22 novembre 2024

CINEMA, FILOSOFIA e FELICITA'

 




Ilaria GaspariLa filosofia si fa camminando a passo lento e senza meta


La Stampa, 22 novembre 2024 


Nell'estate del 1960, Jean Rouch ed Edgar Morin filmano le strade di Parigi in un bianco e nero in cui galleggiano le ombre mobili delle foglie dei platani, i passi di chi esce dalle stazioni sotterranee del métro, i  visi dei bambini sulle giostre, i sorrisi ai tavoli all'aperto davanti a brasserie affollate. Filmano ragazzi a passeggio con saggi ponderosi nella tasca della giacca, vigili reticenti e forse intimoriti, studentesse con la  risposta pronta, vecchiette sagge e sornione. Filmano lo stupore, il fastidio, qualche volta il divertimento. E  le parole che affiorano, sfrontate o impacciate dalla timidezza di un'epoca in cui trovarsi di fronte una cinepresa era un evento piuttosto eccezionale.

Rouch è antropologo, Morin è destinato a diventare uno dei grandi nomi della sociologia; per le strade della città i due seguono la futura regista e scrittrice Marceline Loridan-Ivens che saltella dietro ai passanti, sorride con brio e a chiunque rivolge una domanda semplice e inattesa, che a volte scandalizza gli interlocutori, altre volte li turba, li diverte, o li costringe a riflettere e ad accigliarsi: siete felici?

Chronique d'un été, il film di Morin e Rouch, è oggi considerato un piccolo classico del cinéma-vérité, capace di rivelarci per sprazzi l'intimità di una città sognata, idealizzata, adorata: una città-diva, che come una diva vera ci appassiona scoprire, deposti gli artifici di scena, nella semplicità della vita quotidiana. E infatti la Parigi del film ha il magnetismo rilassato e ridanciano delle foto di Jane Birkin al mercato con il suo paniere.
Ma il documentario è toccante anche perché ci mostra, inalterato dal tempo, il potere della domanda rivolta ai passanti: siete felici? La domanda che trasforma le strade di una metropoli moderna, efficiente, frenetica, in un luogo in cui trova spazio e risonanza l'esercizio filosofico del domandare. Chiedersi (chiederci) se siamo felici, e dunque cosa intendiamo per felicità, non è sintomo di frivolezza o superficialità. Al contrario, è una delle più profonde, più urgenti e più eterne questioni filosofiche, quella che riguarda la felicità, che la saggezza antica insegna a considerare alla stregua di una virtù da coltivare, una virtù etica di cui si fa carico l'educazione condotta in quei luoghi deputati agli esercizi spirituali che erano le scuole. Il giardino di Epicuro, come il porticato della Stoà, sono luoghi fisici della polis consacrati a quel perfezionamento di sé che la filosofia antica modella in perfetto accordo fra prassi e teoresi; le strade di Atene (percorse in lungo e in largo da Socrate, il "tafano" che disturba i passanti punzecchiandoli con il pungiglione del dubbio) il pubblico teatro in cui risuona il lavorio delle domande.
Per questo è commovente vedere, nel film di Rouch e di Morin, un frammento di quell'eredità antica in un contesto moderno; a maggior ragione oggi, che viviamo in metropoli lontane anni luce, per efficienza e frenesia, non solo dall'Atene del V secolo a. C., ma anche dalla Parigi del 1960. Oggi, nella solitudine di città che somigliano ad aeroporti, abbiamo dimenticato che le strade possono essere luoghi adatti alla filosofia; l'abbiamo dimenticato in nome della possibilità di arrivare ovunque senza dover nemmeno chiedere indicazioni, tanto un GPS ci guida; in nome dell'efficienza, della fretta, perché smarrirsi è talmente difficile che non vale più nemmeno come scusa di un ritardo.
È un peccato, però, perdere l'occasione di una relazione poetica con la geografia della città, precluderci la possibilità di fermarci a far domande, ritrovare quello che ci è familiare dove ci aspettiamo di sentirci stranieri, o viceversa: ribaltare l'abitudine in un senso di estraneità, concederci il lusso della meraviglia che interrompe lo scorrere delle nostre efficientissime esistenze per lasciar spazio a una domanda. Un rimedio potrebbe essere provare a seguire le istruzioni del filosofo situazionista Guy Debord per una "deriva psicogeografica", gioco utile a esplorare gli spazi urbani reinventandoli: «Andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista». E magari fermarci, nello straniamento, a chiederci se siamo felici.

EREDITA' DISSIPATE SI PRESENTA NELLA BIBLIOTECA CENTRALE della REGIONE SICILIANA

 


    Nel ringraziare la Direttrice della Biblioteca che ci ospita, ripropongo di seguito l'indice del libro che si presenta, la nuova Introduzione al saggio e una breve nota critica. (fv)







L’ INTRODUZIONE  alla seconda edizione del libro

A prima vista potrebbe apparire discutibile l' accostamento tra Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Si tratta, infatti, di autori che hanno avuto ruoli e pesi diversi nella storia del Novecento.

 Secondo gli schemi tuttora dominanti, il primo – nonostante che di recente sia stato finalmente compreso tra i principali filosofi contemporanei[1] - continua ad essere considerato soprattutto un politico e il suo spazio, nel tempo della frammentazione dei saperi, andrebbe confinato nell'ambito della scienza politica. Mentre gli altri due - pur avendo sempre disprezzato i letterati puri e scritto tanto su giornali e riviste politiche – essendosi occupati prevalentemente di letteratura, cinema e poesia, andrebbero esaminati nell'ambito ristretto della critica d'arte e letteraria.

