Come la ‘ndrangheta è diventata classe dirigente. Intervista a Antonio Nicaso
di Gabriele SantoroAntonio Nicaso, giornalista, saggista e docente universitario canadese di origine calabrese, nel breviario Mafia (Bollati Boringhieri, 137 pagine, 10 euro), pubblicato qualche mese fa, ribadiva che fin dal tardo Ottocento la mafia non è una degenerazione patologica della società, ma è strettamente integrata e intellegibile solo nel quadro delle relazioni, delle cointeressenze interclassiste che ha sviluppato con il potere politico ed economico.
Da questa constatazione ineludibile al fine di comprendere la longevità delle mafie, si muove il nuovo studio Padrini e padroni (Mondadori, 18 euro, 205 pagine), elaborato con l’amico di una vita, il magistrato Nicola Gratteri. Il saggio, già in vetta alle classifiche di vendita e lettura, tratteggia con la consueta capacità divulgativa degli autori, che non banalizza temi complessi, come la ‘ndrangheta abbia utilizzato la corruzione per diventare classe dirigente. Dall’Ottocento non era ritenuto sconveniente, da chi era interessato a mantenere o conquistare il potere, accompagnarsi con la picciotteria, poi con gli ‘ndranghetisti per la gestione del consenso mediante meccanismi clientelari. Già nel 1869 il prefetto di Reggio Calabria Achille Serpieri fu costretto a sciogliere il consiglio comunale appena eletto, a causa dei brogli e del condizionamento mafioso, motivando così al ministro dell’Interno la decisione: «Le elezioni amministrative dovettero essere annullate per difetti che dimostrarono gare di partito, fino all’avere i componenti dei seggi alterato lo stato delle urne coll’introdurvi schede false».
Risulta di particolare interesse la presentazione con le evidenze investigative e giudiziarie emerse nel tempo della cosiddetta massomafia, un’élite criminale in grado di affiancarsi a pezzi di classe dirigente, di mimetizzarsi e mettersi nella cabina di regia per il conseguimento degli affari di una holding mondiale del crimine che conserva una costante forte dimensione territoriale. «La ‘ndrangheta è un convitato di pietra della nostra democrazia, presenza incombente ma invisibile. È servita a molti, nata come patologia del potere, è servita alle classe dirigenti che con la violenza hanno mantenuto il potere. È economia più che cultura», scrivono Nicaso e Gratteri.
La ‘ndrangheta «che semina più tossine nell’economia che cadaveri nelle strade» ha compreso la lezione, l’errore di una strage come quella di Duisburg, che ha acceso i riflettori sull’espansione delle mafie nella prateria europea.
Sulla commistione tra ‘ndrangheta e massoneria è significativo un passaggio, nel quale vengono riportate le dichiarazioni dell’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo, interrogato dal pm Lombardo durante le indagini sull’operazione Mammasantissima: «Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia». E oggi il «coso» sarebbe un nuovo livello della ‘ndrangheta, invisibile e sconosciuto ai più: una componente riservata, alla quale spettano compiti di direzione strategica.
Padrini e padroni ricostruisce dal cuore dell’Ottocento il sistema di compravendita del voto e il condizionamento mafioso del sistema democratico. Quale debolezza permane nella repressione dello scambio elettorale politico-mafioso, reato disciplinato dall’articolo 416 ter recentemente modificato?
«Nell’ipotesi di utilità in cambio di voti, con la recente modifica normativa, i politici rischiano meno dei mafiosi. Sarebbe stato certamente più opportuno punire con maggiore severità i politici, che – in virtù del mandato elettorale – dovrebbero rappresentare gli interessi del cittadino».
La ‘ndrangheta non ha mai fatto distinzioni ideologiche, tra l’altro oggi sempre più sfumate, per la costruzione di comitati d’affari imprenditoriali – politici criminali. Torniamo al punto fondamentale, la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, una patologia del potere.
«La ‘ndrangheta non ha mai avuto discriminazioni ideologiche. L’unico interesse della ‘ndrangheta è e rimane il potere».
Nel libro ricordate ciò che ha significato nel 1908 il terremoto a Messina e Reggio Calabria, che provocò centomila morti. Col denaro pubblico, prima per il soccorso e poi per la ricostruzione, si creò una sorta di istituzionalizzazione del sottosviluppo meridionale. Questa calamità naturale segnò l’anno zero di una commistione tuttora irrisolta, che prospera nell’emergenza?
«C’erano state avvisaglie anche prima. Dopo l’unificazione territoriale dell’Italia, la classe dirigente del Sud ha utilizzato la violenza, garantita da organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, per reprimere ogni minaccia endemica della reazione popolare. È però dopo l’arrivo della Legge Pro Calabria del 1905 e delle successive integrazioni a seguito di altre calamità naturali, che la borghesia agraria accentua la sua natura parassitaria. Da allora è cambiato poco con una commistione tra mafie, corruzione e malaffare che prospera anche nell’emergenza, come dimostrano i terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia».
