01 novembre 2024

EREDITA' DISSIPATE letto da ALDO GERBINO

 


       ALDO GERBINO sul  nuovo  numero  di DIALOGHI MEDITERRANEI offre una nuova chiave di lettura  di EREDITA'  DISSIPATE: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/tra-dissipazione-e-solitudine-noterelle-e-divagazioni-da-una-lettura/



TRA  DISSIPAZIONE  E  SOLITUDINE

di Aldo Gerbino 

Poi a un tratto si fanno / gravi: e a lavarsi tornano / umilmente ridicoli… / perché si vergognano / di trovarsi felici / senza lavorare [Vann’Antò, da “Contadini al mare”, 1945]. 

Leggendo le Eredità dissipate, assistiamo in modo palmare al pluridecennale cammino analitico condotto da Francesco Virga. Un tragitto non privato di quell’eccitante e proficua ossessione che fa brillare quei suoi smalti critici, in cui Gramsci, di certo non a caso primario oggetto delle sue attenzioni, fu ed è, la vivida attrazione verso una figura esemplare della nostra cultura. Un baricentro per l’autore, sin dalla sua lontana tesi di laurea capace di trasformarsi, per necessaria e intima disposizione, in un nucleo indefettibile nel quale convergono i nodi dell’uso abnorme del potere, alimentando così il proprio pensiero di un efficace imprinting esistenziale.

Ma, si potrebbe anche asserire, come da tale sua giovanile esigenza sia maturato il bisogno di protrarre sempre più avanti l’interesse di tale indirizzo in un oggi offerto quale irrinunciabile testimonianza, e che trova identificazione in questa raccolta di saggi concretata, appunto, nel volume Eredità dissipate: Gramsci, Pasolini, Sciascia (Diogene Multimedia Editrice, Bologna 2024), arricchiti, in appendice, da una catenaria d’interventi critici: da Claudia Calabrese a Salvatore Costantino a Santo Lombino, da Nicolò Messina a Gaspare Polizzi a Bernardo Puleio. Un oggi qui posto quale esito d’integrità intellettiva nutrita nell’ardente combustibile che da sempre ha covato in Francesco, docente e saggista, per natura avverso a quei raddolcimenti provenienti dal mondo tradizionale e la cui fallacia è stata già dialetticamente esaminata da Eric Hobsbawm e Terence Ranger (The Invention of Tradition,1983).

Ciò, ovviamente, non è cosa da poco in quanto egli trasporta tale sua condotta d’analisi lungo un processo di traslitterazione capace di ricollocare i ‘cercatori di verità’, dalla pedana della ideologia all’ampio palco della idealità; qui vengono riversate pasión e amore per la conoscenza e la prontezza a decrittare i segnali della gestione politica al fine di partecipare a quelle dinamiche sociali che hanno mosso questi grandi intellettuali.

Non è un caso che Luigi Russo, critico letterario, storico della letteratura italiana e direttore della Scuola Normale di Pisa, scrivendo sulla ‘sua’ rivista «Belfagor» intorno alla poesia risorgimentale (“I poeti-numi del 1848”; Vallecchi n.2/ 31 marzo del 1948: 129-142), evidenziava come l’interno fuoco della poesia civile, e forse dell’interezza espressiva del lavoro poetico, si estendesse nella fervida agitazione della politica. Così, prendendo ad esempio Foscolo nell’inno terzo delle Grazie, lo storico di Delia vi legge una poesia la quale, proprio in tale suo “velo” foscoliano, «non spegne le passioni politiche, ma le assorbe e le sublima. Nitido il verso suonerà al poeta (egli aggiunge); ma quel verso nitido ribolle dentro di tutta la febbre della storia, a cui gli uomini che vengono dopo attingono dolcezza ma anche furore di vita e di combattimenti».

Questo pensiero si colloca, stabilendo quasi una sorta di vicinanza parallela e visionaria, all’asserzione di Leonardo Sciascia ‒ l’empirista eretico per Pier Paolo Pasolini ‒ che possiamo raccogliere dal lucido saggio su Pirandello. Qui, in una Sicilia del primo Novecento, mortificata e impoverita dall’aspra violenza del lavoro (esempio emblematico, l’esercito dei “Servi” chini nei cunicoli delle miniere e amaramente cantati da Calogero Bonavia), si staglia la sanguinosa gravezza della cupa mafiosità, gli intricati lacci con la borghesia. Da tale opprimente povertà e dall’esilio migratorio di un popolo soffocato ecco, valvola di nuova consapevolezza, vien colto dallo scrittore di Racalmuto lo sfiatare di un inatteso dono offerto da quei poeti dell’Isola che rispondono ai nomi di Pirandello, Rosso di San Secondo, Di Giovanni, Lanza: coloro i quali hanno contribuito a liberare, dalle stringhe di tale realtà, l’epifanico avvento della poesia.

