Che i giornalisti
spesso pontifichino su tutto senza però sapere di niente è cosa
banale. Basta sfogliare un qualunque quotidiano o seguire un talkshow
televisivo. Ultima conferma le elezioni USA e il trionfo di Trump. Il
primo ad affermarlo fu Mark Twain, che per anni svolse la professione
di giornalista, in un libriccino ora ristampato.
Fabrizio Scrivano
Quella spudorata
incompetenza
Nel 1782 padre Antonio
Rubbi apriva il nono volume degli Elogij italiani propinando ai suoi
amici lettori una perla di saggezza che si potrebbe considerare una
«Piccola lezione sul giornalismo». Tracciava una distinzione tra il
giornalista «qual debb’essere» e il giornalista «per lo più chi
è». Il primo è uno spirito di vaste conoscenze e di grande
prudenza nel comunicarle, mentre il secondo è uno che diffama per
sopravvivere e vive per diffamare.
Era successo che il 21
luglio 1773, giusto un anno dopo la Confessione d’Istituto, voto
che includeva in maniera definitiva il sacerdote Rubbi nella
Compagnia di Gesù, papa Clemente XIV sopprimesse l’ordine. Persa
la tonaca e solo beneficiario di un modesto assegno, Rubbi aveva
dovuto inventarsi un’impresa editoriale solitaria, tramite la quale
continuare la sua opera di cultura e predicazione. Lavoro marginale e
di continuità periodica che lo portò a diventare propagatore di
conoscenze e in parte testimone della vita etica e culturale della
sua città per un piccolo gruppo di lettori che lo
finanziava. Crowdfunding ante litteram. Rubbi non
disprezzava il giornalismo culturale, tutt’altro, ma detestava la
mediocrità e diceva che il giornalismo vero si può fare solo come
espressione di una vasta comunità di competenze; il resto è
dilettantismo.
Questa morale la si
potrebbe rispolverare leggendo un raccontino di Mark Twain, uno tra i
tanti scritti tra i decenni Sessanta e Settanta dell’Ottocento come
articoli di giornale, raccolti nel volume Come andarono i
fatti (a cura e traduzione di Livio Crescenzi, Mattioli 1885,
2016, euro 90). La scena è questa: un giornalista di città (Twain
stesso) viene chiamato a sostituire per qualche settimana il
direttore di un giornale campagnolo per agricoltori. Le panzane e le
idiozie che si cominciano a leggere sulle pagine sono un segno così
palese dell’incompetenza del reporter su ogni argomento agricolo,
che i lettori abituali del periodico cominciano una specie di
pellegrinaggio verso la redazione, per vedere come sia fatto un
essere tanto strano, pazzo, ignorante. Precipitosamente, il direttore
rientra dalle vacanze.
Troppo tardi tuttavia,
perché ormai l’ufficio è stato devastato dagli agricoltori
indignati e la dignità del giornale è rimasta infangata per sempre.
Ciò nonostante, di indole benevola, dopo un’energica lavata di
capo all’improvvisato e fraudolento giornalista agricolo, il
direttore chiede a Twain una sola cortesia: di togliersi dai piedi al
più presto. Ma la risposta del giornalista è sprezzante e violenta.
Siete una testa di rapa rozza e incompetente, lo aggredisce. Avete
rovinato tutto con il vostro anticipato rientro, e avete condannato
il giornale a una mediocrità inconcludente, a essere riferimento di
un gruppo di contadini bifolchi e ignoranti. Sarebbero bastate un
paio di settimane perché la fama del giornale, ben farcito di
sciocchezze, si allargasse a un pubblico distratto e incompetente,
sempre volenteroso di leggere fesserie scritte da gente che non
capisce alcunché di quello che scrive. E il racconto si conclude con
queste parole: «Siete voi a rimetterci licenziandomi, non certo io,
pianta di crostate. Adios. – E poi me la filai».