L’irruzione nel ramo delle infrastrutture consentì il salto nella categoria imprenditoriale di numerosi ‘ndranghetisti e l’incesto con gli apparati burocratici amministrativi. Oggi, che il business della cocaina garantisce il 60% del fatturato annuale della ‘ndrangheta, che cosa rappresenta il controllo degli appalti?
«Ci sono ancora oggi boss e prestanome della ‘ndrangheta che gestiscono alcuni importanti settori dell’edilizia, forniscono manodopera a basso costo, trasporto d’inerti e sversamento di detriti senza alcun rispetto dei protocolli ambientali. Ma il grande riciclaggio di denaro viene spesso realizzato all’estero con investimenti immobiliari e turistici, grazie a operazioni che passano anche da paesi off shores».
Parliamo del malavitoso Michele Campolo, che sfruttò il post terremoto per intessere rapporti con la Reggio bene. Era un analfabeta, nulla tenente, senza mestiere, criminale che presiedeva la riunione annuale della élite ‘ndranghetista al Santuario di Polsi. Dalla fine della prima guerra mondiale divenne l’arbitro della vita sociale di Reggio Calabria. Come sostenete, senza il concorso esterno la ‘ndrangheta non esiste?
«Campolo era furbo, intelligente. E a lui ricorrevano politici importanti, professionisti molto conosciuti. A lui e ad altri boss le richieste di sostegno elettorale arrivavano addirittura su carta intestata. Un analfabeta che doveva restare ai margini, è stato legittimato e riconosciuto socialmente per il suo ruolo di mediatore e di capo-elettore. Non è stato l’unico, purtroppo, nella lunga storia della ‘ndrangheta. Il dramma è che a legittimare gente come Campolo sono stati uomini importanti a cui sono state intitolate strade e piazze».
È grande il rischio giudiziario che si corre con la mimetizzazione della ‘ndrangheta, e il venir meno dell’uso della forza di intimidazione del vincolo associativo, di una negazione dell’esistenza della mafia stessa?
«Il rischio c’è. Oggi, in certe realtà, soprattutto fuori dalla Calabria, la minaccia percepita è più efficace di quella praticata. Spesso non c’è più bisogno di usare la violenza. La corruzione è diventata un’arma più sicura. Anche sul piano normativo tante cose andrebbero riviste. Ma manca la volontà politica. O forse non c’è mai stata».
Dalla Famiglia Montalbano, narrata efficacemente da Saverio Montalto, in poi chi non aveva dimestichezza con la politica era messo ai margini dell’organizzazione. Il sistema relazionale assicura la riproduzione del medesimo, antico, elementare modello organizzativo ‘ndranghetista capace di coniugare la struttura unitaria e i “locali” periferici. La vastità ramificata del vincolo associativo come ha resistito alle guerre interne?
«Le faide sfuggivano al controllo della ‘ndrangheta. Il sangue chiamava sangue. Poi con il tempo, l’organismo di coordinamento della ‘ndrangheta, il cosiddetto crimine, è riuscito ad avere sempre più voce in capitolo soprattutto nelle guerre intestine, costringendo spesso famiglie di ‘ndrangheta a porre fine alle ostilità, come è successo dopo la strage di Duisburg, da molti considerata una sorta di boomerang, visto che ha acceso i riflettori del mondo sulla ‘ndrangheta».
Dall’inizio degli anni Settanta con la generazione della Santa, riservata all’élite criminale calabrese, comincia a mutare il rapporto di forza con la politica, si garantisce la doppia affiliazione con l’ingresso degli ‘ndranghetisti nelle logge massoniche per una cogestione del potere con politici, imprenditori e professionisti. Quella urgenza della ‘ndrangheta di ribaltare la subalternità con la politica è definitivamente scemata?
«Con la Santa, la ‘ndrangheta ha sovvertito la subalternità che aveva nei confronti della politica. Con l’arrivo in Calabria dei fondi della Cassa del Mezzogiorno, la ‘ndrangheta ha cominciato a sedersi al tavolo di chi prendeva le decisioni su appalti e subappalti. Negli ultimi tempi, tanti politici sono stati visti bussare con maggiore frequenza alle porte degli ‘ndranghetisti».
Per spiegare l’evoluzione di questo rapporto e la crescente confluenza del vertice ‘ndranghetista nella massoneria più o meno deviata, partiamo dall’omicidio eccellente del magistrato Francesco Ferlaino. Perché fu ucciso il 3 luglio 1975?
«Secondo alcuni collaboratori di giustizia, Ferlaino, magistrato massone, ostacolava il nuovo progetto massonico-affaristico, che cominciava ad attecchire specialmente al Sud sotto la regia di Licio Gelli e che prevedeva l’accaparramento di ogni affare vantaggioso lecito o illecito che fosse. In sostanza, Ferlaino si opponeva alla degenerazione della struttura massonica, da organismo lecito e illecito».
Oggi stiamo arrivando alla conferma dell’esistenza di quella componente cosiddetta insospettabile della ‘ndrangheta?
