Sulla genesi del
linguaggio umano Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo. Un
libro, appena tradotto in italiano, riapre il dibattito fra
evoluzionisti e linguisti (di scuola chomskiana).
Telmo Pievani
Evoluzione. Resta un
giallo la comparsa del linguaggio
Un abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio. In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali, uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni, indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente impariamo da piccoli.
Questa grammatica
generativa trova il suo fulcro nella struttura gerarchica della
sintassi, che ricorsivamente ci permette di esprimere combinazioni
potenzialmente infinite di frasi. Va da sé che, una volta
definita la facoltà del linguaggio in questi termini minimalisti e
computazionali, come una macchina interna perfetta, una capacità del
genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna speranza di avvicinamento a
questo modello sintattico gerarchico per gli uccelli canori, i
cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti neanderthaliani.
Tutto il resto, cioè
l’esternalizzazione del linguaggio, è secondario. La relazione col
mondo esterno, attraverso vocalizzazioni o segni, è condivisa con
altri animali in vario grado, ma non è decisiva, perché il
linguaggio non si è evoluto per la comunicazione, secondo Berwick e
Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli lingue di cui abbiamo traccia
scritta negli ultimi 5.000 anni è come una stampante che trascrive
in modo ogni volta diverso il lavoro dello stesso computer: ciò che
conta è il processore interno, che è universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. Non rifiuta più in blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale), cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento biologico con grandi effetti mentali.
Così nacque secondo i
due autori la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita
del linguaggio umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa
e a dominare il mondo, estinguendo le altre forme umane come
Neanderthal e Denisova, che non avrebbero avuto questa
riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non fu quello di comunicare
meglio, ma di pensare meglio, attraverso un collante cognitivo
interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi percettivi e
cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il pensiero,
permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione mentale
di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le
lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui».
Il problema maggiore di
questa impostazione sta nel presupporre ancora che la teoria
evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo
funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni
di modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è
solo il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come
Richard Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come
esponenti della «biologia mainstream ». L’evoluzione è un gioco
complesso di relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun
cenno al contesto reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe
avvenuta. Il giallo, dunque, continua.
Il Corriere della sera/La
Lettura – 16 ottobre 2016
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