Disimpegno ironico e
autoironico, dello stesso tenore con il quale il grande letterato
americano affronta e rappresenta, in questi racconti, il suo ruolo
intellettuale, che fu insieme di giornalista, narratore, polemista e
testimone, nonché cantore di un’epica di cui ancora non si era
sentita voce. Non per nulla Harold Bloom lo ha incluso nel Canone
americano. In questa raccolta non si può fare a meno di vedere un
autore in lotta con sé stesso. Da una parte l’aspirazione ad
essere soprintendente e conservatore dei fatti così come sono,
custode e diffusore di una verità solida e non corrompibile.
Dall’altra la vocazione ad essere un narratore mirabile, ammirabile
e incredibile, capace di mantenere inalterata nella più
spregiudicata fantasia e nella più spudorata alterazione del
verosimile, la verità del vero e la tensione della realtà.
Il curatore nel
selezionare i «pezzi», ha saputo alternare cronaca, memoria
autobiografica, narrazione fantasiosa e impegno civile, che hanno,
come si mette in rilievo nell’introduzione, un unico tratto comune:
la profonda ironia, la volontà umoristica e la capacità comica
dell’autore «che riflettono l’antinomia tra repressione e
trasgressione, tra norma e necessità, tra statuto e testarda
irriducibilità della realtà».
La cosa è detta con un lessico difficile, che avrebbe fatto chiudere sia i giornali di provincia sia quelli di città inventati da Mark Twain. Però la sostanza non cambierebbe: Twain non poneva tutta questa fiducia sull’onestà dello scrittore e del giornalista. E il suo monito sbarazzino, esemplificato in questi racconti, l’invito cioè a godersi l’innocenza del caso, a disarmare la tirannia dei fatti e abbandonarsi al racconto, rimane intatto e prezioso.
Oggi non ci si potrebbe mai arrendere a una simile verginità; probabilmente edulcorata già allora dalla sapienza di giornalista-scrittore di Twain ma forse spendibile tra i lettori. Si è in grado però di apprezzarla in tutto il suo splendore.
In questi articoli, o
racconti che siano, sono tante le occasioni in cui Twain mette
comicamente a nudo i modi sprovveduti del giornalista e altrettante
quelle in cui mette comicamente a nudo la stupidità dei lettori.
Come se tutto il fardello della credibilità fosse una passeggiata
sul filo teso tra l’ignoranza di chi scrive e la buona fede di chi
legge.
Di certo si è in un periodo ben precedente a quello in cui la verità dei fatti si impose o, almeno, si impose l’obbligo morale di riportare i fatti alla verità. Come tutte le realtà ciò accadde in maniera obliqua e a volte invisibile. E sarebbe facile indicare anche un grande libro, con un grande titolo, di un grande autore, con il quale questa idea di poter raccontare la verità della cronaca è stata risolutamente condivisa.
Si tratta di In Cold Blood (1966) di Truman Streckfus Persons, alias Capote, con quella sua idea straordinaria di provare a penetrare il mistero del male svolgendo un’inchiesta nella prossimità della colpa e dei colpevoli, coinvolgendosi nella vacuità delle motivazioni, nella memoria dei gesti crudeli, nello spavento del dolore e nella paura della condanna.
Nessuno sa davvero come
mai si sia diffusa l’idea che sia possibile gestire con le parole
una verità neutra, in cui la realtà delle cose emerge senza essere
il prodotto di un’azione di parte. Twain sembrava convinto che i
fatti dovessero essere dimostrati e che fosse dovere di chi scrive
prendere posizione, così da trasformare il possibile in realtà.
Potrebbe oggi valere la pena di riprendere in mano il senso di
quest’etica della comunicazione, che teneva a bada sia l’ingenuità
di credere in qualcosa come l’obiettività, l’equidistanza e il
politicamente corretto (roba ipocrita spesso) sia la febbre di
immaginare la realtà della comunicazione come il prodotto di
simulazioni e virtualità. E se dovesse venire il dubbio si fa presto
a farlo svanire, godendosi ciò che di meglio esce da questi
divertentissimi racconti: la magnifica lotta di Twain contro il
disincanto.
Il manifesto – 25
ottobre 2016
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