Antonio Gramsci

Coltivatori di eresie, dunque, Gramsci, Pasolini e Sciascia son posti nella veste di veri e propri ‘anatomisti della natura umana’, pronti ad esercitare il loro magistero sulle esistenze affinché facciano propria una nuova consapevolezza civile, accogliendo i nuovi umori gemmanti dallo strato germinativo della società. Dal travaso gramsciano ricevuto da Pasolini (intellettuali e potere, omologazione delle masse, TV, consumismo), al contributo di antropologi di vaglia, da De Martino a Cirese, unitamente al registro critico della scrittura sciasciana, non possono non emergere le intollerabili discrasie infiltrate negli interstizi tra classi dominanti e subalterne fino a preconizzarne, nell’arco del ‘secolo breve’ e violento, la baumaniana liquidità del nostro presente o le variabili del postmoderno.

Per Virga il ligante di tale umano trittico è riscontrabile nella loro comune azione posta in quel vischioso collagene sociale permeato, sia durante la loro vita sia dopo la loro scomparsa, dall’incomprensione e da quell’ostinato non comprendere come la contraddizione, l’opposizione possano essere stimolanti esercizi per la crescita del pensiero libero. Diverse, peraltro, appaiono le urgenze degli eretici che agiscono, senza condizionamenti, sull’architettura plastica del loro stesso pensiero critico, politico e artistico: dall’avvento, come detto, della poesia al canto popolare, dalla dinamica felibrista al nucleo rovente della lingua al turgore del mito, ad una nuova lettura antropologica delle masse.

La loro empatica partecipazione civile fluisce col trasportare le osservazioni della lingua dilatandola sullo scenario dialettale, interrogandosi sulla sopravvivenza o sull’agonica trasformazione della cultura popolare e dell’assuefazione alla subalternità, al trasformismo. Lo scrittore della raccolta “La meglio gioventù”, dagli anni Quaranta, è lettore privilegiato delle lotte dei contadini friulani; nel 1950, tocca la realtà delle borgate, delle loro angustie, delle violenze e doglianze del sottoproletariato romano. Una subalternità il cui ritratto, da Gramsci a Cirese, si tinge di realtà umilianti, di miserie comportamentali in un registro calco delle devianze del potere, della pervicacia di una incipiente, quanto feroce, massificazione.



Leonardo Sciascia e Ferdinando Scianna alla festa di Santa Maria del Monte a Racalmuto, 1987; e alla casa della Noce, 1986 (ph. Angelo Pitrone)

Una camera picta elaborata in parole, in atti e fatti che sbalzano, non necessariamente citati, anche dall’Uva puttanella. Contadini del Sud di Rocco Scotellaro. Vi sono anche i contadini di Vann’Antò della poesia in quartine “Contadini al mare”, tratta dalla raccolta “’U vascidduzzu” (vincitrice, nel 1951, del ‘Premio Cattolica’ la cui giuria era formata da Eduardo De Filippo, Salvatore Quasimodo e Luigi Russo). Essi commuovono, in quanto tracciano un tragitto d’esistenza all’ombra d’una preoccupata scoperta della felicità, proprio nel momento in cui provano vergogna per aver usufruito d’uno scampolo di appagamento ‘rubato’ alla crudezza del loro lavoro.

E c’è anche il popolo-formica raccontato e vissuto con realistica lucidità da Tommaso Fiore, di quel suo insistere sul diffuso bisogno di libertà dei ‘cafoni’ pugliesi, verso i quali, osservava: «se le nostre idee sono giuste» (un’esistenza connaturata alla vita dello spirito) di certo «la saggezza popolare non può, sia pure indistintamente, esserne lontana». Una contiguità ai bisogni sociali surriscaldata (sostanziata) dalla lingua (Virga non a caso rimanda al pasoliniano quadro di chiusura del “Volgar’ eloquio”), il tutto scosso da quel vortice di bioatmosfere che furono in altri momenti consegnate nell’ambito di questa letteratura d’opposizione (così intese Sciascia): dall’affresco del Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, agli interventi magico-realistici dell’etnologo Ernesto De Martino, degli scritti sulla Lucania, sul Salento, al grido giunto dalla civiltà agropastorale in Sicilia con voci dalle diverse sfumature ed estetiche: da Ignazio Buttitta, a Giacomo Giardina a Giuseppe Giovanni Battaglia.

