Dopo l’impresa di Colombo, le scoperte geografiche cambiarono il volto del nostro Continente, ma ci vollero almeno duecento anni di lenta penetrazione delle novità. Il parto della Modernità durò secoli. E' la tesi dell'ultimo lavoro di Le Goff, il suo testamento storico-letterario.
Franco Cardini
Perché Le Goff ha
ragione
Nel suo ultimo successo editoriale, Jacques Le Goff torna a presentarci una sua tesi forte che non è ancora stata recepita come dovrebbe, soprattutto da noi: quella di un «lungo Medioevo», che affonda le sue origini nella tarda Antichità e si protende tra XII-XIII e XVIII secolo, segnato da una sostanziale continuità nel mutamento. Lo strumento dialettico di cui egli si serve è il «disincanto» weberiano. Che cosa sono difatti l’«Antichità», il «Medioevo», il «Rinascimento», se non concetti convenzionali che c’illudono di controllare quel vivo flusso di eventi, di istituzioni, di strutture ch’è la storia?
Facciamo qualche esempio. Alla parola «Antichità» fu solo Montaigne, nel 1580, ad attribuire il senso che gli diamo noi: prima di lui, non si era fatto che polemizzare su ciò che fosse meglio, se quel ch’era «antico» o quel ch’era «moderno»; e si continuò anche dopo. Il «Medioevo», poi, se lo inventarono alcuni intellettuali tre-quattrocenteschi, a cominciare dal Petrarca, convinti che dopo la grande e perfetta stagione greco-romana, culminata con l’era augustea, il mondo fosse precipitato in una «età di mezzo» fatta di barbarie e di superstizione, dalla quale si era emersi solo ai loro giorni. Tre-quattro secoli dopo, alcuni illuministi ripresero e aggravarono la mistificazione umanistica: ed ecco il «buio Medioevo» di Voltaire e dell’Encyclopédie.
Ma, dopo la
rivalutazione di quello stesso periodo in età romantica, furono gli
intellettuali dell’Ottocento come Michelet e Burckhardt a
riproporci un’Europa liberata dalle tenebre, inventando il nome
stesso di un’età felice, tra Quattro e Cinquecento, nella quale
la bellezza, l’armonia e la ragione antiche sarebbero
prodigiosamente rinate: appunto la Renaissance, il «Rinascimento».
Quel concetto attecchì soprattutto in Italia, sia perché essa ne
era indicata come la culla, sia perché gli italiani, che non
avevano conosciuto alcun Grand Siècle, alcun Siglo de Oro, dopo il
Cinquecento scorgevano solo il trionfo dell’ignoranza, della
repressione inquisitoriale, del barocco crocianamente inteso come
«brutto», dell’oppressione straniera. Per questo sono soprattutto
gli italiani a doversi liberare dal pregiudizio di un Rinascimento
come breve e intensa stagione dei miracoli.
Ed ecco l’implacabile rullo compressore del disincanto legoffiano. Il Rinascimento sarebbe stato l’età della scoperta dell’individualismo, della liberazione della vita dalle pastoie dell’ipoteca religiosa, del razionalismo, dell’individuazione del bello nelle arti e nella musica, del razionalismo filosofico, dell’ampliamento del mondo con le scoperte geografiche e del perfezionamento delle risorse umane con le invenzioni? Vediamo.
Nessun dubbio sul prodigioso rinnovamento, specie artistico e intellettuale, verificatosi in Italia e soprattutto in città come Firenze (ma non solo) durante il Quattrocento. Il fatto è che esso era stato già anticipato e preceduto da una lunga serie di fasi innovative (a loro volta definibili come «Rinascimenti») in età carolingia, poi ottoniana, quindi e soprattutto fra XII e XIII secolo: la grande età del ritorno in Occidente della filosofia greca attraverso le traduzioni dall’arabo, insieme con la matematica, la medicina, l’astronomia-astrologia; della riscoperta della natura con la scuola di Chartres e l’arte gotica; dell’affermarsi di un robusto senso estetico, come ha dimostrato Umberto Eco; il momento nel quale si cominciarono anche ad affinare quegli strumenti creditizi che avrebbero preparato l’avvento dell’economia capitalistica; e in cui invenzioni come la bussola, la velatura mobile e il timone assiale, insieme con gli sviluppi cartografici, gli avvii dell’uso delle armi da fuoco e le prime esplorazioni oceaniche, aprirono la strada alla grande stagione di Colombo e di Vasco de Gama, mentre in politica dalle monarchie ancora «feudali» si sviluppavano, a cominciare dalla Francia del Due-Trecento, i precedenti dello Stato assoluto.
Quella dinamica, avviata prima del Rinascimento, si concluse solo molto più tardi. Individualismo e secolarizzazione dovettero combattere a lungo, in pieno Cinquecento, con un duro ritorno dell’autoritarismo religioso in area tanto cattolica quanto protestante: e solo fra Sei e Settecento si affermarono sperimentalismo, sensismo e perfino libertinismo.
Allo stesso modo, è
vero che le scoperte geografiche cambiarono il volto dell’Europa:
ma per questo ci vollero due secoli di lenta penetrazione delle
novità. Ne sono simboli le nuove colture come il pomodoro e la
patata, importate ai primi del Cinquecento, che solo dal secolo
successivo intervennero a mutare costumi alimentari e convinzioni
dietetiche: nello stesso periodo in cui si avviava il declino dei
generi di vita tradizionali, con i loro ritmi e costumi. E il tutto
avvenne non senza fasi di ristagno e d’inversione di tendenza. La
grande tradizione magica sapienziale, che avrebbe condotto a Bruno e
a Campanella, è frutto del Medioevo: mentre il «luminoso»
Rinascimento fu tale anche perché di continuo rischiarato dai roghi
di eretici e streghe.
Sarebbe un escamotage
troppo comodo attribuire tutto il male al Medioevo e tutto il bene al
Rinascimento, presentando come «anticipazioni della Modernità»
tutti gli aspetti del primo che ci sembrano positivi e ricacciando
nelle nuove «tenebre del Medioevo» tutti i fenomeni regressivi dei
quali la Modernità è punteggiata.
La gestazione della Modernità fu lunga e complessa: durò oltre mezzo millennio, dal XII secolo, che avviò il processo della «ragione naturale» abelardiana, fino alla prima rivoluzione industriale e quindi alle due rivoluzioni politiche del Settecento. Il «lungo Medioevo» di Le Goff è, appunto, il tempo di questa dinamica che condusse l’Europa a rendersi padrona del mondo. Tale grande stagione fu tuttavia sigillata da quella che già negli anni Trenta del secolo scorso Paul Hazard denunziava come la «crisi di coscienza» settecentesca; e di recente sembra giunta alla sua eclisse.
Il Corriere della sera/
La Lettura – 16 febbraio 2014
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