Massimo Recalcati nel
suo nuovo saggio racconta come i grandi pittori ci indicano una via
laica al sacro.
Gregorio Botta
Per avvicinarci
all’Essere ci resta solo l’arte
Quando la
psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici:
la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di
rintracciare ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo
è forte. Massimo Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle
cose”(Feltrinelli) dichiara subito che non correrà questo rischio:
«In questo libro l’uso della psicanalisi per leggere l’opera ha
rifiutato metodicamente ogni sua applicazione patografica». L’arte
non è un paziente, e non va messa sul lettino. Bene. Allora perché
parlarne inforcando gli occhiali di Lacan?
Perché si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è «irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile.
Ungaretti cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare l’arte secondo Recalcati. Per il suo libro ha scelto nove artisti (Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e Giovanni Frangi), alcuni del secolo scorso altri nostri contemporanei, tutti italiani di nascita o di adozione.
Sono autori molto diversi
tra loro (e non solo per fama e mercato). È difficile immaginare —
per esempio — due artisti più lontani di Vedova e Parmiggiani: il
primo un espressionista radicale ed estremo, l’altro un silenzioso
poeta dell’assenza. Eppure, leggendo i densi saggi che Recalcati
dedica a ognuno di loro si scopre il sottile filo rosso che lega
l’uno all’altro: tutti sacerdoti solitari di un movimento che
insegue il sogno di rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul
Klee, di toccare il mistero delle cose, (la definizione che dà il
titolo al libro è di Kounellis).
Morandi, Natura morta
Prendiamo Morandi:
nessuno certo si sogna di leggere la sua opera solo come quella di un
semplice artista figurativo, ostinato oppositore delle correnti
astrattiste del suo tempo. Le sue nature morte racchiudono una
visione profonda. Compito del pittore — scriveva lui stesso — «è
far cadere quei diaframmi, quelle immagini convenzionali che si
frappongono tra lui e le cose».
Dunque non si tratta solo
di dipingere vasi e barattoli con i magnifici colori tonali della sua
tavolozza. Si tratta di molto di più: di rompere gli schemi visivi e
mentali con cui siamo abituati a classificarli, registrarli e
anestetizzarli nella nostra coscienza. Si tratta di rivelare la
stupefacente intensità della loro presenza. È un lavoro lento,
paziente, ripetitivo — quasi una preghiera laica quotidiana — il
cui scopo è cogliere l’eternità degli oggetti immersi nel tempo.
La bottiglia, dunque, è molto di più di una bottiglia, è «l’icona
di un assoluto altrimenti irraggiungibile, evoca la presenza della
Cosa, del reale in quanto impossibile da rappresentare».
Morandi insegue questo obiettivo puntando a una progressiva smaterializzazione dei suoi oggetti: li sfinisce e li consuma a forza di osservarli e dipingerli. Negli ultimi acquerelli gli oggetti sono talmente rarefatti da diventare puri segni, ciò che resta di loro levita in uno spazio luminoso, anzi diventano quello stesso spazio luminoso. È la trasfigurazione finale: «È questo, se si vuole, il cristianesimo di fondo della sua opera. Dio ha il volto dell’uomo».
Burri, Rosso plastico
Percorsi paralleli
compiono gli altri otto artisti: dalle ferite di Burri che aprono una
squarcio sull’inconscio dell’opera all’energia di Vedova che
invece produce inconscio; dall’americano Congdon folgorato in
Italia dal crocifisso a Celiberti ossessionato dai muri dopo un
viaggio negli orrori del campo nazista di Terezìn; dalle visioni di
Papetti che emergono dalla fanghiglia al viaggio al termine della
notte e del nero di Giovanni Frangi; dalle ombre di fumo che
dipingono il tempo di Parmiggiani a Kounellis, che evoca il sacro
mettendo in scena semplici e comuni oggetti.
Ecco, il sacro: tabù dell’Occidente, grande rimosso del nostro tempo. Forse è questo il tema vero del libro di Recalcati. «L’arte comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione». Sacro, quindi, come mistero irriducibile dell’essere, non come territorio di questa o quella religione: anzi se c’è una cosa da cui gli artisti devono fuggire è la scorciatoia del contenuto, la tentazione di mettere in scena narrazioni descrittive. L’opera non racconta, è. Incarna quella che Lacan chiamava estimità: una definizione che nasce da un ossimoro apparente, la congiunzione di un sentimento di intimità e di estraneità. «La sua estimità sta nell’essere una parte del mondo e insieme un’apparizione che esorbita la scena consolidata del mondo».
Celiberti, Sul volo di una farfalla
La bellezza, diceva
Rilke, non è che il tremendo al suo inizio. Certo sono parole
inattuali. Il mainstream è un altro: tra gli smalti brillanti del
post-pop e i manifesti di un’estetica dedicata all’impegno
politico, tra le ultime e stanche provocazioni e i bombardamenti
sensoriali di mezzi digitali sempre più potenti, le vie imboccate
dall’arte dei nostri giorni sono diversissime.
Ma non bisogna lasciarsi
spaventare dalle mode contemporanee: Agamben ci ha ricordato che è
davvero contemporaneo solo chi non coincide perfettamente col suo
tempo, e proprio per questo è capace di percepirlo. In fondo l’arte
è nata dal rapporto con il sacro. E proprio quando ci ricorda che è
ancora questo, oggi, il suo compito, Recalcati non coincide con il
suo tempo. Ciò che rende tanto più necessario il suo libro.
La Repubblica – 19
novembre 2016
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