Riprendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=24970 una parte del secondo paragrafo dell’Introduzione al libro di Anna De Biasio Le Implacabili. Violenze al femminile nella Letteratura Americana tra Otto e Novecento, appena pubblicato dalla casa editrice Donzelli, che ringraziamo. Il lavoro di De Biasio è dedicato a un tema a lungo violentemente coperto da silenzi e tabù, e si compone di cinque capitoli rispettivamente intitolati: I. Quando l’eroe è donna. Guerra e violenza in Margaret Fuller; II. Nathaniel Hawthorne e i delitti femminili; III. «A Woman’s Anger»: Louisa May Alcott tra guerra civile, romanzi e sensation fiction; IV. Ritratto di assassina. Potere, desiderio e violenza femminile in Henry James; V. Nella zona proibita. Willa Cather, Edith Wharton, Mary Borden e la scrittura femminile della Grande guerra (dbr)
Il tabù della violenza femminile
di Anna De Biasio
Definire che cosa si intende per
violenza è al solito molto problematico. Si tratta di un termine
astratto e sfuggente sotto il quale si raccolgono non solo significati
ma anche fenomeni diversi, osservabili da una molteplicità di punti di
vista, dalle neuroscienze alla storia, dalla filosofia politica alla
sociologia, dall’antropologia alla psicologia. Gli studi di carattere
etologico ne indagano le componenti istintuali e biologiche (dalla
genetica al ruolo dell’assetto ormonale e neurologico), ma al tempo
stesso rivelano tutti i limiti di una prospettiva centrata sulla
biologia. Nel momento in cui si manifesta nella storia e nella vita
sociale, la violenza non coincide con il sostrato “naturale” del
comportamento umano, ma appare piuttosto il prodotto di un certo tipo di
cultura, che di volta in volta contribuisce alle sue differenti
specificazioni[1].
Dipende da fattori come l’educazione e la socializzazione, ha a che
fare con il desiderio – nella sua dimensione conscia e inconscia – e si
pone al contempo in rapporto con il potere e con la razionalità.
Riprendendo la riflessione di Georges Sorel, Hannah Arendt la definisce
un problema ancora “molto oscuro”, distinguendola per il suo carattere
attivo e strumentale da una serie di fenomeni correlati ma diversi come
il “potere”, la “potenza”, la “forza” e l’“autorità”[2].
A ben guardare, tutti questi fenomeni
sono accumunati da un elemento determinante, ovvero sono idealmente
basati sull’esclusione del femminile. In quanto alleata dell’ordine (la
cosiddetta violenza legittima del governo o dello stato, come la
guerra), in quanto sua violazione (come nel caso del crimine), ma
soprattutto nel suo significato basilare di lesione dell’identità
dell’altro (attraverso un abuso che ne comporta la sofferenza o la
morte), la violenza ha tradizionalmente funzionato come un discrimine
naturalizzato del genere. In un’ottica di lungo periodo, in Occidente vi
avrebbero senza dubbio contribuito secoli di “cultura della violenza”
fondata sulla necessità di difendere l’onore maschile – secondo un
legame causale tra il timore di perdere il rispetto di sé e la reazione
violenta – sia nei confronti dei rivali, sia in opposizione alla
debolezza femminile[3].
Secondo l’antropologa Françoise Héritier, questa rappresentazione
binaria del maschile e del femminile farebbe addirittura parte di un
sistema di invarianti del pensiero. Le grandi eroine della tradizione, o
le donne che accorrono a difendere la Città, sono le eccezioni a una
conformità costantemente rafforzata dal comportamento sociale degli
individui, dalle norme istituzionali e dal sentire collettivo[4].
