Luciano Canfora
La guerra civile
europea e l'amarezza di Croce
I Taccuini di Benedetto
Croce relativi agli anni 1943-1945 furono editi, anni addietro, da
Adelphi ("Taccuini di guerra", 2004). Memorabile, tra le
molte altre, la pagina di diario datata 17 aprile '44, scritta sotto
l'impressione della notizia dell'uccisione, a Firenze, di Giovanni
Gentile. Scrive Croce: «La mattina a prima ora, è venuto da Capri
il buon Brindisi a discorrere con me di quanto sta operando colà
come sindaco molto zelante, e nel mezzo del discorso mi ha detto di
aver udito sul battello che il Gentile è stato ammazzato a
Firenze!La notizia, purtroppo, è stata poco dopo confermata dalla
Radio di Londra».
(…) Vi è comunque
un'altra nota diaristica, questa volta del genero di Croce, Raimondo
Craveri, che aggiunge un altro dettaglio: «A metà aprile 1944,
Giovanni Gentile era stato ammazzato a Firenze. Croce mi domandò da
chi. Risposi dai partigiani. Il commento fu: Ammazzano anche i
filosofi». (…) Significativo è il commento di Craveri: «Con
quelle parole Croce prendeva coscienza, di una guerra civile ormai in
corso e non soltanto di una animosa resistenza militare contro i
Tedeschi ».
L'osservazione di Craveri
non è esatta. In Croce, infatti, la consapevolezza, del carattere di
"guerra civile" del grande conflitto in corso si era venuta
formando da tempo. Lo attestano le parole dolenti e meditate da lui
pronunciate nel memorabile discorso di apertura del Congresso
nazionale dei CLN tenutosi a Bari, nonostante il boicottaggio
alleato, il 28 gennaio 1944: «(…) A poco a poco la luce si fece in
noi: cominciammo a udire intorno a noi il giudizio che la presente
guerra non era una guerra tra popoli ma una guerra civile; e più
esattamente ancora, che non era una semplice guerra di interessi
politici ed economici, ma una guerra di religione; e per la nostra
religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al
penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana, di una vittoria
che sarebbe stata non solo la rovina del restante mondo ma quella
dell'Italia resa schiava della Germania e, direi, della stessa
Germania resa a sua volta indefinitivamente schiava di una frazione
di prepotenti, schiavi essi stessi della propria sfrenata ed ebbra
animalità, giacché solo le idee legano gli uomini, serbandoli
liberali, e la Germania oggi non ha idee ma cupidità ed istinti
brutali».
In questa pagina si
coglie il travaglio di un uomo del secolo XIX alle prese con una
lacerazione che già nel precedente conflitto mondiale si era
prodotta in lui al bivio: da un lato il rammarico profondo per la
irreparabile frattura nella res publica litterarum e l'adesione alla
grande cultura filosofica e letteraria tedesca, e dall'altro il
doversi allineare per "patriottismo" alle scelte senza
ritorno compiute dal governo del proprio Paese.
Ora, con la guerra in cui
l'Italia si era, non senza complicità della Corona, inabissata, la
lacerazione era ancora più forte e alla lunga insostenibile: perché
quella era la guerra, non dell'Italia, ma del fascismo e inoltre
perché, per un tempo non breve, e decisivo, la guerra – facendosi,
da europea, mondiale – era diventata sempre più chiaramente una
"guerra civile", una guerra tra i fascismi, tra loro
saldamente coalizzati, e gli avversarî, ciascuno mosso da sue
proprie motivazioni, del fascismo; e dunque una guerra che di
necessità attraversava e dilaniava ogni singolo Paese, e l'Italia e
la Francia più che altri. Croce intuisce e formula ben prima di
altri il concetto di «guerra civile europea». (…)
Ma Croce è anche, mentre
svolge questo ragionamento, abile politico. Egli sa bene, perché
l'esperienza storica dei destini d'Italia tra Bonaparte e
Restaurazione glielo documenta, che l'intreccio tra «guerra civile»,
o «di religioni» o «di valori » contrapposti, e politica di
potenza è inestricabile. E perciò, mentre si spinge a dire con
estrema chiarezza: «Noi ricercammo ansiosi la formazione
dell'avvenire migliore dell'Italia non già nei successi militari del
cosiddetto Asse ma nei progressi lenti e faticosi dell'Inghilterra, e
poi della Russia e della America», ammonisce subito dopo gli Alleati
a non tradire le aspettative italiane alla maniera in cui nel 1814/15
le potenze coalizzate contro Bonaparte avevano illuso, e poi tradito,
i popoli il cui appoggio avevano sollecitato onde sconfiggere
Bonaparte.
