“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
30 novembre 2024
LA MACCHINA MONDIALE DI PAOLO VOLPONI
LA ROSA DI FEDERICO GARCIA LORCA
LUNA D' INVERNO
LA POESIA DI MARIA GRAZIA INSINGA TRADOTTA IN INGLESE
29 novembre 2024
CONTRO TUTTE LE GUERRE E CONTRO IL MUTISMO
"La Bomba in testa e il mutismo dei colti"
Le inquietanti dichiarazioni di questi giorni di Vladimir Putin che alludono
esplicitamente all’uso delle armi nucleari contro l’Ucraina e i Paesi che la
sostengono non vanno per nulla sottovalutate né derubricate a mera retorica
propagandistica. Affermazioni come “Gli Stati Uniti ci spingono a un conflitto
mondiale” e “siamo pronti per un altro scenario” segnano un salto di qualità
senza precedenti nella guerra russo-ucraina. L’autorizzazione di Biden a
colpire i territori russi con il lancio di missili americani di lunga gittata e
l’uso del micidiale ordigno di distruzione, l’”Oreschnik”, testato dai russi a
Dnipro, costituiscono una tappa ulteriore di avvicinamento verso la
rilegittimazione, dopo Hiroshima e Nagasaki nel 1945, del ricorso alla bomba
atomica come soluzione delle controversie internazionali. Nonostante le
rassicurazioni mendaci, circa il loro potenziale distruttivo, da cui vengono
avvolte le nuove armi nucleari cosiddette tattiche, ciò che importa sottolineare
è che si registra oggi il tentativo di normalizzare la guerra come strumento di
riconoscimento del ruolo degli Stati nel sistema delle relazioni
internazionali. Eppure, se la “terza guerra mondiale a pezzi”, come la chiama
papa Francesco, diventasse malauguratamente “conflitto mondiale” tout court,
allora al rischio dell’autodistruzione dell’umanità non potremmo più sottrarci.
A fronte di questa situazione drammatica, che pone interrogativi ancora più
angosciosi rispetto a quelli suscitati nell’età della Guerra Fredda da un
possibile scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ciò che colpisce è il
silenzio degli intellettuali. Almeno nello spazio pubblico e mediatico, gli
intellettuali – nella declinazione plurale di questo concetto (dagli scienziati
in senso stretto agli esperti dei vari saperi) – sembrano arroccati nelle loro
professioni, quasi timorosi di dare voce a una presa di posizione ammonitrice o
a un grido d’allarme rivolto a scuotere l’opinione pubblica e i governi.
L’impressione è che i ceti colti del XXI secolo si siano assuefatti all’idea
hobbesiana che la guerra è una procedura fisiologica nella regolazione dei
conflitti internazionali e perfino nei rapporti con l’altro, cioè con chi è
distante dal nostro modo di vivere e di pensare. Al contrario, dopo Hiroshima e
Nagasaki, negli anni Sessanta e Settanta fiorì una vasta letteratura sulla
nuova condizione dell’umanità nell’era atomica e sulla responsabilità che
incombeva sui decisori politici, mentre si moltiplicavano gli appelli di
scienziati, filosofi e giuristi affinché l’opinione pubblica internazionale
sollecitasse i rispettivi governi a trovare un “modus vivendi” tra gli opposti
regimi politici e le rispettive sfere d’influenza (il comunismo sovietico e la
democrazia euro-atlantica egemonizzata dagli USA). Basti pensare, per fare solo
qualche esempio, a filosofi come Karl Jaspers, autore di “La bomba atomica e il
destino dell’uomo” (1960), e a Günther Anders, che nel 1964 nel “Discorso sulle
tre guerre mondiali” metteva in guardia che una guerra nucleare “potrebbe
liquidare l’intera umanità”. Alcuni anni prima, nel 1955, Albert Einstein e
Bertrand Russell avevano promosso un manifesto in favore del disarmo
antinucleare e della scelta pacifista, sottoscritto dai più influenti scienziati
e intellettuali dell’epoca. Il manifesto sollevava “un problema grave,
terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o
l’umanità saprà rinunciare alla guerra?” Come ci ricorda lo psicoanalista Diego
Miscioscia nel suo bel libro, “La guerra è finita. Psicopatologia della guerra
e sviluppo delle competenze mentali della pace”, appena pubblicato dalla casa
editrice pugliese La Meridiana (fondata dal compianto Guglielmo Minervini,
guardacaso autore di un testo intitolato “L’abecedario dell’obiettore”), anche
l’Italia in quegli anni non è stata estranea alla diffusione della cultura
della pace. Infatti, proprio nel 1964 due psicoanalisti italiani, Franco
Fornari e Luigi Pagliarani davano vita alle prime riflessioni ed esperienze nel
campo della psicologia sul rischio di un conflitto nucleare. Ne nacque un
