci spingono a un conflitto mondiale” e “siamo pronti per un altro scenario” segnano un salto di qualità senza precedenti nella guerra russo-ucraina. L’autorizzazione di Biden a colpire i territori russi con il lancio di missili americani di lunga gittata e l’uso del micidiale ordigno di distruzione, l’”Oreschnik”, testato dai russi a Dnipro, costituiscono una tappa ulteriore di avvicinamento verso la rilegittimazione, dopo Hiroshima e Nagasaki nel 1945, del ricorso alla bomba atomica come soluzione delle controversie internazionali. Nonostante le rassicurazioni mendaci, circa il loro potenziale distruttivo, da cui vengono avvolte le nuove armi nucleari cosiddette tattiche, ciò che importa sottolineare è che si registra oggi il tentativo di normalizzare la guerra come strumento di riconoscimento del ruolo degli Stati nel sistema delle relazioni internazionali. Eppure, se la “terza guerra mondiale a pezzi”, come la chiama papa Francesco, diventasse malauguratamente “conflitto mondiale” tout court, allora al rischio dell’autodistruzione dell’umanità non potremmo più sottrarci. A fronte di questa situazione drammatica, che pone interrogativi ancora più angosciosi rispetto a quelli suscitati nell’età della Guerra Fredda da un possibile scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ciò che colpisce è il silenzio degli intellettuali. Almeno nello spazio pubblico e mediatico, gli intellettuali – nella declinazione plurale di questo concetto (dagli scienziati in senso stretto agli esperti dei vari saperi) – sembrano arroccati nelle loro professioni, quasi timorosi di dare voce a una presa di posizione ammonitrice o a un grido d’allarme rivolto a scuotere l’opinione pubblica e i governi. L’impressione è che i ceti colti del XXI secolo si siano assuefatti all’idea hobbesiana che la guerra è una procedura fisiologica nella regolazione dei conflitti internazionali e perfino nei rapporti con l’altro, cioè con chi è distante dal nostro modo di vivere e di pensare. Al contrario, dopo Hiroshima e Nagasaki, negli anni Sessanta e Settanta fiorì una vasta letteratura sulla nuova condizione dell’umanità nell’era atomica e sulla responsabilità che incombeva sui decisori politici, mentre si moltiplicavano gli appelli di scienziati, filosofi e giuristi affinché l’opinione pubblica internazionale sollecitasse i rispettivi governi a trovare un “modus vivendi” tra gli opposti regimi politici e le rispettive sfere d’influenza (il comunismo sovietico e la democrazia euro-atlantica egemonizzata dagli USA). Basti pensare, per fare solo qualche esempio, a filosofi come Karl Jaspers, autore di “La bomba atomica e il destino dell’uomo” (1960), e a Günther Anders, che nel 1964 nel “Discorso sulle tre guerre mondiali” metteva in guardia che una guerra nucleare “potrebbe liquidare l’intera umanità”. Alcuni anni prima, nel 1955, Albert Einstein e Bertrand Russell avevano promosso un manifesto in favore del disarmo antinucleare e della scelta pacifista, sottoscritto dai più influenti scienziati e intellettuali dell’epoca. Il manifesto sollevava “un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?” Come ci ricorda lo psicoanalista Diego Miscioscia nel suo bel libro, “La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace”, appena