«Forse c’è sempre stata. E non l’abbiamo vista. Alcuni dei cosiddetti invisibili emersi durante l’ultima indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria erano già stati condannati in passato. Una cosa però è certa: la ‘ndrangheta sta diventando sempre più selettiva e alcuni dei suoi esponenti oggi fanno parte di sistemi criminali in cui il confine tra lecito e illecito è estremamente vago».
Che cosa comporta un nuovo livello della ‘ndrangheta, è la quarta gamba del tavolo che si è sempre retto su tre?
«Mi piace la sua metafora. Purtroppo, al momento, non ci sono riscontri giudiziari o sentenze definitive. Ma la quarta gamba che forse c’è sempre stata, si comincia a intravedere con contorni meno sfumati».
«Nel 1984 quando il governo sembrava intenzionato ad avviare i lavori per il ponte sullo Stretto di Messina scoppiò una guerra tra i De Stefano e gli Imerti-Condello per il controllo dei terreni sui quali si sarebbe dovuta costruire la campata calabrese», racconta Gratteri nella vostra conversazione La malapianta (Mondadori, 2011). E ancora: «Se i lavori si faranno nell’immediato futuro saranno realizzati nel massimo della collaborazione intermafiosa». Insomma per fare il ponte bisogna accontentare tutti, quelli di qua e di là, ‘ndrangheta e Cosa nostra». Oggi cambierebbe qualcosa?
«La ‘ndrangheta è molto forte. E farebbe di tutto per entrare nell’eventuale progetto di costruzione del ponte. Ma ciò non deve impedire la realizzazione delle grandi opere. Non mi riferisco al ponte, di cui non avverto la priorità, ma in generale. Bisogna solo affinare l’azione di contrasto per impedire le infiltrazioni mafiose. Non fare le grandi opere per paura delle mafie è un atto di debolezza».
Non è mai accaduto che Cosa nostra e ‘ndrangheta si siano fatte la guerra tra di loro. Il delitto Scopelliti per inceppare il Maxiprocesso è stato uno dei momenti più importanti di collaborazione. Lo stragismo di Cosa nostra separò le strade, decretando rispettivamente ridimensionamento e ascesa delle organizzazioni, ci furono però anche qui forme di collaborazione?
«Le mafie collaborano da sempre. Hanno iniziato a farlo nei bagni penali, come quello di Favignana, durante il regime borbonico. Da allora hanno sempre cercato il modo per collaborare. Lo hanno fatto al tempo del contrabbando di sigarette, lo fanno oggi con la droga e con il riciclaggio di denaro, anche a livello internazionale. Chi non riesce a farlo, sono gli Stati e le autorità a cui è delegata l’azione di contrasto».
Nella svolta per la ‘ndrangheta, costituita dal traffico di droga, il mercato milanese, prima con l’eroina poi con la cocaina con un volume d’affari annuo complessivo che supera i 130 miliardi di euro, è stato centrale. Che cosa significa per l’Italia che Milano, definita città ammiraglia del paese, abbia una presenza ‘ndranghetista così radicata?
«Milano è la città più ricca, quella con il Pil più alto. La ‘ndrangheta qui ha messo radici da sempre. A Milano e in Lombardia, dalla prima metà degli anni Cinquanta, sono presenti i rappresentanti della famiglie più potenti della ‘ndrangheta. Oggi gestiscono denaro e potere. Molti hanno fatto finta di non vederli».
In che cosa è soprattutto deficitaria la lotta al narcotraffico?
«La lotta alle mafie e al narcotraffico non è un problema di ordine pubblico, ma anche di cultura, costumi ed economia. Le mafie vanno combattute anche culturalmente. E l’economia dovrebbe interrogarsi di più sulla globalizzazione delle mafie, chiedendosi come mai i soldi della droga entrano con una facilità impressionante nei circuiti dell’economia legale».
Quale sorte è toccata alla Commissione Gratteri, voluta dal governo Renzi, per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità?
«Condivido le idee e le battaglie di Nicola Gratteri. È un uomo coerente, onesto e coraggioso. Le sue proposte di riforma sono chiuse in qualche cassetto. La politica dovrebbe essere più coerente. Non si può chiedere a un magistrato impegnato come lui di mettere in piedi una commissione, di preparare un piano di riforme (veri e propri articolati di legge) e poi non fare nulla. Non è un problema di schieramenti. Le proposte di Gratteri sono state consegnate a tutti i parlamentari. Chiunque potrebbe rispolverarli. Ma nessuno ancora lo ha fatto».
Avete mai avvertito, vostro malgrado, i rischi della luce dei riflettori, prodotto indiretto di una lotta necessaria e un impegno prezioso?
«Non ci siamo mai presi sul serio. Non cominceremo certo a farlo adesso».
Come si restituisce oggi credibilità all’antimafia?
«L’antimafia è coerenza e impegno quotidiano. Ma anche esempio e testimonianza».
Documento ripreso dal sito http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-antonio-nicaso/
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