Ma se si leggono attentamente le loro opere e si dà una veloce occhiata alla vasta letteratura critica esistente, soffermandosi particolarmente su quella prodotta nell' ultimo decennio, non si tarda a cogliere il legame profondo e i tratti comuni, pur nelle loro differenze. Gramsci, Pasolini e Sciascia, seppure in modi diversi, hanno riconosciuto il peso determinante avuto dalla cultura (intesa in modo nuovo rispetto alla tradizione) nella storia e colto il legame stretto tra lingua e potere.

In specie i tre, seguendo vie e metodi diversi, si sono ritrovati uniti nella critica alle classi dominanti. Così come Gramsci, fin dal 1926, aveva individuato in Giustino Fortunato e Benedetto Croce ( da cui aveva pur appreso tanto) «le chiavi di volta del sistema» e «le due più grandi figure della reazione italiana»[2]; Pasolini è stato il primo in Italia, dopo Gramsci, ad aggiornare la sua analisi critica sugli intellettuali denunciando con forza il loro ruolo servile e subalterno:«Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti “dentro il Palazzo”».[3]

Leonardo Sciascia non è stato da meno nel criticare gli «intellettuali organici»[4] ai vari sistemi di potere. Infatti, fin dal 1963, nello scrivere uno dei suoi racconti più belli, Il Consiglio d'Egitto, non risparmia critiche ad archivisti, storici e preti – servi del potere del tempo – che utilizzano le loro competenze per giustificare e legittimare domini e privilegi. 

Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia.

Per questo il capitale prezioso lasciato da questi tre grandi autori rischia oggi di essere disperso e dissipato. Nell' odierna società, appiattita in un eterno presente, tanti vivono ignorando il passato e senza pensare al futuro. Ecco perchè temo, con  Leonardo Sciascia, che la memoria possa persino scomparire. 

Nel corso delle presentazioni della prima edizione di questo libro si è tanto discusso del suo titolo provocatorio. Credo di aver spiegato alcune delle ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, mal­grado il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei.

Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi compagni di lotta al punto tale che Umberto Terracini - stretto collaboratore del sardo nella redazione de L’Ordine Nuovo, fin dal 1919, e suo compagno di carcere durante la dittatura fascista - è arrivato a scrivere:

“Dal 1930 al 1945 – bisogna pur dirla almeno una volta senza perifrasi questa triste verità – la consegna fu di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica. […]. E come dimenticare che , dietro lo squallido carro funebre che ne trasportò la bara al cimitero, altro non c'era che una scia di vuoto?”[5]

Non parliamo poi di quello che è accaduto in Italia dopo il 1989, quando persino gli stessi dirigenti nazionali del Partito che aveva contribuito a creare hanno apertamente dichiarato di considerarlo inservibile politicamente dopo il crollo del Muro di Berlino e dell' Unione Sovietica.

Se in Europa e in India non avessero ripreso a leggerlo un gruppo di antropologi e sociologi che hanno dato vita ai cosiddetti subaltern studies (utilizzando, fin dal nome, una parola chiave del lessico gramsciano); se, in America Latina, Paolo Freire (il pedagogista gesuita autore della famosa Pedagogia degli oppressi) non l’avesse scoperto insieme ai teologi della liberazione (G. Gutierrez, L. Boff, ecc.); se gli stessi intellettuali argentini di sinistra (vicini al populismo peronista) non avessero contribuito a diffonderne il pen­siero, oggi, forse, non si parlerebbe più di Gramsci nel mondo.

Qualcosa di simile è avvenuto con Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. 

La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato nella sua ricerca dei “perchè” della condizione presente […]. Faceva domande e sollecitava risposte[...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le polemiche […], o, come diceva con il “silenzio”» [6].

Negli ultimi anni della sua breve vita tutti i suoi interventi, pubblicati sul Corriere della Sera e su altri giornali e periodici, sono stati accolti in modo ostile, oltre che da tutti gli uomini di potere del regime democristiano, persino da tanti intellettuali di sinistra. Basti ricordare, per tutti, gli scontri e le polemiche avute con Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, ecc. ecc.

E le incomprensioni non sono ancora finite. Infatti, malgrado si continui a parlare e a scrivere tanto sulla sua opera, rimangono pochi i contributi critici seri.

Leonardo Sciascia è stato uno dei pochi a difenderlo e a restargli vicino nel corso degli anni. Ecco perchè lo scrittore siciliano, dopo la sua morte, dirà: «Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».[7] E non è casuale che uno dei suoi saggi più discussi, L' affaire Moro, si apra proprio con una citazione di Pasolini, ripresa dal suo famoso articolo sulle lucciole del 1° febbraio 1975.

Per la verità Sciascia, come Pasolini, ha sempre diviso l'opinione pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico. Basti ricordare che, negli anni in cui scriveva sul giornale comunista L'ORA di Palermo, era soprannominato “iena dattilografa” dai suoi stessi colleghi.

Insomma, sarò pure pessimista, ma credo di avere delle buone ragioni per temere che i tre più grandi eretici italiani del 900 rischiano davvero di essere dimenticati in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno spazio per il pensiero critico e indipendente.

FRANCESCO VIRGA,  giugno 2023

 

Note

[1]Basti qui ricordare che una recentissima iniziativa editoriale del Corriere della Sera, curata dal Prof. Carlo Sini,  uno dei maggiori studiosi di filosofia contemporanea, ha compreso Antonio Gramsci tra i principali filosofi del novecento accanto ad Heidegger, Popper, Russell, Sartre, Wittgenstein, ecc.