Dà ragione a Héritier la squadra di antropologi, biologi, storici,
psicologi e zoologi riunita sotto lo pseudonimo di John Klama. A fronte
di studi di laboratorio che rivelano effettivamente delle differenze di
genere nell’aggressività umana, le ricerche che misurano obiettivamente
il comportamento aggressivo riscontrano differenze inferiori rispetto
alle ricerche che analizzano le valutazioni soggettive di tale
comportamento; la conclusione è provocatoria: “Uomini e donne tendono a
esagerare tali differenze sessuali, ammesso che ci siano, forse perché
sono convinti che queste differenze debbano esistere”[5].
La storica fragilità di una collocazione
sociale e culturale della violenza agita dalle donne si riflette nelle
omissioni di alcune canoniche prospettive offerte dalla psicoanalisi e
dall’antropologia. Per Freud, la differenza essenziale nello sviluppo
psico-sessuale dei generi risiede nell’atto dell’uccisione paterna
compiuto soltanto dal maschio (lo puntualizza la psicoanalista di
origine russa Lou Andreas Salomé in un breve ma denso saggio che
riflette sulle conseguenze di un’esclusività forse non irreversibile[6]). Nella versione antropologica di questo modello della soggettività, in Totem e tabù (1913),
la religione e la civiltà stessa si fondano sull’assassinio e sul
divoramento di un padre originario, invidiato e temuto, da parte dei
figli archetipici. Rifacendosi in parte a Freud, anche René Girard
elabora un importante modello etno-antropologico della conflittualità
aggressiva basato su un desiderio imitativo tipicamente declinato al
maschile, spesso in una dinamica tra fratelli surrogati[7].
Partendo da basi junghiane, Erich Neumann fa invece apparentemente luce
sul tema dell’aggressività femminile, sdoppiando l’identità della donna
in due archetipi contrapposti dell’inconscio tanto individuale quanto
collettivo. All’archetipo della Madre generatrice, che nutre, protegge e
riscalda, si oppone quello della Madre terribile, che perseguita e
divora i suoi figli, personificato da innumerevoli figure tratte dalla
mitologia, dalla religione e dall’etnografia di epoche e luoghi diversi
(tra cui Kali, Medea, la Gorgone, Circe). Soprattutto in questo secondo
caso, tuttavia, si tratta di immagini e simboli tutti interiori, che non
traggono origine – sottolinea Neumann – dal rapporto visibile tra la
madre e il bambino sotteso al carattere elementare positivo: “non si può
far derivare da attributi evidenti e fattuali del Femminile l’angoscia,
l’orrore e il timore del pericolo che l’archetipo del Femminile
significa”[8].
Apparentemente antitetici, i due poli
sono così accomunati non solo dalla sussunzione dell’identità femminile
in quella materna, ma anche dalla negazione della femminilità
distruttiva come realtà oggettuale; una rimozione che riflette lo scarso
riconoscimento tradizionalmente dato all’estroflessione
dell’aggressività delle donne a livello sociale, sul piano penale, nella
forme della ritualità pubblica. Ciò è dipeso da un concorso di fattori
cui si può solo accennare: la loro emarginazione dalla sfera politica e
l’assenza di uno status come soggetti civili e giuridici, come pure la
penuria di documentazione e soprattutto di ricerche specifiche, che solo
in tempi recenti hanno cominciato a diffondersi. Un esempio
paradigmatico riguarda la partecipazione alle rivolte popolari in età
moderna, una delle attività sovversive femminili meglio attestate eppure
raramente oggetto di interpretazione (forse anche per la rapida
restaurazione del consenso che pressoché invariabilmente ne è seguita).
Ha affermato Arlette Farge:
Fare scorrere il
sangue [lo sguardo maschile degli osservatori descrive le rivoltose come
particolarmente brutali] è una trasgressione suprema per coloro cui si
proibisce di portare le armi e di dare la morte. Escluse dalle decisioni
giudiziarie, civili e politiche, le donne mantengono con la rivolta e
il sangue versato un legame momentaneo dove il potere di decidere
appartiene a loro.… Versato dalla sua mano, il sangue diventa legittimo,
mentre il suo [quello mestruale] non lo è affatto. Quello sparso dal
nemico genera una purezza che il suo non conosce affatto e che le si
nega[9].
