Frutto di ricerche nei
luoghi più sperduti, «L’impero del cotone», di Sven Beckert per
Einaudi, legge nel capitalismo un fenomeno da sempre globale e
fondato sulla guerra.
Francesco Benigno
Giunto nel 1835 a Manchester, Alexis de Tocqueville descrive la città
come una cloaca infetta e oscura da cui si levano miasmi
maleodoranti, una realtà labirintica umida e buia in cui trecento
mila persone si agitano senza requie. Ma, aggiunge, da questa cloaca
infetta, si origina il più grande fiume dell’industria umana, che
parte da qui per fecondare il mondo: perché «da questa fogna
immonda sgorga oro puro».
L’industria abbrutente
ma al contempo mirabolante di cui parla Tocqueville è quella del
cotone, cuore dell’Inghilterra ottocentesca e grande volano del
mondo moderno. Ora la sua storia viene raccontata in modo
accattivante da Sven Beckert, storico di Harvard, in L’impero del
cotone Una storia globale (Einaudi, pp.606, euro 34,00).
Frutto di molti anni di
ricerche nei più sperduti angoli del pianeta, il corposo volume di
Beckert è assai ambizioso. Nel delineare la prima storia globale di
una merce tanto umile quanto decisiva, lo studioso statunitense si
propone di indagare i meccanismi profondi del capitalismo nella sua
classica fase d’espansione industriale.
Manchester
Se l’Inghilterra è
divenuta la «terra dei lunghi comignoli» e dunque la culla di
quello straordinario rivolgimento conosciuto come rivoluzione
industriale, lo si deve infatti proprio al settore della filatura e
della tessitura del cotone, in cui si realizzarono quel grappolo di
invenzioni tecnologiche che, moltiplicando a dismisura la
produttività, consentirono all’industria tessile inglese di
conquistare il primato mondiale.
Ne deriva il fatto che
oggi è difficile immaginare un mondo senza cotone, un prodotto ormai
tanto diffuso da risultare naturalizzato e perciò quasi invisibile.
Nascosto ma onnipresente, ci ricorda Beckert, regola la nostra vita:
lo indossiamo sulla pelle, ci dormiamo, ci avvolgiamo i neonati; esso
è presente nelle banconote che maneggiamo, nel filtro del caffè,
nell’olio vegetale con cui cuciniamo, nel sapone con cui ci laviamo
e perfino nella polvere da sparo con cui combattiamo. Malgrado ciò
l’Europa, che diverrà nell’Ottocento l’epicentro della
produzione mondiale del cotone, per secoli ne aveva fatto a meno.
La scoperta che dalla
capsula della pianta del cotone era possibile estrarre una fibra
bianca lanuginosa molto adatta a venire tessuta, era infatti avvenuta
in altre parti del mondo: in India, in Africa, in America Latina. Nel
continente europeo il cotone arrivò solo intorno al IX secolo d. C.
grazie agli arabi, che ne diffusero la coltivazione in Andalusia e in
Sicilia. Presto la sua produzione si innestò nei centri dotati di
tradizione tessile, le Fiandre, la Germania e l’Italia
centro-settentrionale: Venezia nel XIII secolo era una specie di
Liverpool e a Milano a metà del Quattrocento c’erano ben 6000
lavoranti di tessuti in cotone.
Se le città italiane e
tedesche del tardo Medioevo, malgrado raffinati sistemi
proto-industriali, non riuscirono a incrementare la propria
produzione di cotonine ciò dipese, osserva Beckert, dal mancato
controllo delle fonti di rifornimento di materia prima. Questa presa
sulla produzione mondiale del cotone grezzo riuscì invece agli
inglesi, nel Settecento.
La tesi portante del
libro è dunque che il capitalismo non si è globalizzato ma è stato
globale sin dall’inizio. E che perciò esso va studiato non solo
nel suo centro finanziario o produttivo ma nella sua diffusione,
negli anfratti meno visibili ma altrettanto cruciali in cui si
estende e, soprattutto, nelle connessioni che legano le varie
componenti della filiera produttiva: prodotto grezzo, filato,
tessuto.