[2]GRAMSCI, Antonio, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 150

[3]PASOLINI, Pier Paolo,  Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 93-94.

[4]Questo termine gramsciano è stato sempre fonte di equivoci e malintesi. Cercherò di chiarire il significato che esso assume nel lessico e nella visione del mondo gramsciana più avanti.

[5]TERRACINI Umberto, Prefazione a Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto, Rizzoli, Milano 1980, p. 10. Si rimanda anche ad altri suoi due libri: Intervista sul comunismo difficile , a cura di Arturo Gismondi, Laterza, Bari1978 e Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli con Prefazione di Davide Lajolo, Rizzoli, Milano 1981

[6]SCALIA Gianni, La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini, op. cit., pp.50-51


IL GRAMSCI DISSIPATO DI FRANCESCO VIRGA

Dopo una fortunata prima edizione, Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia di Francesco Virga (Diogene Multimedia, Bologna 2023, pp.404) viene ripubblicato in una edizione riveduta e ampliata, che ancora una volta riesce perfettamente a coniugare il rigore scientifico dell’impianto saggistico, con tanto di citazioni e apparato critico, e una larga godibilità di lettura: una chiarezza di linea espositiva che Virga mutua anche dal mestiere di insegnante e dalla lunga attività di blogger militante. O magari è in qualche modo una di quelle eredità gramsciane evocate nel titolo e messe a frutto nel taglio argomentativo e nel tono della scrittura. Non amo molto, in genere, usare il termine divulgazione, ma sicuramente il libro è anche un ausilio prezioso per approcciarsi a queste tre figure o approfondirle, oltre i luoghi comuni, le vulgate e le nozioni scolastiche. Le quattro parti che compongono questa raccolta di saggi si possono infatti agevolmente leggere come dei corposi contributi critici a sé stanti sulle figure di Gramsci, Pasolini e Sciascia, anche se nel volume confluiscono anche degli scritti occasionali – in gran parte pubblicati previamente su varie testate e riviste – in cui lo spettro d’indagine si allarga su aspetti meno battuti dei tre autori. Penso per esempio al capitolo dedicato a Pasolini e Bach, che prende le mosse da uno studio recente di Claudia Calabrese sul rapporto tra Pasolini e la musica.

Come tanti testimoni e lettori eccellenti hanno attestato nel corso delle due edizioni (in appendice a questa nuova edizione troviamo una galleria di note critiche, firmate tra gli altri da Salvatore Costantino, Nicolò Messina e Gaspare Polizzi), Eredità dissipate si colloca come punto di incrocio tra critica e esegesi letteraria, analisi politica e storia della cultura italiana nel secondo ‘900. Un lavoro di ricerca annoso e di lungo respiro in cui Franco Virga si mette sulle tracce della ricezione di Antonio Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia, scandaglia e collega testi, documenti, testimonianze con una perizia filologica e una passione militante davvero esemplari.

Di Pasolini si rileva in primo luogo che la sua interpretazione del marxismo è assimilabile a quella di Gramsci, in quanto metodo e strumento per comprendere i fatti storicamente determinati, e non sistema fisso e pura dottrina dogmatica, soprattutto nel Pasolini interventista e collaboratore del settimanale comunista “Vie Nuove” (mentre si tralascia volutamente il Pasolini tormentato delle Ceneri di Gramsci, diventato quasi un luogo comune critico). Di Sciascia si ricorda invece la lunga e intensa attività pubblicistica sulle pagine de “L’Ora” di Palermo che – come scrive Virga – sono di “inconfondibile impronta gramsciana, persino nello stile graffiante della sua scrittura”.

Come l’autore stesso esplicita, sia nell’introduzione che nella nota conclusiva, la tesi di fondo, e se non una vera e propria tesi, una preoccupazione che anima le pagine di questo libro è che la grande lezione di questi tre giganti del secolo scorso venga dissipata (appunto), dimenticata o rimossa: un po’ per la loro sostanziale inclassificabilità e il loro percorso eretico, ma soprattutto per la crisi della cultura e del pensiero critico nell’epoca dell’opinionismo estemporaneo dei talk e delle approssimazioni social.

Francesco Vinci, settembre 2024

 

IL CINEMA IBEROAMERICANO A PALERMO

 


Torna il Festival del Cinema Iberoamericano, organizzato dall' Istituto Cervantes di Palermo in collaborazione con vari paesi di lingua spagnola. Saranno presentati undici film di diverso genere, in anteprima nazionale e in versione originale con sottotitoli in italiano, che offriranno un panorama cinematografico e multiculturale del mondo ispanico.

Ecco i titoli dei films:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’inziativa, curata dall’Istituto Cervantes di Palermo, si svolgerà dal 25 al 29 novembre 2024 presso il Cinema Rouge et Noir di Palermo.