E lo dice – in un lembo
d'Italia sotto stretto controllo anglo- americano – in una forma di
auspicio ammantato di certezza, che però suona soprattutto come
ammonimento: «Un legame, dunque, si è stretto tra noi e le potenze
alleate, un legame diverso e superiore a quello dei trattati
politici, degli armistizi e delle rese, perché è in una promessa di
carattere morale e religioso, da noi religiosamente accolta. E noi
sappiamo bene che questa volta non accadrà quello che altra volta
accadde nella storia d'Italia, quando, dopo aver eccitato le
popolazioni italiane a scuotere il dominio napoleonico, e a
rivendicarsi a indipendenza e libertà, le potenze vincitrici le
riconsegnarono ai vecchi aborriti regimi, e un nostro poeta, il più
temperato e meditativo dei nostri poeti (ho detto Alessandro
Manzoni), dové amaramente rimproverarli: "O stranieri, sul
vostro stendardo – sta l'obbrobrio di un giuro tradito" (…)».
Quando poi la dura realtà
effettuale si manifestò e gli Alleati operarono vieppiù da grandi
potenze e sempre meno da «collaboratori ad un'opera comune», la
reazione di Croce fu netta e non scevra da amarezza. In un articolo
del settembre '45 scrive, rivolgendosi ai vincitori: «Noi accettiamo
da parte nostra le responsabilità di aver lasciato impiantare il
regime fascista e di non aver avuto la possibilità di buttarlo via
con una scossa quando dichiarò la stolta guerra, perché i debiti,
in qualsiasi modo contratti, si debbono pagare; ma che di fronte ai
debitori ci sono i creditori onesti e ragionevoli, e ci sono gli
spietati e odiosi usurai; e agli Alleati non gioverà farsi
annoverare tra questi ultimi». (…)
Ultimo atto di questa
vicenda può considerarsi il discorso alla Costituente contro la
bozza di trattato di pace. (…) In quel discorso Croce prende le
distanze dallo schematico ragionamento in cui aveva creduto appena
tre anni prima, nel gennaio del '44, che cioè la natura di «guerra
civile», inerente al conflitto allora ancora in atto ma ormai
volgente al termine, avrebbe per automatico riflesso affratellati e
posti dalla stessa parte i vincitori e gli italiani che combattevano
il fascismo (ancora in piedi) e che sempre più s'impegnavano a dar
vita, prima ancora che la guerra fosse terminata, ad una nuova e
diversa Italia assertrice degli stessi valori e propositi che i
vincitori (e in primis gli anglo-americani). Ora invece egli è
costretto a prendere atto che i vincitori – unendo alla necessaria
richiesta di risarcimento un giudizio morale sui vinti – ammantano,
ancora una volta, «la ricerca dell'utile sotto la maschera del
giudice imparziale». (…)
Non è questa la sede per
riaprire la vexata quaestio. Ciò che qui importa osservare è la
dolorosa presa d'atto, da parte di Croce ormai più che ottuagenario
e leader indiscusso della parte liberale della Costituente, della
impraticabilità di quell'automatismo non necessariamente implicito
nella pur pertinente nozione di «guerra civile » europea (o meglio
planetaria): e soprattutto il riconoscimento, ancora una volta, di
quella «durezza della politica» da lui lucidamente intesa ma
ostinatamente avversata sul piano morale.
La Repubblica – 24
ottobre 2016
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