Una necessità di rilevare da ogni fonte quella agognabile «fraternità umana» e di come la contraddittorietà esista sin dalle profondità genetiche delle relazioni parentali emerse e riscontrabili in Pasolini nell’intervista con Jean Duflot, “Il sogno del Centauro”: «In realtà», afferma il poeta, «con il passare del tempo, dopo l’infanzia, l’immagine si è moltiplicata, e insieme con essa il rifiuto si è diversificato: si è mutato in odio trans-storico o metastorico, per cui sono stato indotto a identificare con l’immagine paterna tutti i simboli dell’autorità e dell’ordine, il fascismo, la borghesia… nutro un odio viscerale, profondo, irriducibile, contro la borghesia, la sua sufficienza, la sua volgarità: un odio mitico, o se si preferisce, religioso». Ma anche si differenziano, come in un chroma key, le «persone vive», tangibili, in quanto «per mezzo del friulano» ‒ egli avverte – «venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il pro­prio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi però una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani. Col passare del tem­po avrei imparato man mano a usare il dialetto quale stru­mento di ricerca obiettiva, realistica». Un ‘mistero del carattere contadino’ posto a genesi dei suoi romanzi, per quei reietti della società i quali, come per Sciascia, sono metafora di un Sud del mondo immersi nell’inestricabile simbiosi tra lingua e realtà umana, affetti contrastanti e profondità dei sentimenti, tra ritualità religiosa e laica, e dai quali temi Virga ne sottolinea, anche sulla scia dell’antropologo napoletano (con qualche suggestione esercitata da Giuseppe Cocchiara), in che modo «il pensiero del folklore stia col pensiero di Gramsci in un nesso organico e sostanziale, esistenziale».

Scatti per Pasolini, catalogo Mostra nell’agrigentino “Centro Pier Paolo Pasolini” (ph. Mario Dondero)

Ancora una lingua, ancora dialetti e loro declinazioni, che toccarono lo stesso Sciascia già con l’attenzione giovanile dedicata alla antologia della poesia romanesca prefata dallo stesso Pasolini (Il fiore della poesia romanesca, S. Sciascia 1952). Vi risaltano considerazioni che investono l’unità della lingua, così dell’intelletto e del cuore, tema che interessava molto l’autore di Casarsa, attraverso quei margini frastagliati della poesia in cui, scrivendo di Roma, si guarda alle dinamiche della stessa lingua ‘rionale’, al meticciato prodotto dalle maglie linguistiche meridionali e dalle fimbrie settentrionali. Lingua e canto visti anche come epifenomeni riflessi criticamente, e con intense sollecitazioni (ad esempio, intorno al 1958, con la giovane Giovanna Marini) che consentono lo sviluppo del loro arco lungo e interagente tra poesia e canto popolare agitando il fertile colloquio critico/folklorico su cinema e musica: un differenziarsi del realismo poeticamente tragico con un ‘realismo rosa’ grazie al coinvolgimento del popolo minuto della provincia italiana.

Allora, politica e musica toccano e definiscono l’ulteriore dichiarazione pasoliniana rintracciabile in “Le regole di un’illusione” (Fondo P.P. Pasolini, 1991: 274): «la musica popolare non ha storia: il suo livello culturale si pone oltre agli eventi storici; è sempre preistorica. Anche quando se ne conosce la data di nascita, la sua collocazione è fuori dalla storia» (blog ‘Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa’, 2016; G. Bruni). Per il poeta, canto popolare, dialetto plebeo e borghese si svolgono in «un gioco di compromessi»: tra sacrilegio e intelligenza. Cultura popolare e dinamiche della subalternità, sono ben evidenziate da Virga, con il percorrere la cupa forza del potere e innescando l’ellissi di quei dispositivi intellettuali in cui l’esistenza appare sempre presente con la sua inusitata crudezza e con una sua precisa morfogenesi leggibile sin dall’esperienza di “Poesie a Casarsa” (accolte con interesse da Contini), sotto l’acceso fuoco dell’«idioma materno»: la materna locutio.

Un insieme di saggi, questo, in cui si dà spazio ad una sorta di ‘anima interna musicale’ (termine caro a Silvestro Baglioni, otorinolaringoiatra degli anni Venti) e all’interezza di quel ‘pensiero musicale’ che attraversa punti fondativi del linguaggio poetico e filmico di Pasolini, sottolineato in volume da Claudia Calabrese. Il valore della contraddizione cui facevamo cenno assume energia per la sua capacità di opporsi al proprio stesso pensiero, e ciò vale in particolare per Pasolini, per Sciascia. Su Pasolini narratore Giorgio Bárberi Squarotti parla di «lacerazioni interiori, fatti della storia e la loro natura estrema: strazio, diversità, opposizioni alla norma; per Fortini vi è primaria l’antitesi, la “duplicità e ubiquità polare»; Sciascia rivendica a sé la libertà di mutare il proprio punto di vista a chiarimento del suo approdo etico verso la società.

E ciò, dalla ricchezza di un cammino nell’Intra moenia dei saggi (ristampa di una seconda edizione), Virga sciorina i suoi ragguagli appesi al vento del rimprovero insito nel titolo, parlando appunto della ‘dissipazione’ di tale ricchezze di pensiero. Dissipazione in quanto, per omologia alla meccanica, registra la trasformazione d’una energia in altra che va ineluttabilmente perduta, dissipata, dispersa. Una dissipazione associabile all’abbandono, alla derelizione, per usare un termine giuridico che Cesare Brandi coniuga con la città di Palermo, per sottolineare l’incapacità politica ad incanalare le giuste energie dissipandone nel silenzio valori e funzioni utili alla crescita della società civile; dissipazione ancora come dispersione e obsolescenza, quindi consumo accelerato e incontrollato (argomenti tracciati da Argan e, proprio a Palermo nel 1968, sottolineati dalla critica militante di Francesco Carbone) e che trainano amaramente, apocalitticamente verso quelle umoralità presenti in Dissipatio H.G., illuminante romanzo degli anni Settanta dalle tinte distopiche, opera del ‘fobantropo’ suicida, Guido Morselli.