 

 Ingresso libero fino a esaurimento posti

 


21 novembre 2024

NAPOLI \ NEW YORK

 




Visto ieri sera l'ultimo film di G. Salvatores che sembra aver ripreso una sceneggiatura abbandonata da F. Fellini. Anche se l'impronta felliniana non si nota, si tratta di un film che meriterebbe oggi di circolare nelle scuole anche per ricordare a quanti l'hanno dimenticato cosa è stata l'emigrazione italiana in America dal 1945 in poi. Bravo, come sempre, Favino. Eccellente l'interpretazione dei due ragazzi napoletani protagonisti della storia. Strepitosa la colonna sonora del film. (fv)



L' APOCALISSE DI BAUDRILLARD

 


L’Apocalisse eretica di Baudrillard

Federico Ferrari

 21/11/2024   da  https://antinomie.it/index.php/2024/11/21/lapocalisse-eretica-di-baudrillard/

Era da qualche tempo che non mi capitava tra le mani un libro le cui capacità di analisi del presente dessero le vertigini. Carnevale e Cannibale – Il Male del ventriloquo è uno di questi rari libri. Si tratta di una raccolta di due saggi di Jean Baudrillard, pubblicati in Francia nel 2008, cioè l’anno successivo alla morte del saggista francese. Poche pagine – per l’edizione italiana, ottimamente curate da Dario Altobelli – la cui densità è inversamente proporzionale alla brevità.

Baudrillard è uno dei pochissimi pensatori del secondo Novecento ad avere una sorprendente fluidità di scrittura abbinata a una straordinaria lucidità analitica. In meno di cento pagine di piccolo formato riesce a tracciare una mappa della contemporaneità, individuando con estrema precisione i cortocircuiti, teorici ed esistenziali, che sprofondano gli abitanti del nostro tempo in una sorta di sentimento di estraniata incomprensione di ciò che sta loro accadendo e che, in modo apparentemente irreversibile, li trascinano verso un ineluttabile destino.

Le dinamiche globalizzatrici della storia recente appaiono, nel pensiero baudrillardiano, come sempre più perfezionati processi di astrazione e soppressione del reale, della dimensione materiale dell’esistenza. Ognuno di noi, in modo più o meno consapevole, risulterebbe invischiato in una pluralità di pratiche dematerializzanti (consentite dai dispositivi tecnologici e dalla digitalizzazione del mondo) che portano a una sorta di progressiva rottura con la realtà, con la sua alterità.

La dematerializzazione, la decorporeizzazione generalizzata è, in fondo, dettata da una sorta di narcisismo astrattivo (l’invenzione di un’identità virtuale) che spinge verso una socialità e una storicità autoreferenziale e cannibale, in cui ci si nutre di se stessi. L’Altro, il non manipolabile, il non ridefinibile, correggibile, editabile, rappresentabile, filtrabile, tende a scomparire, viene letteralmente rimosso, per lasciare spazio a un ego astratto e assoluto: autocannibalismo compiuto. Partenogenesi tecnologica, in cui la realtà diviene pura astrazione manipolabile a piacere, “al termine del[la] quale il mondo e l’umano sono definitivamente scomparsi”.

Conseguenza inevitabile di questa astrazione egocentrica – che porta all’evaporazione della realtà del singolo, della sua singolarità deficiente, imperfetta, invisibile – è la simultanea scomparsa delle diseguaglianze sociali, delle differenze non riducibili, non comunicabili, non condivisibili nel grande sistema dello sharing globale, della sovraesposizione social perpetua. Assistiamo, cioè, al manifestarsi di un nuovo fondamentalismo (dell’immagine di sé o del sé ridotto a immagine). Si tratta, però, di un fondamentalismo senza fondamento, proprio perché sganciato da ogni realtà. In fondo, l’intera resistenza del reale viene rimossa, per lasciare spazio unicamente all’astrazione di una vita tecnologicamente reiventata nella sua astrazione assoluta.

Ma, chiaramente, come ogni rimosso, anche questo ritorna, sostiene Baudrillard. Il reale rimosso ritorna, primariamente, nella psiche del soggetto, nella dissociazione tra la propria immagine disincarnata e il proprio corpo. Un Io astratto che deve fare i conti con la propria condizione materiale (rimossa), fatta di carne e incontrollabile materia (compresa la materialità sociale ed economica sublimata nell’apparenza disincarnata del mondo digitale). La farsa di un’esistenza, costruita su una spettacolarità senza corrispettivo reale, sorta di allucinazione collettiva, degna del Re nudo di Hans Christian Andersen, si trasmuta, come in un processo alchemico finito male, in dissociazione psichica, in depressione generazionale, in dislessia storico-esistenziale.

La storia come immenso trompe l’œil in cui tutte le differenze, le singolarità di razza, sesso, religione, cultura sono ridotte a stereotipi, a immagini autogenerate da algoritmi e desideri indotti, da modelli di vita ready-made fino al punto di diventare parodie di se stesse. Mascherata globale in cui il pagliaccio ride di se stesso a crepapelle, nella devalorizzazione di tutto, nella riduzione di ogni cosa a simulacro di se stessa. Regno della stupidità universale in cui “i cittadini si raduneranno in massa verso colui che non chiede loro di pensare. […] Più sarà stupido, meno si sentiranno personalmente idioti.” Immenso carnevale della storia in cui si passa da una moda all’altra e, con leggerezza, ci si incammina verso la via d’uscita, sperando che oltre la porta regni lo stesso vuoto siderale, la stessa allegra frivolezza da mascherina goldoniana.

Naturalmente, è questo un processo storico in cui non c’è più spazio per il travaglio del negativo, per rapporti di forza e di lotta. È un mondo – negli ultimi anni ancor più di quando Baudrillard scriveva queste sue frasi profetiche – in cui la violenza del capitale, lo sfruttamento, la riduzione a merce, la manipolazione del desiderio sono rimossi e sostituiti dall’illusione (fondata sull’astrazione tecnologica) di poter reiventare se stessi e (poiché l’Io astratto diviene il centro di tutto) il mondo. Basterebbe, infatti, mettersi un vestito griffato, farsi un bel selfie, con il filtro che più ci corrisponde, per dare origine a un mondo nuovo.