pubblicato dalla casa editrice pugliese La Meridiana (fondata dal compianto Guglielmo Minervini, guardacaso autore di un testo intitolato “L’abecedario dell’obiettore”), anche l’Italia in quegli anni non è stata estranea alla diffusione della cultura della pace. Infatti, proprio nel 1964 due psicoanalisti italiani, Franco Fornari e Luigi Pagliarani davano vita alle prime riflessioni ed esperienze nel campo della psicologia sul rischio di un conflitto nucleare. Ne nacque un pamphlet, “Si può organizzare la speranza? (L’esperimento del Gruppo Anti H)”, che a firma di Pagliarani confluì nel libro di Fornari, “Dissacrazione della Guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti”, che uscì nel 1968 con Feltrinelli. Ma accanto a Fornari e Pagliarani in quegli anni la cultura della pace conobbe una stagione di grande elaborazione e di straordinarie mobilitazioni di massa: dalla nonviolenza di Aldo Capitini all’obiezione di coscienza promossa da don Milani. Senza dimenticare don Tonino Bello, che nel 1993 entrava a Sarajevo con il movimento “Beati i costruttori di pace”. Di fronte al riapparire di un rischio ancora più grave di un’apocalisse atomica, torna, dunque, il tema della responsabilità degli intellettuali. Ma con una differenza non di poco conto: oggi si tratta di prendere coscienza che occorre affinare la cultura della pace con nuovi strumenti concettuali e con nuove esperienze pratiche. Non basta più un pacifismo di tipo istituzionale o giuridico, a cui per esempio si richiamava Norberto Bobbio, che giustamente esaltava il ruolo degli organismi internazionali come l’ONU o le Corti Internazionali di Giustizia per tutelare la pace nel mondo e perseguire i crimini di guerra. Come suggerisce Miscioscia, lo sforzo che oggi dobbiamo compiere è di comprendere le motivazioni più profonde della guerra: in primo luogo “l’ansia genetica” nascosta nelle pieghe della nostra evoluzione come specie, le “ferite psicologiche” dovute a povertà materiale ed educativa, le “fantasie di onnipotenza” espresse attraverso impulsi aggressivi. In breve, occorre lavorare sulla mente del soggetto – e, aggiungerei, sulla mente “incarnata” – per formare fin dalla scuola dell’obbligo le competenze psicologiche della pace: empatia, gentilezza, solidarietà, rispetto dell’altro, convivialità, capacità di dialogare con gli altri e con se stessi. Tuttavia, a mio avviso, queste qualità di una nuova cultura di pace per essere davvero efficaci vanno integrate da un cambiamento di paradigma di tutti i saperi - umanistici e scientifici in senso stretto – e dalla loro capacità di elaborare categorie di giudizio adeguate alla situazione catastrofica che stiamo attraversando non solo a livello geopolitico, ma anche sul piano interno degli Stati: concentrazione della ricchezza nelle mani di un’oligarchia transnazionale, crescita delle diseguaglianze, migrazioni di popoli, collasso ecologico del pianeta, trasformazione dell’altro da noi in nemico. Sono tutti segnali che la logica della guerra è penetrata dentro le nostre forme di vita e sta minando la nostra convivenza democratica. Per contrastarla occorre trasformare l’ideale della pace in una forza etica capace di orientare concretamente i nostri saperi e la nostra stessa vita quotidiana.