Per Sciascia, la irredimibilità; per Pasolini, a seguito del suo antropologico liquore gramsciano modellato poi sulla misterica e rovente fascinazione del mito (tracimazioni da Mircea Eliade), non vi è altra possibile conclusione: visionaria, inaspettata, la quale, poggiando ancora una volta sul tema della lingua, porta il poeta a rileggere, nell’intimità di una riscrittura personale, allegorica e tragica, Dante. Ciò accade nella sua postuma e incompleta Divina Mimesis dimodoché Dante, la sua lingua, coincidono drammaticamente con il suo stesso finis vitae, e, allo stesso tempo, può ricordarci come vi sia, nei tre scrittori, altro ligante: quello della ‘solitudine’ la quale, emblematicamente in Pasolini, conduce alla conquista di terre estreme, d’improcrastinabili confini.    

Nella Poesia in forma di rosa egli accenna, infatti, ad «un’idea che risale al 1963, ma finora» – egli lamenta – di non esser «riuscito a trovare la chiave giusta. Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa. Per questo, pubblico appena i primi due canti: a un inferno medioevale con le vecchie pene si contrappone un Inferno neocapitalistico. Ma siamo, per il momento, al «“mezzo del cammin di nostra vita”, all’incontro con le tre fiere». Diffuso dopo la tragica morte del poeta e scrittore (1975), in una «Nota dell’editore» – si riferisce – furono rintracciati, tra questi suoi “Frammenti infernali”, appunti, foglietti: «un blocchetto di note… addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine, dettaglio macabro ma anche – lo si consenta – commovente, un biglietto a quadretti (strappato evidentemente da un blok-notes) riempito da una decina di righe molto incerte – è stato trovato nella tasca della giacca del suo cadavere (egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso)». Sì, Palermo qui è pre-immaginata dallo scrittore quale orrido scenario del proprio assassinio. Palermo ‘la Terribile’, d’altronde, è l’aggettivo che troviamo persino nel deamicisiano ‘Cuore’. Luogo che diventa palco di rappresentazione onirica e, per bizzarra legge del contrappasso, zattera d’un ‘bene’ fluttuante e tenace, portatore di un vessillo su cui può essere trascritto, ‒ e il pessimismo di Francesco Virga forse ne trarrebbe lenimento ‒ quel verso di Jannis Ritsos che ci ricorda con perentoria assolutezza, il «valore delle cose nude». 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 


RIVISTE DEL 900: Da IL POLITECNICO ai QUADERNI PIACENTINI

 




Ecco la recensione del bel libro di Giuseppe Muraca pubblicata oggi dalla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI (fv)

LA FERVIDA STAGIONE DELLE RIVISTE DEL SECONDO 900

di Francesco Virga 

Le riviste hanno svolto un ruolo importante nella storia d’Italia. Basti pensare al peso che hanno avuto, nella prima metà del 900, La Voce di Prezzolini,  La Critica di Benedetto Croce, La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e L’Ordine Nuovo di Gramsci.

Giuseppe Muraca, nel suo ultimo libro, Un fare comune. Da “Politecnico” a “Diario”. Riviste italiane del secondo (Il Convivio Editore, Catania 2024), propone una rassegna critica di alcune  riviste culturali che hanno animato il dibattito pubblico in Italia dalla fine del Secondo conflitto mondiale al 2000. Essendo impossibile in una recensione dare pieno conto di tutte queste riviste e delle problematiche ad esse connesse, concentreremo la nostra attenzione su due testate che Muraca ha saputo ben analizzare nel corso del suo lavoro: Il Politecnico e i Quaderni Piacentini. Non si può ignorare, infine, il breve saggio di Gabriela Fantato sulle riviste femministe degli anni Settanta con cui si conclude il libro.

Muraca muove proprio dall’analisi de Il Politecnico di Elio Vittorini a cui dedica le sue pagine migliori. La rivista segnò una svolta nella storia culturale nazionale, innanzitutto per la volontà di superare lo steccato tradizionale tra le due culture: la cultura scientifica e quella umanistica.

La prima idea della nuova rivista sorge nel clima della Resistenza antifascista, intorno al 1943, quando sorgono i primi Comitati di Liberazione Nazionale (C.L.N.).  L’idea diventa progetto nel corso delle riunioni organizzate da Elio Vittorini a Milano, nei primi mesi del 1945; a queste riunioni partecipano diversi intellettuali antifascisti tra cui i futuri redattori: Franco Fortini, Franco Calamandrei e il famoso grafico Albe Steiner.  Ai promotori si uniscono presto, come collaboratori, Giansiro Ferrata, Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Giulio Preti, Oreste Del Buono, Sergio Solmi, Antonio Giolitti, Antonio Banfi, Felice Balbo, Carlo Bo e Italo Calvino.