È la società della grande rimozione: la rimozione del reale. A questo processo allucinatorio, Baudrillard contrappone la necessità di salvaguardare quel poco di singolarità, di territorio e di spazio simbolico che ci resta contro la macchina globale che ne richiede, invece, il sacrificio. Rivendica, questo raro pensatore della differenza radicale, la riscoperta di “un ‘cuore’ refrattario alle ingiunzioni di tutti i dispositivi, di tutti gli apparati di razionalizzazione”. Rivendica, cioè, la necessità di salvaguardare la realtà da una sorta di ipersignificazione, di iperdeterminazione, individuazione, standarizzazione che distrugge lo spazio inviolabile della singolarità, di ciò che non è riducibile, significabile, pubblicizzabile, commercializzabile, promuovibile, controllabile.

È proprio in questa dimensione segreta e non spettacolarizzabile (non instagrammabile, non comunicabile sui social, non condivisibile nel grande mercato dello scambio universale) che Baudrillard ripone una speranza, seppur una speranza apocalittica – quell’ultima speranza che sorge quando si prende coscienza, seppur sotto forma di un’angoscia profonda e incomprensibile, che il mondo in cui si vive è un mondo dal quale l’essere umano è escluso, un mondo sul quale, in realtà, nonostante o proprio a causa della cosmesi astrattiva, non si ha più alcuna presa.

Baudrillard, in queste pagine ultime del suo lavoro, ripone le speranze cieche in un’intelligenza del segreto che si fa carico dell’enigmaticità e inafferrabilità del reale, di quel reale che ci sottrae anche e in primo luogo a noi stessi; quel reale che agisce come una differenza interna alla nostra stessa identità e ad ogni identità. L’intelligenza del segreto non è facilmente codificabile e non può dare origine a un programma, a una teoria critica: “non si tratta di una critica politica, sociale o economica cosciente, ma di una dissidenza, di un rifiuto di stare al gioco. Di tradimento.”

Non stare al gioco, in questa dottrina critica e apocalittica, significa sottrarsi, far saltare il banco, rifiutare di carnevalizzarsi, di travestirsi da pagliacci. Significa rifiutare l’egemonia, il discorso egemonico, la commercializzazione dei valori, dei desideri, del gusto, della bellezza; come anche la commercializzazione della trasgressione, del disgusto, della differenza, dell’orrore. Significa, in fondo, far proprio, ma nella realtà di una verità che si fa gesto, il bartlebyano I would prefer not to.

Solo eventi che sfuggono a ogni logica astrattiva del sistema, a ogni previsione, a ogni strategia, possono davvero aprire una possibilità di speranza. Se ancora sono possibili, saranno proprio questi eventi, innescati da un ritorno del rimosso, cioè del reale, del reale in quanto non razionale, a far vacillare l’immenso spettacolo derealizzato e derealizzante della globalizzazione.

“Ciò che distingue questo tipo di evento dall’evento storico è che non proviene né da una rivolta, né da un rapporto di forza, né dal lavoro del negativo”. L’evento accade, entra nella storia proprio perché inatteso e non prevedibile. In esso si concentra la forza dirompente e incoercibile del reale che risponde e reagisce al tentativo, messo in atto dal tecnocapitalismo, di demolirlo in modo delirante.

Jean, novello visionario Giovanni nella grotta di Patmos, assume toni apocalittici, non tanto perché creda in una sorta di ritorno della parola profetica opposta alla parola della programmazione tecnocapitalista, ma perché solo da un evento impossibile e insensato come quello descritto da ogni apocalisse può ancora generarsi una forza capace di sovvertire l’egemonia di un potere automatizzato e senza più freno. Solo una nuova Apocalisse eretica può contenere qualche seme di speranza.

“Resta così la nostalgia che tutte le eresie hanno coltivato nel corso della storia – il sogno, parallelamente allo svolgimento del mondo reale, dell’evento assoluto che aprirebbe ai mille anni di felicità. L’attesa esasperata dell’unico evento che smaschererebbe con un sol colpo l’immenso complotto che ci sommerge. Questa attesa è sempre al centro dell’immaginario collettivo. L’Apocalisse è qui, in dosi omeopatiche, in ognuno di noi.”

 

Jean Baudrillard
Carnevale e Cannibale – Il Male ventriloquo
A cura di Dario Altobelli
Meltemi, 2024, 114 pp., 10 €

In copertina: fotografia di Albarrán Cabrera, The Indestructible #34100, 2018 (Platinum/Palladium on gampi


MOZART ASSOLVE L' IMPERFEZIONE UMANA

 


MOZART ASSOLVE L’IMPERFEZIONE UMANA

Parola di Maestro. Riccardo Muti, nel suo ultimo libro, che qui anticipiamo, spiega perché il compositore occupa un posto così speciale nel suo cuore: non condanna mai e la benevolenza si riflette nella scelta delle tonalità musicali

 

Da  Il Sole 24ore, 10 novembre 2024

 Quando penso a tutta la musica che ho diretto e ai compositori che ho studiato e portato nelle sale da concerto e nei teatri di tutto il mondo, mi rendo conto che alcuni di loro mi sono rimasti particolarmente nel cuore, tra questi Mozart.

