Quando la mafia
campestre della Sicilia semifeudale incontrò la modernità fordista americana
nacque "Cosa nostra", ovvero l'industria del crimine. Il mito americano
del Padrino non racconta tanto l'Italia (o la Sicilia) quanto
l'America e la modernità. Questo spiega perchè i mafiosi di oggi si rifacciano a
quel mito creato dal cinema e dalla letteratura per modellare i loro
comportamenti.
Questo pezzo dello storico Lupo è da ritagliare, conservare e ricordare fur ewig! fv
Salvatore Lupo
Quella mafia
raccontata dal "Padrino" che tra folklore e familismo
amorale inventò il pericoloso mito di Cosa Nostra
Il romanzo di Mario Puzo
e il film di Francis Ford Coppola per primi diedero risalto ai codici
culturali che stanno dietro la criminalità di origine italiana negli
Stati Uniti. Fondando così una tradizione narrativa
Possiamo dire che fu il
primo pentito; anche se gli americani preferiscono dire semplicemente
turncoat, voltagabbana. Nel settembre 1963, Joe Valachi testimoniò
davanti alla Commissione d'inchiesta del Senato degli Stati Uniti sul
crimine organizzato. Rivelò l'esistenza in America di una grande
organizzazione criminale italiana. Lui lo sapeva perché ne aveva
fatto parte. Gli fu chiesto: si chiama mafia? No, rispose, il suo
nome è Cosa nostra. Era proprio quella cosa lì: quella di cui gli
italo-americani avevano sempre negato l'esistenza, definendola una
diceria, una leggenda, una calunnia inventata dagli americani, e
ultimamente dall'Fbi, per colpevolizzare ed emarginare gli italiani.
Mario Puzo decise di
scrivere Il padrino nel 1966, e il romanzo venne pubblicato nel 1969.
Il primo dei film diretti da Francis Ford Coppola uscì nel 1972. Non
era il primo film su gangster italiani, era forse il primo che
partisse da quella cosa lì per spiegare l'etnicità, la cultura,
l'identità italiana negli Stati Uniti. Le associazioni
rappresentative della comunità italo-americana protestarono,
picchettarono i cinema, definirono Puzo e Coppola come traditori.
Alcuni anni più tardi, l'Order Sons of Italy avrebbe accusato
Scorsese, De Niro e il cast dei Sopranos come complici di un presunto
"Olocausto" italiano. Noi potremmo dire, viceversa, che gli
italiani d'America non avevano più bisogno di guadagnarsi la
benevolenza degli altri americani presentandosi come rispettabili.
Non dovevano più nascondersi nella folla della società
inter-etnica. Sentirono, al pari di neri, ebrei, ispanici, che era
giunto il momento di rivendicare una propria identità. Fosse anche
quella negativa e criminale, da cui poteva comunque desumersi una
storia di sofferenze collettive, che poteva essere trasformata in
epica.
La parte più etnica del
film è la prima, quella che rappresenta le nozze della figlia di don
Vito Corleone. Mentre il rito va avanti nel giardino della grande
villa, nel suo studio il padrino riceve i suoi figliocci e altri
amici. Uno dei questuanti è Amerigo Bonasera. Non a caso si chiama
Amerigo: vuol essere americano, rispettare la legge, dimenticare le
barbare usanze del suo Paese d'origine. Però sua figlia è stata
ferocemente pestata, quasi stuprata; e i due giovanotti di buona
famiglia che l'hanno fatto sono stati rimessi in libertà. Bonasera
vuole che il padrino faccia per lui vendetta, ma dice "giustizia".
In cambio gli viene chiesto "rispetto", e lui deve
concederlo. I due non saranno uccisi. Saranno anch'essi pestati. La
pena è proporzionale al delitto, come si conviene a un sistema
giudiziario ben funzionante. Il padrino sottolinea che in cambio non
vuole denaro, ma rispetto. Nel film la sua figura è come investita
da una luce, mentre emette la sentenza.
Nel frattempo Michael, il
figlio istruito e americanizzato del padrino, spiega alla sua ragazza
— americana e della classe media — qualche codice culturale
esotico: la tradizione, dice, vuole che un siciliano non possa
rifiutare un favore chiestogli nel giorno delle nozze della figlia.
Io veramente non ho mai sentito, né letto nei repertori del folklore
siciliano, di qualcosa del genere. Siamo all'ennesima variante sul
tema "invenzione della tradizione". Puzo e Coppola per
fortuna ci risparmiamo i richiami ai Vespri siciliani, ai Beati
Paoli, alle leggende storiche evocando le quali i mafiosi stessi sono
usi nobilitarsi, che molto vengono prese per buone dai giornalisti
italiani e ancor più da quelli americani: tra gli altri, da Gay
Talese nel fortunatissimo Honor Thy Father (1971), scritto con Bill
Bonanno, figlio del boss Joe Bonanno.
Puzo e Coppola comunque
fanno propria la retorica mafiosa senza pudore. La vergine italiana
non ha avuto protezione dalla legge "fredda", formale,
americana; il padre per avere giustizia dovrà ricorrere a quella
"calda" del padrino, derivante non da un codice astratto ma
da un rapporto personale (clientelare, diremmo noi). Peraltro nel
romanzo il termine mafia è usato solo occasionalmente e in senso
negativo. Solo una volta don Vito dice "Cosa nostra"
rivolgendosi agli altri boss. E solo in quest'occasione si riferisce
alla società come a un tutto. Altrove usa appunto termini più
"caldi": famiglia, amicizia, onore.
Il Padrino gioca intorno
al tema dell'identità etnica, si diverte a ribaltare uno schema di
colpevolizzazione collettiva, prova a volgerlo in positivo sostenendo
che gli italiani possono immettere in una società originariamente
"fredda", nordica, anglosassone, il calore di istinti e
passioni, di familismo e robusta barbarie, imbarbarendo ma anche
arricchendo l'America. Il retaggio della Sicilia/Italia, del vecchio
mondo, diviene la chiave esplicativa dell'elemento arcaico che è in
tutti gli esseri umani, un qualcosa — peccato o virtù — che ha a
che fare con l'eterno immaginario mediterraneo fatto di istinti e
vitalità, che con la modernità e l'americanizzazione si va perdendo
e si potrebbe rimpiangere.
È ovvio: la
rappresentazione artistica nobilita un fenomeno di per sé turpe e
deteriore. Questo rappresenta un problema per chi legge il libro e
vede i film, per noi italiani di inizio XXI secolo che la esperienza
storica ha reso consapevoli dell'estrema pericolosità del fenomeno
mafioso. Tra l'altro, i mafiosi stessi usano questi concetti per
presentarsi all'esterno, per ottenere consenso e creare complicità.
Come mostrano certe conversazioni intercettate dalle autorità, si
richiamano al senso dell'onore, alla famiglia, all'amicizia, a regole
giuste intese a evitare la violenza e a mantenere la pace, anche
nella pratica della loro professione, rivolgendosi sia ai loro sodali
sia ai potenziali utenti dei loro servizi: i quali vanno convinti che
la mafia è un eccellente sistema per risolvere le controversie,
trovare lavoro, mandare avanti gli affari. È l'arte a ispirarsi ai
discorsi su cui basano il loro potere? O sono loro a trarne
ispirazione? Impossibile dare una risposta univoca. Godiamoci dunque
la rappresentazione. Non dimentichiamo però i materiali ben più
vili di cui la mafia vera è composta.
La repubblica – 4
novembre 2016
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