La rivista nasce come settimanale nel settembre del 1945 col sostegno, anche finanziario, del PCI e viene stampata dall’editore Einaudi. Accanto a Vittorini si ritrovano, alla fine della guerra, i migliori intellettuali antifascisti del tempo di area comunista, socialista e cattolica. Allora si trattava di ricostruire tutto, non solo le case e le industrie, ma anche gli animi e la società. Vittorini, in specie, comprende che non basta dichiararsi antifascisti per rinnovare la società italiana. Per evitare che gli orrori generati dal fascismo e dalle guerre possano ripetersi, occorre un cambiamento profondo della stessa cultura e del senso comune.

Il primo numero del Politecnico esce il 29 settembre del 1945 con un memorabile editoriale firmato dallo scrittore siciliano intitolato Una nuova cultura che si apre con queste parole: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini» [corsivo mio].



Vittorini chiarisce, nelle prime righe dell’articolo,  il suo pensiero:

«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in questa guerra. […]. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava l’inviolabilità loro? Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini [corsivo mio] [1].

Ecco il punto: la vecchia cultura ha fallito perché, essendo patrimonio esclusivo di una èlite, è rimasta sostanzialmente estranea alla società e a gran parte del popolo. In altri termini, sono stati i suoi limiti di classe a rendere inefficace la grande cultura del passato; Vittorini lo dice chiaramente questo quando afferma: 

«Essa (la vecchia cultura) ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. […].  La società non è cultura perché la cultura non è società» [2].

Questo editoriale scosse l’intellighenzia del tempo. Nei numeri successivi della rivista intervennero tanti a dire la loro ma penso che pochi compresero fino in fondo il senso delle parole di Vittorini. Ancora oggi, infatti, tanti dimostrano di non averle ben comprese [3].

Il programma del Politecnico [4] puntava anche ad aggiornare e sprovincializzare la cultura italiana, mettendola a confronto con le diverse culture del mondo intero. Gli articoli e le inchieste dei primi numeri del settimanale comprendevano analisi accurate sul latifondo meridionale e le grandi industrie italiane; notizie aggiornate sulla Russia sovietica, sul franchismo e la guerra civile spagnola, sulla società e sulla letteratura americana. Non mancavano, inoltre, contributi teorici sulle diverse interpretazioni del marxismo, dell’esistenzialismo e della psicoanalisi, articoli di divulgazione scientifica,  di critica letteraria, cinematografica, artistica e di costume.

Vittorini, insieme ai suoi più stretti collaboratori – tra cui spiccavano Franco Fortini, Carlo Bo, Felice Balbo, Giulio Preti – riescono a creare un vero e proprio laboratorio politico-culturale sperimentale che si poneva il compito di formare le masse e di cambiare la società italiana. Il lavoro del settimanale venne avviato con grande entusiasmo, Vittorini scriveva a molti intellettuali per invitarli a collaborare. Fortini ha ben descritto il clima e l’entusiasmo che animava i redattori della rivista:

«Capitavano i personaggi di quegli anni: operai affamati, giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, […]. Arrivavano montagne di manoscritti la più parte diari di guerra, di prigionia, di vita operaia. […]. Si aveva l’impressione che dovunque il settimanale giungesse molti animi scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo fatto durante la guerra; quella delle incredibili possibilità della nostra provincia, delle energie latenti delle classi mute (GRASSETTO MIO) […] Era l’indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che l’opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani» [corsivo mio] [5].

Le parole di Fortini ci sembrano particolarmente felici e calzanti per capire lo spirito che animava i principali autori della rivista. D’altra parte lo stesso Vittorini affermava che «Per fare Il Politecnico ci vogliono le fiamme sul didietro».

Eppure Vittorini si accorse presto di essere stato lasciato solo sia dalla casa editrice (Einaudi) che stampava il settimanale che dal Partito (il PCI di Togliatti) che l’aveva inizialmente incoraggiato. La trasformazione del Politecnico da settimanale a mensile non fa che sancire il suo progressivo isolamento: «il passaggio da settimanale a mensile – scrive ancora Fortini – coincide con la fine dell’idillio tra gli intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei C.L.N. e i dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili prove degli anni seguenti» (Muraca, 2024: 13)

La rottura tra la Direzione del PCI e Vittorini, in gran parte, è un segno delle prime avvisaglie della guerra fredda che dividerà l’Europa proprio in quegli anni. Ad innescare la polemica è un articolo di Mario Alicata pubblicato dal periodico comunista Rinascita che attacca senza mezzi termini la linea culturale del Politecnico considerata troppo ecumenica ed aperta nei confronti dell’Occidente e della cultura borghese. Contro Vittorini interviene lo stesso Togliatti in una nota nello stesso periodico che Il Politecnico, ormai trimestrale, pubblica nel Natale del 1946. Il segretario nazionale del PCI, dopo aver ricordato di aver “salutato con gioia” la nascita del Politecnico, rimprovera allo scrittore siciliano di aver tradito il programma iniziale della rivista e di procedere in modo equivoco alla ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente. Vittorini nel numero natalizio che pubblica la lettera di Togliatti fa sue alcune osservazioni critiche del segretario del PCI ma si riserva  di rispondergli in modo più articolato e approfondito successivamente. Cosa che farà tre mesi dopo, ed esattamente nel n. 35 del marzo 1947, in una lunga lettera aperta che affronta il tema di fondo dei rapporti tra cultura e politica.