Ne discende che il
capitalismo industriale non nasce solo grazie a una serie di
straordinarie invenzioni (dalla spoletta volante, alla giannetta, al
filatoio meccanico) e neppure in ragione di una presunta
accumulazione originaria dovuta a certi rapporti di produzione, ma
dallo strutturarsi di un complesso economico-politico, e
finanziario-militare che ha nello stato moderno il suo perno. In
altre parole, alla domanda cruciale su quale sia la chiave di volta
che sostiene il «miracolo» dell’industrializzazione inglese la
risposta è che essa poggia su un apparato statale culturalmente
orientato allo sviluppo e capace di dominare e proteggere le fonti di
approvvigionamento, l’esercito della manodopera, i mercati di
sbocco del prodotto finito.
Questo sistema, a cui va
ricondotta anche la superiorità europea che dà origine alla
cosiddetta «grande divergenza» nello sviluppo economico (rispetto
all’Asia) è chiamato da Beckert, «capitalismo di guerra»,
espressione suggestiva ma non esente da possibili obiezioni. La prima
è che essa indurrebbe a pensare che le guerre dei secoli XVI-XVIII
siano un sottoprodotto dell’espansione economica, mentre si sa che
le ragioni dei conflitti bellici sono state storicamente complesse e
si radicano anche nell’ideologia, nella religione, nelle politiche
dinastiche.
La seconda è che
definire «di guerra» il capitalismo che precede
l’industrializzazione, potrebbe indurre a credere che quello
successivo, il capitalismo industriale, rifugga la guerra, il che
com’è evidente, è lontano dalla realtà.
Ciò detto, l’apporto
più suggestivo del libro consiste nel connettere direttamente il
successo straordinario dell’industria tessile con l’offerta di
materia prima assicurata dalle piantagioni di cotone basate sua
lavoro schiavistico, soprattutto quelle del sud degli Stati Uniti.
Fondate sul modello risaliente delle piantagioni di canna da zucchero
e di tabacco, le piantagioni al servizio dell’industria più
avanzata costituiscono un esempio di come l’antico e il moderno, la
brutalità e l’innovazione, la politica e l’economia si
mescolino. Lo schiavismo delle piantagioni di cotone non è in
sostanza un residuo antico e anacronistico che attende solo il
diffondersi delle idee illuministiche per essere sbaraccato, ma un
«nuovo» schiavismo, effetto della incredibile crescita del bisogno
di materia prima. Non per caso la metà degli schiavi portati in
America dal 1492 al 1888 vi giunge dopo il 1780.
Sottolineare come il
capitalismo sia caratterizzato da una continua capacità di «rifare
il mondo» e di adattarsi plasticamente al mutamento è senza dubbio
un punto di forza del libro. E tuttavia, a ogni snodo cruciale, i
fattori che producono quel necessario squilibrio capace di innestare
il cambiamento non risiedono, in ultima analisi, nelle dinamiche
esclusivamente economiche descritte da Beckert. vero che quel
grappolo di invenzioni che costituisce il nocciolo duro della
rivoluzione industriale non avrebbe avuto possibilità di espansione
senza il complesso militare-commerciale britannico, ma è anche vero
che l’innovazione non è l’effetto di tendenze economiche
pregresse ma un vero e proprio salto in avanti qualitativo.
E ancora: è senz’altro
vero che l’avvento di una manodopera salariata e capace di
contrattare le proprie condizioni di lavoro metterà alla lunga fuori
gioco l’industria del cotone europea, attorno alla metà del XX
secolo, ma questo non va considerato un’evoluzione scontata, come
sembra pensare Beckert, bensì il prodotto di profonde trasformazioni
culturali e identitarie, che rimangono estranee alle sue tesi.
La morale del libro è
che la globalizzazione capitalistica non è tipica del nostro tempo,
in quanto il capitalismo è stato sempre globale. Ciò che è tipico
del nostro tempo è invece, osserva Beckert, il fatto che si è rotta
quella storica alleanza tra lo stato-nazione e le industrie
nazionali. Le odierne multinazionali, pur mantenendo un paese di
riferimento, non ne sono più, come una volta, la longa manus. Esse
invece sviluppano strategie relativamente autonome, che possono anche
non coincidere con quelle del paese che le ha originate. Sta qui, in
questa rottura tra stati nazionali e imprese globali, e il
conseguente processo di tendenziale autonomizzazione di queste
ultime, l’elemento davvero originale del nostro tempo.
Il manifesto/Alias – 9
ottobre 2016
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