Scrisse Le nozze di Figaro nel 1786, quando aveva trent’anni, e il libretto di Da Ponte deriva dalla commedia Le mariage de Figaro di Beaumarchais.

Siamo di fronte a un’opera buffa, ma i suoi personaggi vivono esperienze intense, segnate senza requie dalle debolezze umane. A parte il conte, un fedifrago incallito, e Cherubino, un giovane dongiovanni attratto da ogni donna, anche la nobile contessa e l’astuta Susanna, pur essendo profondamente innamorate dei loro uomini, sfiorano il pericoloso confine dell’infedeltà. Per non parlare di Bartolo e Basilio: il primo, arrogante e malvagio, nella sua unica aria rivendica meschinamente e con lussuria la sua vendetta; il secondo, un tempo abate mite, ora diventa intrigante perché ha compreso che solo così può evitare di essere calpestato. Eppure, Mozart non giudica e non condanna nessuno dei suoi personaggi. Consapevole dell’imperfezione umana, li assolve. Questa benevolenza si riflette nella scelta delle tonalità musicali: tutte le arie solistiche sono in tonalità maggiore, tranne quella di Barbarina. Anche l’opera nel suo insieme inizia e si conclude in una tonalità maggiore, in Re. Mozart però è cosciente delle nostre fragilità, e nel finale introduce un sottile dubbio sulla felicità futura delle coppie: tra il concertato quasi religioso sulle parole «Contessa, perdono!» e l’allegro assai conclusivo Questo giorno di tormenti, appare una fugace modulazione in minore, quasi a suggerire che l’amore, pur trionfando su tutto, potrebbe non essere eterno.

Don Giovanni andò in scena per la prima volta a Praga nel 1787, e per scrivere il libretto Da Ponte prese spunto da diverse fonti letterarie.

È l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile di tutta la trilogia. […] La chiave di questo capolavoro è già nell’ouverture, con un inizio tragico in Re minore, una tonalità funebre che Mozart userà anche per il Requiem. Questa atmosfera cupa, quasi infernale, si trasforma poi in un allegro frenetico, a simboleggiare una vita insaziabile e inquieta.

Don Giovanni vive nel disordine morale, sociale e affettivo, lo crea e lo alimenta. Quando ci sono le tre orchestrine sul palco che suonano tre danze diverse, il Minuetto, la Follia e l’Alemanna, don Giovanni dice: «Senza alcun ordine la danza sia». E Mozart le sovrappone l’una sull’altra, le incastra con ritmi diversi. Si forma un caos ordinato e al tempo stesso disordinato. Don Giovanni è un uomo che non si pone degli obiettivi stabili, il suo girovagare da una parte all’altra, gli sbalzi di tonalità danno l’idea di un personaggio che non trova pace. È la personificazione del male. Non conclude nulla. Conquista e distrugge, è una figura tenebrosa. Non c’è altra opera di Mozart che sia così pervasa dal senso della morte, che ritroviamo anche nel gioco, nelle battute a doppio senso, negli ammiccamenti. Quando don Giovanni sprofonda all’inferno, gli altri personaggi si smarriscono: sono persi nella nebbia, ognuno cerca una strada. Era la forza del male a tenerli vivi. Il finale, che alcuni – per esempio Mahler – decisero di eliminare, va visto come una risoluzione drammatica: senza la luce sinistra di don Giovanni i personaggi piombano nel buio della routine, dell’infelicità, di un’esistenza priva di scopo.

Riccardo Muti

 


COSA SUCCEDE NELLE CARCERI ITALIANE?

 



Le cronache degli ultimi mesi sono piene di abusi, pestaggi, violenze varie che alcuni agenti di custodia esercitano nei confronti dei detenuti. Prima di parlare degli ultimi fatti accaduti in un carcere di Trapani, voglio ricordare che Danilo Dolci - fin dai suoi primi libri degli anni cinquanta  (Banditi a Partinico, Processo all'art. 4, Inchiesta a Palermo) - è stato tra i primi in Italia a denunciare l'uso sistematico della tortura nelle carceri.

Veniamo adesso ai fatti più recenti:

Senza respiro


Rosaria Gasparro
21 Novembre 2024

da  https://comune-info.net/senza-respiro/


Foto unsplash.com

Gli abusi, il pestaggio, le violenze, le torture sugli ultimi degli ultimi, i più vulnerabili, i più fragili, gli isolati per problematiche psichiatriche o di dipendenza – che invece di essere presi in cura dal sistema sanitario, sono stati condotti lì, nella terra di nessuno, alla mercè del sadismo di turno degli agenti aguzzini del carcere di Trapani – sono il punto più basso della nostra civiltà.

Un girone dell’inferno dantesco, atti inauditi che ricordano i Miserabili di cui scriveva Hugo – e a dirlo è il procuratore Gabriele Paci che ha coordinato le indagini.

Abbiamo imparato da Voltaire e da Dostoevskij che il grado di civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri e se questo è il quadro raccapricciante, indegno di qualsiasi società che voglia definirsi civile capace di tutelare la dignità di tutti, a partire dagli ultimi, se dall’inizio dell’anno sono 81 i detenuti che si sono tolti la vita, e 7 i suicidi tra gli agenti di custodia, allora bisogna sentirla tutta nella propria pelle e nella propria coscienza questa vergogna.

Vergogna che trova un’eco inaccettabile nelle parole del sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, in quel lasciare senza respiro, in quell’intima e oscena gioia di infierire sugli ultimi. Una pubblica vergogna che toglie il respiro.