Lo scrittore siciliano, innanzitutto, ritorna a parlare della sua idea di cultura precisando di essere «l’opposto di quello che in Italia s’intende per ‘uomo di cultura’. Io non ho studi universitari. Non ho nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai e mio padre, ferroviere, ebbe i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si chiamavano tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo nel modo vizioso in cui si impara da soli. Le lingue straniere, per esempio, le so come un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma non posso parlarle né capire chi le parla». Lo scrittore siciliano precisa, innanzitutto, di essersi iscritto al PCI per motivi umani e politici e non ideologici. È stata l’esperienza della Resistenza al fascismo a condurlo, insieme a tanti altri, al PCI. Nella prassi Vittorini ha verificato che i comunisti «erano i migliori, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più allegri e i più vivi» [6].

A seguito del V Congresso Nazionale (1945/46) l’adesione di Vittorini al PCI è ancora più convinta perché egli interpreta il deliberato del Congresso di non porre alcun obbligo ideologico ai militanti come una chiara apertura ad una lettura non dogmatica del pensiero di Marx: «ha riportato il marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come sistema». Anche per questo, afferma con forza Vittorini, «il diritto di parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità, quanto piuttosto dal fatto che si cerca la verità» [corsivo mio] [7]. Di conseguenza Vittorini vede nel libro di Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, considerato un testo sacro in URSS, il rischio di una ricaduta del marxismo nel Sistema e nel dogmatismo. Questo rischio il marxismo italiano non lo corre grazie soprattutto al pensiero di Gramsci [8].

Nel corso di questa lettera il Direttore del Politecnico fa più di una concessione a Togliatti, riconoscendo apertamente di essersi sbagliato sui rapporti tra politica e cultura; concorda pienamente nella critica a Benedetto Croce e ammette che «c’è anche nella cultura la tendenza all’inerzia» (ivi: 127-130). Soltanto nelle conclusioni Vittorini prende nettamente le distanze da Togliatti e, precisamente, nei paragrafi intitolati: Suonare il piffero alla rivoluzione? Uno sforzo contro l’arcadia (ivi: 132-138). È in queste pagine che lo scrittore di Uomini e no difende a spada tratta le sue scelte culturali, spiegando le ragioni per cui ha pubblicato sulla rivista Hemingway, Kafka e tanti altri scrittori borghesi. Vittorini afferma: 

«Rifiutare e ignorare i migliori scrittori della crisi del nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla crisi della società occidentale contemporanea. […]. Molta letteratura della crisi è senza dubbio di provenienza borghese. Discende dal romanticismo, è intrisa di individualismo e decadentismo. Ma è anche carica della necessità di uscirne. Si può chiamare letteratura della borghesia solo nel senso che è autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria» [9]. 

L’atteggiamento critico giusto nei confronti degli autori da cui vogliamo prendere distanza, osserva Vittorini, non è quello di ignorarli o insultarli ma quello che hanno utilizzato con intelligenza sia Marx con Balzac che Gramsci con Benedetto Croce. Suonare il piffero alla rivoluzione non è rivoluzionario, conclude polemicamente la sua lunga lettera a Togliatti

Lo scontro tra Vittorini e il PCI di Togliatti rimane uno degli episodi cruciali della politica e della cultura del nostro ultimo dopoguerra. Muraca, pur ricostruendo in modo problematico questo scontro, alla fine riesce a cogliere i termini reali del conflitto:

Prima di tutto, dal punto di vista teorico, il marxismo problematico e antidogmatico del Politecnico contraddiceva «la linea storicistica del ‘meridionalismo democratico’ (la linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci ai quali sarebbero stati innestati, con l’inizio della guerra fredda, Stalin e Zdanov) su cui si basavano sia l’azione che la ricerca politico-culturale del ‘partito nuovo’  e dei suoi intellettuali organici» (ivi:17) Inoltre le posizioni di sinistra espresse dalla rivista (ad esempio, i continui attacchi rivolti al Vaticano) mettevano in discussione la linea politica e la strategia delle alleanze del Partito di Togliatti che, per la verità, poco aveva in comune con il pensiero autentico di Gramsci.

Riguardo a quest’ultimo va detto che Vittorini – prima ancora di conoscere integralmente gli scritti del sardo e alcuni documenti relativi alla rottura che c’era stata nel 1926 tra i due dirigenti comunisti nel giudicare la piega che aveva preso l’ URSS dopo la morte di Lenin – è stato uno dei primi ad  intuire l’originalità del pensiero gramsciano. Non a caso pubblicherà sul Politecnico mensile un saggio dell’eretico Lukacs e alcune lettere dal carcere di Gramsci. Cose che contribuiscono ad evidenziare la modernità e la lungimiranza della rivista.