pamphlet, “Si può organizzare la speranza? (L’esperimento del Gruppo Anti H)”,
che a firma di Pagliarani confluì nel libro di Fornari, “Dissacrazione della
Guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti”, che uscì nel 1968 con
Feltrinelli. Ma accanto a Fornari e Pagliarani in quegli anni la cultura della
pace conobbe una stagione di grande elaborazione e di straordinarie
mobilitazioni di massa: dalla nonviolenza di Aldo Capitini all’obiezione di
coscienza promossa da don Milani. Senza dimenticare don Tonino Bello, che nel
1993 entrava a Sarajevo con il movimento “Beati i costruttori di pace”. Di
fronte al riapparire di un rischio ancora più grave di un’apocalisse atomica,
torna, dunque, il tema della responsabilità degli intellettuali. Ma con una
differenza non di poco conto: oggi si tratta di prendere coscienza che occorre
affinare la cultura della pace con nuovi strumenti concettuali e con nuove
esperienze pratiche. Non basta più un pacifismo di tipo istituzionale o
giuridico, a cui per esempio si richiamava Norberto Bobbio, che giustamente
esaltava il ruolo degli organismi internazionali come l’ONU o le Corti
Internazionali di Giustizia per tutelare la pace nel mondo e perseguire i
crimini di guerra. Come suggerisce Miscioscia, lo sforzo che oggi dobbiamo
compiere è di comprendere le motivazioni più profonde della guerra: in primo
luogo “l’ansia genetica” nascosta nelle pieghe della nostra evoluzione come
specie, le “ferite psicologiche” dovute a povertà materiale ed educativa, le
“fantasie di onnipotenza” espresse attraverso impulsi aggressivi. In breve,
occorre lavorare sulla mente del soggetto – e, aggiungerei, sulla mente
“incarnata” – per formare fin dalla scuola dell’obbligo le competenze
psicologiche della pace: empatia, gentilezza, solidarietà, rispetto dell’altro,
convivialità, capacità di dialogare con gli altri e con se stessi. Tuttavia, a
mio avviso, queste qualità di una nuova cultura di pace per essere davvero efficaci
vanno integrate da un cambiamento di paradigma di tutti i saperi - umanistici e
scientifici in senso stretto – e dalla loro capacità di elaborare categorie di
giudizio adeguate alla situazione catastrofica che stiamo attraversando non
solo a livello geopolitico, ma anche sul piano interno degli Stati:
concentrazione della ricchezza nelle mani di un’oligarchia transnazionale,
crescita delle diseguaglianze, migrazioni di popoli, collasso ecologico del
pianeta, trasformazione dell’altro da noi in nemico. Sono tutti segnali che la
logica della guerra è penetrata dentro le nostre forme di vita e sta minando la
nostra convivenza democratica. Per contrastarla occorre trasformare l’ideale
della pace in una forza etica capace di orientare concretamente i nostri saperi
e la nostra stessa vita quotidiana.
Francesco Fistetti
HEGEL E IL SUO TEMPO APPRESO COL PENSIERO
La dialettica in Hegel costituisce l’elemento corrosivo;
rappresenta la trascrizione in termini moderni di quello che era lo scetticismo
antico. Essa serve, innanzitutto, a dimostrare l’inconsistenza dei concetti per
come vengono presentati dall’intelletto, ovverosia come qualcosa di
giustapposto e di tabellare. Tuttavia, il culmine del pensiero hegeliano non è
rappresentato dalla dialettica, ma dalla speculazione, ossia la ricostruzione
articolata e sistematica — ma allo stesso tempo mobile, quindi che si evolve —
di tutto un determinato orizzonte. Per quanto riguarda, invece, l’idea di porre
in evidenza gli aspetti legati al lavoro, alla disoccupazione, alle macchine e
soprattutto, al denaro, questa mi viene dalla nuova esperienza, che abbiamo
vissuto, delle crisi economiche e finanziarie. Da un lato, questo è un vissuto
che fa guardare a quello che avevo scritto prima con occhi diversi, senza,
tuttavia, inficiarne le altre parti. Ma è dovuto anche al fatto che,
effettivamente, la pubblicazione delle Lezioni berlinesi e di
Heidelberg hanno messo a disposizione una quantità di materiali che
prima non si conoscevano. Essi rafforzano l’idea di uno Hegel lettore di testi
di economia politica e di giornali inglesi e francesi, che conosceva banchieri
e discuteva di sansimonismo, che era conscio di vivere nella Restaurazione,
ovverosia in un’epoca prosaica rispetto ad un’epoca eroica precedente, un’epoca
i cui caratteri sono fatti risaltare splendidamente ne Il rosso e il
nero di Stendhal. Tale percezione mette alla luce, anche attraverso