In questo quadro desolante rincuora sapere che sono altri agenti penitenziari, degni del ruolo difficile che ricoprono, ad aver svolto le indagini sui colleghi torturatori.


IL REATO DI TORTURA HA ROTTO IL MURO DI OMERTÀ “Quanto emerso in queste ore relativamente a quello che è accaduto nel carcere di Trapani, dove 46 persone sono indagate per vari reati, tra cui quello di tortura, segnala ancora una volta quanto questo reato sia fondamentale… Da una parte per perseguire i responsabili di questo crimine. Dall’altra, nel far sentire il supporto dello Stato alle persone che subiscono torture o violenze in carcere… Per ultimo, anche per rompere il muro di omertà che troppo spesso in casi simili si creava in passato. Come già accaduto in altri casi, infatti, l’indagine – scattata dopo alcune denunce effettuate dalle persone detenute – è stata condotta dal nucleo investigativo della Polizia penitenziaria… Ora ci auguriamo che si faccia piena chiarezza su quanto accaduto… Non possiamo però che esprimere soddisfazione nel sapere che all’interno dell’Amministrazione penitenziaria ci siano professionalità in grado di far respirare le persone detenute…” (Patrizio Gonnella, Antigone). 

20 novembre 2024

KALSA: MOSTRA FOTOGRAFICA di MICHELE DI LEONARDO

 



KALSA - mostra fotografica per l'anno 2025.
La Kalsa, il cui nome deriva dall’arabo al-Khālisa ("la pura"), è un quartiere di Palermo dalla storia antica, carica di influenze culturali stratificate. Negli anni in cui il reportage è stato realizzato (1996-1999), questa zona si trovava in una condizione di forte marginalità, in netto contrasto con il benessere delle aree residenziali circostanti. Le fotografie restituiscono un ritratto vivido della quotidianità di bambini e adolescenti che, nonostante le difficoltà economiche e sociali, affrontavano la vita con resilienza e creatività. KALSA non è solo un progetto fotografico, ma ormai un documento storico che testimonia una fase cruciale della vita di Palermo. Le fotografie fungono da memoria visiva di un’epoca, mostrando come il quartiere e i suoi abitanti abbiano lottato per affermare la propria dignità nonostante le difficoltà. Questo lavoro invita a riflettere sulla necessità di politiche urbane e sociali che riducano le disuguaglianze e offrano opportunità alle comunità più fragili.
M.D.
PH. micheledileonardo©1996-1999

LA GRANDEZZA DI J. S. BACH


 



Sapevi che Johann Sebastian Bach ha subito enormi perdite personali nel corso della sua vita? Prima ha perso la sua bambina, poi tre dei suoi figli e poi sua moglie.
Dopo queste tragedie, si è risposato con Anna Magdalena, ma il dolore non si è fermato: insieme hanno perso altre quattro figlie e tre figli. In totale, Bach ha perso 11 amati figli.
Queste esperienze hanno indotto molti ricercatori e ammiratori del suo lavoro a chiedersi: come ha potuto Bach affrontare tali perdite devastanti? Come ha potuto continuare a respirare, come ha potuto il suo cuore continuare a battere dopo tanto dolore? E, cosa più importante, come ha potuto continuare a scrivere musica? Cantate, suite per violoncello, messe, concerti... la musica più bella che il mondo abbia mai sentito.
La risposta a queste domande si trova nella profonda fede di Bach. Alla fine di ogni partitura scrivevo sempre "Soli Deo Gloria" ("Gloria solo a Dio") e all'inizio segnavo "Signore aiutami". Per Bach, comporre non era solo un atto artistico, ma anche un atto di devozione. La sua musica era, in sostanza, una preghiera continua, una conversazione tra uomo e Dio.
Così, quando ascoltiamo la musica di Bach, non solo ci godiamo di un master musicale senza pari, ma anche partecipando a un dialogo spirituale. La musica di Bach trascende note e melodie, diventando un ponte tra il terreno e il divino. Questa combinazione di arte e fede è ciò che ha permesso a Bach di superare le tragedie personali e di creare opere che continuano a ispirare e commuovere il mondo intero.

I CARUSI DELLA ZOLFARA DI GESSOLUNGO (CL)

 


UNA LETTERA AL PADRE DI F. KAFKA

 


Franz KafkaLettera al padre (1919)