Ma anche negli studi femministi
affrontare il discorso della donna come attrice di violenza è risultato
molto problematico. Uno dei maggiori ostacoli risiede nell’investimento
storicamente fatto dal femminismo (o dai femminismi) sulle attitudini
pacifiche come risorse essenzialmente femminili da valorizzare ai fini
del progresso sociale. Nell’area anglofona, suggerimenti in questa
direzione sono venuti negli ultimi trent’anni da Carol Gilligan, Nel
Noddings, Annette Baier e altre, con la loro enfasi sull’etica della
cura e dell’empatia come emanazione dell’esclusiva capacità femminile di
dare e mantenere il legame con la vita[10].
In Italia, è il cosiddetto “pensiero della differenza sessuale” quello
che più ha insistito sull’esistenza di un sé femminile impossibilitato a
concepirsi se non in senso relazionale, in un rapporto di dipendenza e
reciprocità con un altro che origina nel proprio corpo biologicamente
generativo. Figura di spicco di questo movimento filosofico, in uno
studio su violenza bellica e terrorismo contemporanei, Adriana Cavarero
ha registrato con sgomento l’aumentata presenza di donne attive in
questi ambiti, evocando da un lato l’imitazione di modelli patriarcali
deteriori, dall’altro la “catastrofe simbolica” per chi si era appellato
alle attitudini relazionali dei soggetti femminili. Sullo sfondo si
staglia nuovamente l’ipotesi mitica: figure dell’orrore come Medusa e
Medea (anch’esse considerate in larga parte frutto della misoginia
patriarcale), di cui le moderne carnefici sarebbero perturbanti
reincarnazioni[11].
Vi è dunque, da una parte, il potente fantasma del materno, o, per dirla con Melanie Klein, della “madre buona”[12];
l’altro cardine della riluttanza nei confronti del tema è rappresentato
dalla priorità dell’agenda femminista classica, cioè l’attacco
all’ordine maschile universale di cui l’oppressione reale e simbolica
esercitata sulle donne è considerata la leva principale. Teresa de
Lauretis ha posto il problema in chiave semiotica. Nella sua rilettura
femminista del rapporto tra linguaggio e violenza in Foucault e Derrida,
la “retorica della violenza” – una rappresentazione discorsiva radicata
nella realtà sociale, che nomina soggetti e oggetti come violenti – è
speculare alla “violenza della retorica”: vale a dire un linguaggio che
di per se stesso produce violenza, non solo nelle forme dell’insulto e
della minaccia ma come meccanismo di soppressione della differenza. In
entrambe queste rappresentazioni è imbricata la produzione semiotica del
genere, che non può prescindere dal reale squilibrio di potere tra
uomini e donne; per de Lauretis ne consegue che il “soggetto della
violenza è sempre, per definizione, maschile”, non importa se l’oggetto
sia maschile o femminile[13].
Una prospettiva influente, che nella sua radicalità suscita tuttavia
più di un interrogativo (ad esempio, che configurazione di genere
attribuire ai soggetti femminili aggressivi e sadici, tanto nella realtà
sociale quanto nelle rappresentazioni?).
Ancora nell’Introduzione al primo importante studio organico apparso in Francia, De la violence et des femmes (1997),
Cécile Dauphine e Arlette Farge danno voce al disagio di trattare una
questione tabù, percepita quasi come una sorta di tradimento. A dispetto
della sua cogenza, comporta il rischio di sviare l’attenzione dalle ben
più manifeste e consolidate forme di abuso che le donne hanno sempre
subito, spesso con accresciuta virulenza proprio in risposta alla loro
deviazione dalle aspettative di genere. La possibile soluzione –
individuata anche da altre studiose – è quella di non disgiungere la
trattazione di un tema dell’altro: interrogare il “modo differenziato in
cui nel corso della storia e oggi le società vivono, pensano e
immaginano la violenza femminile, quando simultaneamente esse esercitano
della violenza sulle donne”, sforzandosi al contempo di uscire dalla
dicotomia di dominanti vs. dominate[14].