Francesco Fistetti 

 

 


HEGEL E IL SUO TEMPO APPRESO COL PENSIERO

 



La dialettica in Hegel costituisce l’elemento corrosivo; rappresenta la trascrizione in termini moderni di quello che era lo scetticismo antico. Essa serve, innanzitutto, a dimostrare l’inconsistenza dei concetti per come vengono presentati dall’intelletto, ovverosia come qualcosa di giustapposto e di tabellare. Tuttavia, il culmine del pensiero hegeliano non è rappresentato dalla dialettica, ma dalla speculazione, ossia la ricostruzione articolata e sistematica — ma allo stesso tempo mobile, quindi che si evolve — di tutto un determinato orizzonte. Per quanto riguarda, invece, l’idea di porre in evidenza gli aspetti legati al lavoro, alla disoccupazione, alle macchine e soprattutto, al denaro, questa mi viene dalla nuova esperienza, che abbiamo vissuto, delle crisi economiche e finanziarie. Da un lato, questo è un vissuto che fa guardare a quello che avevo scritto prima con occhi diversi, senza, tuttavia, inficiarne le altre parti. Ma è dovuto anche al fatto che, effettivamente, la pubblicazione delle Lezioni berlinesi e di Heidelberg hanno messo a disposizione una quantità di materiali che prima non si conoscevano. Essi rafforzano l’idea di uno Hegel lettore di testi di economia politica e di giornali inglesi e francesi, che conosceva banchieri e discuteva di sansimonismo, che era conscio di vivere nella Restaurazione, ovverosia in un’epoca prosaica rispetto ad un’epoca eroica precedente, un’epoca i cui caratteri sono fatti risaltare splendidamente ne Il rosso e il nero di Stendhal. Tale percezione mette alla luce, anche attraverso l’apporto di questi nuovi testi, quello che noi sentiamo, ossia di vivere in un’epoca in cui la vita è diventata precaria; non solamente perché la disoccupazione giovanile è aumentata, ma anche perché tutta l’esistenza nel suo complesso e il futuro si sono un po’ oscurati. La talpa anche presso di noi continua a scavare e non sappiamo in quali direzioni. Anche in questo senso, l’idea di Hegel è quella di mostrare che Das Kapital — il quale non è un’invenzione di Marx — domina la politica, nella misura in cui le strutture che lo costituiscono si sono rese indipendenti dal piano politico stesso. Le accuse a Hegel di essere uno statolatra, uno strenuo difensore dello stato prussiano sono, anche in questo senso, da ridimensionare. Egli vede che lo Stato è fortemente indebolito dall’economia e che la logica della società civile si sta sovrapponendo a quella politica. Per questo motivo, almeno all’inizio, egli cerca di porvi rimedio conferendo autorità allo Stato contro queste forze individualistiche proprie dell’economia. Inoltre, vede che l’effetto dell’apporto delle macchine è stato quello di produrre un eccesso; un eccesso che la gente non è più in grado di acquistare e che determina crisi economiche, le quali hanno come conseguenza la sollevazione, per esempio, degli operai inglesi che distruggono le macchine e la produzione di un’enorme miseria, ossia la plebe diffusa. Hegel si accorge che l’emigrazione nelle colonie non è più una soluzione sufficiente a fermare questi conflitti, poiché il denaro è diventato potenza incontrastata, la cui circolazione, tra l’altro, riproduce la medesima struttura del sistema, un “circolo dei circoli” che aumenta e si ingrandisce ogni volta. La crisi mostra l’insolubilità di tale conflitto; dal punto di vista politico, poiché si tratta di un’epoca farsesca, nella quale non si riescono a creare delle maggioranze, dal punto di vista socio-economico a causa della disoccupazione (Arbeitslosigkeit). Ma soprattutto, in questi testi si ha a che fare con uno Hegel straordinariamente eversivo, che dice che gli operai senza lavoro, senza pane (die brotlosen Arbeitern), hanno il diritto di rubare, poiché c’è un problema di sopravvivenza che è più importante della legalità. Qualcosa che oggi si direbbe nei circoli anarchici o nei centri sociali, ossia che la proprietà è un furto, etc. Hegel lo dice incidentalmente, anche perché era un uomo cauto, che sapeva di essere controllato dalla polizia, ma indubbiamente questi nuovi testi, di cui mi servo moltissimo nel libro, mostrano uno Hegel più ad amplio spettro. In questo libro* ho trattato Hegel non per farne un’apologia, né soltanto per liberare il suo pensiero dai fraintendimenti a cui era stato soggetto; queste operazioni erano certamente necessarie per comprenderlo meglio, ma anche per capire i suoi limiti. Il limite principale è che, sostanzialmente, lui pensa come un europeo. Di conseguenza, vede gli altri continenti e le altre culture come un qualcosa di non maturo, dove addirittura la filosofia è assente e c’è soltanto una forma di saggezza. Noi, invece, viviamo in un’epoca in cui le civiltà del mondo si confrontano, e la dialettica hegeliana nella sua forma classica non regge, così come dopo la sua morte l’architettura del sistema non funziona e ne vengono mutuate solamente delle componenti. La stessa cosa era accaduta in epoca ellenistica con la dissoluzione del modello aristotelico-platonico. Aristotele, per esempio, riguardo alla condotta umana, prendeva in considerazione vari elementi: la Τύχη, il caso, l’Ἀνάγκη, la necessità e il Tέλος, la finalità. Accadde che gli epicurei attribuirono grande importanza al caso, gli stoici alla necessità, mentre la finalità finì per essere irrisa già a partire dai neoplatonici. Allo stesso modo Hegel pensa che la sua struttura sia valida per la diagnostica, ma non per la prognostica e, pertanto, il sistema si sfalda, come si diceva prima, dando origine a dei frammenti incomponibili all’interno di una visione generale. Questo ha portato molti a denigrare l’idea di sistema, che sembra l’opera di un pazzo, mentre io, al contrario, ho cercato di mostrare come esso abbia un suo senso e come, sebbene questo sistema oggi non sia più edificabile, sia necessario partire da esso per comprendere Hegel, i suoi limiti e le sue possibilità e la coerenza presente nell’evoluzione del suo pensiero.

* REMO BODEILa civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975