l’apporto di questi nuovi testi, quello che noi sentiamo, ossia di vivere in
un’epoca in cui la vita è diventata precaria; non solamente perché la
disoccupazione giovanile è aumentata, ma anche perché tutta l’esistenza nel suo
complesso e il futuro si sono un po’ oscurati. La talpa anche presso di noi
continua a scavare e non sappiamo in quali direzioni. Anche in questo senso,
l’idea di Hegel è quella di mostrare che Das Kapital — il
quale non è un’invenzione di Marx — domina la politica, nella misura in cui le
strutture che lo costituiscono si sono rese indipendenti dal piano politico
stesso. Le accuse a Hegel di essere uno statolatra, uno strenuo difensore dello
stato prussiano sono, anche in questo senso, da ridimensionare. Egli vede che
lo Stato è fortemente indebolito dall’economia e che la logica della società
civile si sta sovrapponendo a quella politica. Per questo motivo, almeno
all’inizio, egli cerca di porvi rimedio conferendo autorità allo Stato contro
queste forze individualistiche proprie dell’economia. Inoltre, vede che
l’effetto dell’apporto delle macchine è stato quello di produrre un eccesso; un
eccesso che la gente non è più in grado di acquistare e che determina crisi
economiche, le quali hanno come conseguenza la sollevazione, per esempio, degli
operai inglesi che distruggono le macchine e la produzione di un’enorme
miseria, ossia la plebe diffusa. Hegel si accorge che l’emigrazione nelle
colonie non è più una soluzione sufficiente a fermare questi conflitti, poiché
il denaro è diventato potenza incontrastata, la cui circolazione, tra l’altro,
riproduce la medesima struttura del sistema, un “circolo dei circoli” che
aumenta e si ingrandisce ogni volta. La crisi mostra l’insolubilità di tale
conflitto; dal punto di vista politico, poiché si tratta di un’epoca farsesca,
nella quale non si riescono a creare delle maggioranze, dal punto di vista
socio-economico a causa della disoccupazione (Arbeitslosigkeit). Ma
soprattutto, in questi testi si ha a che fare con uno Hegel straordinariamente
eversivo, che dice che gli operai senza lavoro, senza pane (die brotlosen
Arbeitern), hanno il diritto di rubare, poiché c’è un problema di
sopravvivenza che è più importante della legalità. Qualcosa che oggi si direbbe
nei circoli anarchici o nei centri sociali, ossia che la proprietà è un furto,
etc. Hegel lo dice incidentalmente, anche perché era un uomo cauto, che sapeva
di essere controllato dalla polizia, ma indubbiamente questi nuovi testi, di
cui mi servo moltissimo nel libro, mostrano uno Hegel più ad amplio spettro. In
questo libro* ho trattato Hegel non per farne un’apologia, né soltanto per
liberare il suo pensiero dai fraintendimenti a cui era stato soggetto; queste
operazioni erano certamente necessarie per comprenderlo meglio, ma anche per
capire i suoi limiti. Il limite principale è che, sostanzialmente, lui pensa
come un europeo. Di conseguenza, vede gli altri continenti e le altre culture
come un qualcosa di non maturo, dove addirittura la filosofia è assente e c’è
soltanto una forma di saggezza. Noi, invece, viviamo in un’epoca in cui le
civiltà del mondo si confrontano, e la dialettica hegeliana nella sua forma
classica non regge, così come dopo la sua morte l’architettura del sistema non
funziona e ne vengono mutuate solamente delle componenti. La stessa cosa era
accaduta in epoca ellenistica con la dissoluzione del modello
aristotelico-platonico. Aristotele, per esempio, riguardo alla condotta umana,
prendeva in considerazione vari elementi: la Τύχη, il caso, l’Ἀνάγκη, la
necessità e il Tέλος, la finalità. Accadde che gli epicurei attribuirono grande
importanza al caso, gli stoici alla necessità, mentre la finalità finì per
essere irrisa già a partire dai neoplatonici. Allo stesso modo Hegel pensa che
la sua struttura sia valida per la diagnostica, ma non per la prognostica e,
pertanto, il sistema si sfalda, come si diceva prima, dando origine a dei
frammenti incomponibili all’interno di una visione generale. Questo ha portato
molti a denigrare l’idea di sistema, che sembra l’opera di un pazzo, mentre io,
al contrario, ho cercato di mostrare come esso abbia un suo senso e come,
sebbene questo sistema oggi non sia più edificabile, sia necessario partire da
esso per comprendere Hegel, i suoi limiti e le sue possibilità e la coerenza
presente nell’evoluzione del suo pensiero.
* REMO BODEI, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel,
Il Mulino, Bologna 1975