I giovani di oggi sono
fortunati perchè hanno subito a disposizione il grande libro di
Claudio Pavone sulla Resistenza. Noi, che pure eravamo nati quasi in
quegli anni, dovemmo invece attendere a lungo per essere davvero
messi in condizione di capire. Il libro uscì nel 1991 quando ormai
eravamo una generazione di quarantenni disillusi. Forse leggerlo
prima ci avrebbe evitato molti errori. O forse no. Resta il fatto che
senza di lui la Resistenza sarebbe rimasta un mito e i miti a volte
possono anche essere molto pericolosi.
Guido Crainz
Claudio Pavone
Si definiva “azionista postumo”, Claudio Pavone, morto ieri il giorno prima di compiere 96 anni. Ed era molto vero: non aveva fatto parte del Partito d’Azione (partecipò alla Resistenza prima a Roma, con il Partito socialista, e poi – dopo alcuni mesi di carcere – a Milano, in un piccolo raggruppamento di sinistra) ma ne condivise per tutta la vita il rigore laico e l’impegno civile. Furono gli elementi costitutivi di uno storico, e di un maestro, discreto e insostituibile, lontano dalle grandi ribalte dei media e estraneo alle baronie accademiche. Ricco di sensibilità e ironia, gentilezza e umanità, profondità e leggerezza al tempo stesso, che traspaiono sin dalle “memorie del 1943-45”, La mia Resistenza (Donzelli, 2015).
Prima di scegliere l’insegnamento universitario lavorò a lungo come archivista nell’amministrazione dello Stato e vi lasciò segni non effimeri: a partire dalla Guida generale degli Archivi di Stato italiani, alla cui ideazione e realizzazione diede un contributo decisivo. Mi sono chiesto a lungo, ha scritto, se e come la moralità, le idee e la cultura riescano a lasciare il loro segno nelle istituzioni: la mia «vena di moralismo vagamente anarchico», ha aggiunto, mi spingeva a dubitarne ma proprio il mio lavoro di storico e di archivista mi ha talora convinto che questa possibilità esiste.
Vi è qui una chiave per
comprendere molti suoi tratti: l’intreccio profondo fra impegno
intellettuale e passione civile, ad esempio, o una attenzione alle
fonti – non solo a quelle archivistiche – che è rigorosissima ma
non ha nulla di erudito. Pavone le viveva, al contrario, come
strumento essenziale per indagare anche gli aspetti più insondabili
dell’individuo e delle vicende collettive. E poteva farlo proprio
perché muoveva da una grandissima apertura e ricchezza culturale: è
un vero scrigno la sua Prima lezione di storia contemporanea
(Laterza, 2007: e presso lo stesso editore ha pubblicato di recente
Aria di Russia, appunti di un viaggio del 1963).
La passione onnivora con cui guardava alle fonti è limpidamente testimoniata dal suo lavoro più importante, uno dei grandi libri del Novecento italiano: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Una tappa fondamentale nel suo percorso di ricerca, che si è allargato di continuo ai grandi nodi della storia contemporanea ma ha avuto costantemente al centro la stagione della Resistenza e il suo rapporto con la nascita della Repubblica.
I suoi contributi più
stimolanti su questo terreno sono venuti in coincidenza con tre fasi
di rinnovamento culturale del Paese, o di rifondazione dopo il crollo
delle certezze. Così fu nel post 1956, in un clima che Pavone visse
anche nell’esperienza di Passato e presente, la rivista animata da
Antonio Giolitti e Luciano Cafagna, Alessandro Pizzorno e Alberto
Caracciolo. In quelle pagine pubblicò nel 1959 Le idee della
Resistenza. Antifascisti e fascisti davanti alla tradizione del
Risorgimento: una critica puntuale della lettura “ufficiale”, o
dello stereotipo, della Resistenza come “Secondo Risorgimento” e
al tempo stesso una rivisitazione penetrante di entrambe le fasi, e
degli usi politici che ne erano stati fatti.
Ancora un suo denso
saggio troviamo poi al centro del dibattito successivo al ‘68, un
movimento cui aveva guardato con attenzione partecipe e con speranza
(vide allora «riaprirsi il campo del possibile», come scrisse). Fra
i temi che quei fermenti avevano messo all’ordine del giorno vi era
anche il contrasto fra le speranze di trasformazione del 1943-45 e
l’“Italia reale” che ne era poi nata, presto immersa nel clima
teso della guerra fredda. Riflettendo su quel nodo in sintonia con
Guido Quazza, Pavone mise a fuoco una questione essenziale: la
“continuità dello Stato” nel passaggio dal fascismo alla
Repubblica come corposo freno a un rinnovamento reale. Non una
continuità assoluta, ma un tenace permanere di apparati, di uomini e
di culture da cui sarebbero venuti condizionamenti pesanti.
Nei suoi saggi su questi
temi — raccolti poi in Alle origini della Repubblica (Bollati
Boringhieri, 1995) — trovavano risposte e al tempo stesso ulteriori
stimoli le ansie di comprensione della realtà italiana che il ‘68
aveva alimentato, e venivano superate sia le rimozioni che le
semplificazioni ideologiche. Era solo la premessa di Una guerra
civile, frutto di una riflessione che portò a fondo anche in
reazione al più generale disorientamento e “perdita di memoria”
degli anni Ottanta: comprendeva bene la necessità e l’urgenza di
contrapporre a quel clima risposte di alto profilo.
È impossibile soffermarsi su quel grandissimo libro, capace di scandagliare i differenti modi di “essere italiani” che erano sedimentati in una vicenda lunga. Capace di cogliere nella crisi del 1943-45 non solo il delinearsi di diverse e opposte opzioni ideologiche e politiche ma anche «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell’uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro».
Capace di porre al centro
una intensa riflessione sul rapporto fra scelte individuali e vicende
collettive. E di far comprendere i diversi percorsi attraverso cui
prese di nuovo corpo e significato nella Resistenza l’idea di
patria. In quel crocevia Pavone vedeva il coesistere e l’intrecciarsi
di “tre guerre”, mosse da differenti motivazioni ed aspirazioni:
la guerra di liberazione nazionale contro l’occupazione nazista,
certo, ma anche una “guerra di classe” intrisa di aspirazioni ad
un radicale rivolgimento sociale, e al tempo stesso una guerra civile
fra fascisti e antifascisti, epilogo dello scontro aperto nel 1921-22
dalle violenze squadristiche.
Proprio quest’ultima
chiave di lettura suscitò anche reazioni aspre: non solo e non
tanto, forse, perché la categoria di “guerra civile” era stata
usata strumentalmente dalla pubblicistica neofascista quanto perché
in questo modo il libro poneva alle origini della Repubblica non un
mito rassicurante ma un irto groviglio di questioni, e impediva al
tempo stesso di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella
storia nazionale. Costringeva a riflettere, anche, sul nesso decisivo
fra etica e politica: quel libro è davvero un «saggio storico sulla
moralità della Resistenza » ma al tempo stesso, come osservava
Nicola Gallerano, «una testimonianza dello spessore morale dello
storico che lo ha scritto».
La repubblica – 30
novembre 2016
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