Muraca in conclusione fa suo il bilancio critico del Politecnico di uno dei principali redattori della rivista,  Franco Fortini:

«Nata da una forse ingenua fiducia nel garibaldinismo culturale; cresciuto fino ad intravedere quale avrebbe dovuto il lavoro di gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio Paese; finito quando, all’avvicinarsi del lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è rilevata la debolezza teorica, l’incertezza, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato […] tanto lungo discorso se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se soprattutto –e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i principali problemi d’oggi sono quelli medesimi che esso ha posti e, per primo, descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, di un linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di nuove possibili vie di metodologia critica» [10].

Dopo l’attenta ricostruzione della storia del Politecnico, il libro di Muraca offre un sommario esame di altre riviste sorte successivamente – come  Officina, Il Verri, Il Menabò, Discussioni ecc – su cui sorvoliamo. Colpisce però il suo silenzio su due riviste – come Il Ponte e Nuovi Argomenti – che hanno svolto un ruolo non meno importante in quegli stessi anni e hanno resistito a lungo al logorio del tempo.

Notevole è lo spazio che Muraca dedica ai famosi Quaderni Piacentini che fu uno di periodici più letti dai giovani degli anni 60 e 70. A fondare la rivista, il cui primo numero esce nel marzo 1962, sono stati due giovani intellettuali piacentini, Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. I due, prima ancora della rivista, a Piacenza avevano creato un circolo culturale che organizzava dibattiti e cineforum. Il Circolo aveva ospitato anche grandi intellettuali e personaggi del tempo come Ernesto De Martino, Franco Fortini, Enzo Paci, Danilo Dolci, Vittorini, suscitando le ire della Curia e dello stesso PCI. Franco Fortini, secondo Muraca, ha dato un contributo fondamentale alla nascita della rivista. A lui si deve la Lettera del 1961 in cui afferma:


«Compito dell’intellettuale è ripensare i termini storici e gli errori attraverso i quali si è sviluppato, da noi e nel mondo moderno, il rapporto fra intellettuali e potere politico e di riprendere coscienza, dopo un decennio di oscuramento (morte della Resistenza e delle ideologizzazioni forzate) della portata social-politica del proprio lavoro e della propria esistenza. Da queste premesse scaturisce la necessità di una scelta radicale:[…] La scelta è tra  una prospettiva di omogeneizzazione progressiva del corpo sociale nella società del benessere, eterodiretta e pseudodemocratica, scientifica e buro-tecnocratica e una prospettiva di massimo intervento attivo sui destini e sulle scelte, tramite la collettivizzazione degli strumenti capitalistici di produzione e di scambio […] e attraverso l’identificazione e lo sviluppo delle reali antitesi sociali, oggi occultate o, detto altrimenti, della lotta di classe» [11].

Insomma Fortini, avendo rotto definitivamente col PSI, vedeva nel nascente centro-sinistra l’ennesima “operazione Gattopardo” italiana, e, pur consapevole degli spazi sempre più stretti che restavano alla via rivoluzionaria, avanzava «una proposta assolutamente romantica, […], una proposta di ‘dover essere’ »[12]. È comprensibile che i giovani di Piacenza abbiano rivissuto nelle parole di Fortini il mito de Il Politecnico e delle altre esperienze del marxismo critico che, nel corso del primo decennio del dopoguerra, avevano lavorato per affermare un’altra linea rispetto allo stalinismo e al togliattismo imperanti.

Nel primo numero dei Quaderni Piacentini, sotto l’intestazione della rivista, veniva stampata la seguente Avvertenza:  

«Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non solo all’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve esser seri senza essere noiosi. Con allegria» (in Muraca, 2024: 64).

Già da questa Avvertenza si poteva cogliere l’originalità dello stile comunicativo della rivista. E sarà questa una cifra caratteristica dei Quaderni Piacentini; così, contro tutte le retoriche celebrazioni della Resistenza, in un altro numero della rivista si afferma:

«No, no no. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano ‘onorati’ con monumenti ‘ai caduti di tutte le guerre’ inaugurati da Vescovo, Prefetto, Presidente del Tribunale, Commissari, Intendenti e Soprintendenti. Meglio il silenzio. Il senso della Resistenza fu: RIVOLUZIONE, RINNOVAMENTO».  

All’inizio la rivista somiglia a tante altre rivistine ciclostilate prodotte dai circoli culturali giovanili di quegli anni. Ma, a partire dal 1965, con l’arrivo in redazione di Goffredo Fofi, i Quaderni s’impongono all’attenzione nazionale per le note di critica sociale, culturale e di costume, le recensioni, le invettive, le stroncature, la rubrica dei libri da leggere e non leggere. E a farne le spese furono davvero in tanti: mostri sacri come Moravia e Pasolini, accusati (spesso ingiustamente) di essersi compromessi con l’industria culturale; il Gruppo 63, cantore della modernizzazione capitalistica; l’anticomunismo viscerale e il filoamericanismo de “Il Mondo” di Pannunzio. Di certo oggi alcuni giudizi appaiono troppo perentori e sommari ma allora spesso coglievano nel segno.