Giustamente hai rivolto il tuo disprezzo alla mia attività di scrittore e a quanto, a te ignoto, le era collegato. Qui davvero mi ero allontanato autonomamente da te di un bel pezzo, anche se questo ricordava un po' il verme che, calpestato sulla coda da un piede, la abbandona e si trascina di lato con la parte anteriore. Un po' di sicurezza ce l'avevo, potevo tirare un sospiro di sollievo, e il disprezzo che naturalmente provavi per il mio scrivere mi era eccezionalmente benvenuto. La mia vanità e il mio amor proprio soffrivano naturalmente per il modo, ormai celebre per noi, con cui salutavi l'arrivo dei miei libri: "Mettilo sul comodino!" (perlopiù giocavi a carte quando arrivava un libro); ma in fondo esso sortiva un effetto benefico, perché quella formula suonava per me come: "Adesso sei libero!". Naturalmente era un'illusione, non ero o, nel più favorevole dei casi, non ero ancora libero. Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò! Vale la pena di parlarne soltanto perché si è verificato nella mia vita; altrove non sarebbe minimamente degno di nota, e comunque soltanto perché ha dominato la mia vita, nell'infanzia come presagio, poi come speranza e dopo ancora, spesso, come disperazione, e mi ha dettato alcune piccole decisioni, se si vuole, ancora informate alla tua persona. Ad esempio la scelta della professione. Certo, tu mi hai dato piena libertà, alla tua maniera generosa e in questo senso perfino paziente. Tuttavia nel far ciò hai seguito anche il modo comune di trattare i figli da parte del ceto medio ebraico, che aveva per te un valore normativo, o comunque i giudizi di valore di tale ceto. Infine una certa influenza ha avuto uno dei tuoi fraintendimenti rispetto alla mia personalità. Tu mi ritieni infatti, da sempre, per orgoglio paterno, per ignoranza della mia vera esistenza, per le conclusioni che trai dalla mia debolezza, particolarmente studioso. Secondo te da bambino non facevo altro che studiare e poi non ho fatto altro che scrivere. Non è vero, neppure lontanissimamente. Si può semmai dire, con molta meno esagerazione, che ho studiato poco e non ho appreso niente; il fatto che in molti anni mi sia rimasto qualcosa, con una memoria decente e un'intelligenza non delle peggiori, non è poi molto strano, ma il risultato complessivo quanto alla conoscenza e soprattutto ai suoi fondamenti è comunque estremamente deplorevole, rispetto al dispendio di tempo e denaro e nel contesto di una vita esteriormente spensierata e tranquilla, in particolare anche in confronto a quasi tutta la gente che conosco. E deplorevole, ma per me comprensibile. Ho avuto, da quando so pensare, preoccupazioni così profonde relative all'affermazione spirituale dell'esistenza, che tutto il resto mi era indifferente. I ginnasiali ebrei da noi sono facilmente tipi singolari; tra loro si trovano le persone più improbabili; ma la mia indifferenza fredda, appena velata, indistruttibile, infantilmente inerme, quasi ridicola e animalescamente autocompiaciuta di bambino sufficiente a se stesso ma freddamente fantastico non l'ho ritrovata mai, per quanto qui fosse l'unico riparo contro la distruzione dei nervi da parte della paura e del senso di colpa. L'unica cosa che mi interessava era la preoccupazione per me stesso, che assumeva però le forme più differenti. Ad esempio come preoccupazione per la mia salute: cominciò in sordina, ogni tanto qualche leggera apprensione per la digestione, la caduta dei capelli, una deviazione della spina dorsale e così via; poi tutto ciò si intensificò nel corso di innumerevoli passaggi, fino a divenire una vera malattia. Ma poiché non ero sicuro di niente, avevo bisogno ad ogni momento di una nuova conferma della mia esistenza, niente era veramente e indubbiamente di mia esclusiva proprietà, proprietà che fosse determinata univocamente da me, così divenni naturalmente insicuro anche della cosa a me più vicina, il mio stesso corpo; crebbi molto in altezza ma non sapevo che farmene, il carico era troppo pesante la schiena si curvò; non osavo quasi muovermi o addirittura fare ginnastica, rimasi debole; se tutto quello di cui ancora disponevo sorprendeva, quasi fosse un miracolo, ad esempio la mia buona digestione, questo bastava a farmela perdere, e così era aperta la strada per ogni ipocondria, finché per lo sforzo sovrumano di volermi sposare (tornerò a parlarne) mi è uscito sangue dai polmoni, cosa della quale può essere in parte responsabile anche l'appartamento nel palazzo Schonbirn, che però mi serviva solo perché credevo di averne bisogno per scrivere, e così è attinente a questa lettera. Quindi tutto ciò non è dovuto al superlavoro, come tu immagini da sempre. Ci sono stati anni in cui io, in piena salute, ho trascorso più tempo in ozio sul divano di quanto tu abbia fatto in tutta la tua vita, malattie comprese. Quando fuggivo da te occupatissimo, era in massima parte per andarmi a sdraiare in camera mia. Il mio rendimento complessivo sia in ufficio (dove peraltro la pigrizia non dà molto nell'occhio e inoltre era tenuta entro certi limiti dalla mia pavidità) che a casa è minimo; se tu ne avessi un'idea, rimarresti sconvolto. Probabilmente il mio impianto non è affatto pigro, ma per me non c'era niente da fare. Là dove ho vissuto ero rimproverato, giudicato, sconfitto; e fuggire altrove mi procurava una tensione estrema, ma non era fattibile, si trattava di una cosa impossibile, irraggiungibile con le mie forze, senza eccezioni di sorta. In queste circostanze ho avuto quindi la libertà di scegliermi la professione. Ma ero ancora capace di far davvero uso di una tale libertà? Confidavo davvero di riuscire a raggiungere una vera professione? La mia autostima dipendeva da te più che da qualsiasi altra cosa, ad esempio da un successo esteriore. Quello era il ristoro di un istante, nient'altro, ma dall'altra parte il tuo peso mi trascinava sempre più violentemente verso il basso. Non sarei mai andato al di là della prima elementare, pensavo; eppure ci riuscii, e mi dettero persino un premio; ma certamente non avrei superato l'esame di ammissione al ginnasio; eppure ci riuscii; ma adesso naturalmente all'esame di ammissione al ginnasio mi bocceranno; no, non fui bocciato, e continuai a riuscire. Ma questo non mi dette fiducia alcuna, anzi, fui sempre convinto--e ne avevo la prova formale nel tuo atteggiamento sprezzante-- che tanto più riuscivo tanto peggio sarebbe finita. 

http://www.salottoconti.it/public/F.Kafka_Lettera-al-Padre.pdf