La rivista pubblica contributi importanti di R. Solmi, C. Cases, V. Strada, L. Amodio, S. Bologna, S. Timpanaro, R. Panzieri e F. Fortini. Indubbiamente la rivista coprì un vuoto politico e culturale reale. Infatti i Quaderni piacentini contribuirono, nella seconda metà degli anni Sessanta, a diffondere un nuovo patrimonio di idee, un atteggiamento radicale ed antagonista e a preparare il terreno all’affermazione del Sessantotto.

Non possiamo chiudere questa recensione senza un accenno al saggio finale di Gabriela Fantato con cui si conclude il libro di Giuseppe Muraca. Il saggio s’intitola: Un pensiero eretico: il femminismo degli anni Settanta e le sue riviste. Innanzitutto bisogna riconoscere che ha fatto bene Muraca a non dimenticare le riviste femministe della fine del secolo scorso anche perché, come è stato osservato da molti, tra tante rivoluzioni fallite quella femminista risulta essere, ancora oggi, una di quelle meglio riuscite.

Il movimento femminista in Italia si manifesta e si sviluppa anni dopo quello francese, inglese e americano. L’ Italia degli anni Sessanta era ancora un Paese arretrato e prevalentemente contadino. Il Codice penale e civile, fino ai primi anni Settanta, prevedevano perfino il delitto d’onore; il divorzio non era consentito e l’aborto era considerato un grave reato. Si dovrà aspettare la fine degli anni Settanta per l’affermazione di un nuovo diritto di famiglia.

Libreria delle donne a Milano, 1970 (ph. Bibi Tomasi)

Ma, dal punto di vista culturale, le donne italiane erano già più avanti dei vecchi codici. Già alla fine degli anni 60 circolavano in Italia i libri di Simone De Beauvoir e delle femministe inglesi e americane. Nel 1970 viene pubblicato il saggio di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, che tanta risonanza avrà nei primi movimenti femministi italiani. Il libro della Lonzi aprì anche un dibattito in campo filosofico perché svelava il grande rimosso del corpo e della voce femminile, attraverso un percorso di critica del pensiero occidentale. A Milano sorge la famosa Libreria delle donne e, nel 1973, la prima rivista femminista italiana Sottosopra che diventa portavoce delle principali istanze del movimento: insistere sulla differenza tra uomini e donne; mettere in luce la specificità delle donne, il corpo e il desiderio delle donne. Naturalmente il Movimento femminista venne accolto inizialmente con sospetto dalla stessa Sinistra che considerava eretiche tante sue posizioni.

Tutte le riviste esaminate da Giuseppe Muraca, pur nelle loro differenze, avevano un tratto comune: erano opere di gruppo, opere collettive, segno appunto – come ben dice l’autore del saggio – di un Fare comune. Oggi, tra le tante cose perdute, va segnalata questa: la perdita della voglia di fare gruppo in una società sempre più frammentata dove sembra che ci sia spazio solo per individui isolati che se la cantano e se la suonano da soli. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024

Note 

[1] Cito dall’ottima Antologia de Il Politecnico curata da Marco Forti e Sergio Pautasso, edita da Rizzoli Milano, 1975: 55

2[]   Ivi: 56

[3]  Vedi, ad esempio, cosa scrive Romano Luperini nel suo Novecento, Loescher, Torino 1981: 384, cit. da Muraca: 15.

[4]  Il “Programma” del Politecnico, inedito per diversi anni, venne stampato la prima volta nel n. 17- 18 (luglio-settembre 1964) dei Quaderni Piacentini.

[5] Franco Fortini, Che cosa è stato il Politecnico, in Dieci inverni citato da Muraca: 12-13.

[6]  Politica e cultura. Lettera a Togliatti Il Politecnico n.35, gennaio-marzo 1947, ora in Antologia de Il Politecnico, op. cit.:121.

[7]   Ivi: 122-123.

[8]   Ivi: 128. Vittorini mostra chiaramente di aver letto in anticipo, come Luigi Russo, almeno una parte del Quaderno gramsciano sul Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce che sarà pubblicato da Einaudi nel gennaio del 1948: «Antonio Gramsci ristabilisce la piena attualità del marxismo, non senza aver accolto talune delle obbiezioni crociane, e non senza essersene giovato» (ivi: 132). D’altra parte Togliatti, fin dal 1945, aveva preso contatto con l’editore Einaudi per pubblicare la prima edizione tematica dei Quaderni.

[9]  Ivi: 137.

[10]  Franco Fortini cit. da Muraca: 18-19.

[11]  Franco Fortini, Lettera ad amici di Piacenza, in Ospite ingrato, Marietti 1985: 78-84

[12]  Fortini cit. da Muraca: 62