A partire dalla metà degli anni Novanta,
soprattutto in campo anglofono, hanno cominciato a levarsi da varie
discipline voci critiche verso le attese di virtù morale che le società
nel loro complesso, insieme ad ampi comparti del pensiero femminista,
hanno riposto nelle donne, vincolandole al ruolo di agenti pacificatori
dei costumi. Voci dunque disposte ad accostare il problema di femminile e
violenza senza il timore di nuocere alla causa, ma piuttosto con
l’interesse a esporne le contraddizioni. Si è trattato in molti casi di
ripercorrere silenzi e distorsioni della memoria storica, della vita
sociale, del mondo delle rappresentazioni. Con l’ausilio di strumenti
antropologici e archeologici, in Riti di sangue Barbara
Ehrenreich ha messo in luce alcuni momenti della lunga preistoria
dell’umanità in cui la disposizione all’aggressione e allo spargimento
di sangue non era prerogativa soltanto maschile; prima cioè che la
degradazione sociale ed economica della donna la relegasse ad attività
più sicure, che alla lunga ne hanno cristallizzato l’associazione con la
nonviolenza (secondo una millenaria esaltazione della sua dolcezza che
avrebbe contagiato le stesse studiose dell’antichità femministe,
desiderose ad esempio, secondo Eherenreich, di ammorbidire i tratti più
carnivori e sanguinari della Grande Madre[15]).
Implicitamente, Ehernreich ha così fornito un commento documentato a
un’intuizione tanto pregnante quanto controversa già contenuta nel Secondo sesso,
che Simone de Beauvoir, nella sua ricognizione in chiave
esistenzialista della dialettica tra maschile e femminile, non sviluppa
ulteriormente ma considera la “chiave di tutto il mistero”:
La peggior
maledizione che pesa sulla donna è di essere esclusa da queste
spedizioni guerriere; l’uomo s’innalza al di sopra dell’animale, non
suscitando ma rischiando la vita; perciò nell’umanità la preminenza è
accordata non al sesso che genera ma a quello che uccide. … La disgrazia
[della donna] è di essere biologicamente votata a ripetere la vita,
mentre, anche per lei, la vita non porta in sé le sue ragioni
sostanziali di essere, e tali ragioni sono più importanti della vita
stessa[16].
Senza avvicinarsi alle affermazioni
radicali di de Beauvoir – accusata peraltro di rimanere intrappolata nel
mito maschilista della guerra creatrice di valore[17]
– una serie di studi di carattere perlopiù sociologico si è concentrata
sulla presunta non aggressività femminile come specchio delle
disuguaglianze di genere. Dana Crowley Jack ha sottolineato le pressioni
repressive esercitate attraverso l’educazione e le politiche di
socializzazione verso le spinte apertamente aggressive delle ragazze,
che tenderebbero a sviluppare forme di aggressione più sottili,
indirette, ma non meno socialmente pericolose. Per Jack, come per
Patricia Pearson e altre, l’empatia delle donne celebrata dalle stesse
femministe è stata plasmata dalle necessità della divisione del lavoro e
dalla minaccia della violenza esercitata contro di loro; il risultato è
la diffusione di maschere sociali e ruoli normativi che ostacolano
l’affermazione della propria azione nel mondo[18].
Anche nel campo storiografico – in particolare nella storia dei
conflitti otto-novecenteschi – si è fatta strada l’esigenza di
controbilanciare la preponderante attenzione all’apporto delle donne al
movimento pacifista, o alle donne come attrici esclusive del fronte
domestico o come vittime delle violenze belliche. Si sono così dedicati
studi alla partecipazione femminile (anche come soldati in incognita)
alla Rivoluzione francese, alle rivoluzioni nazionali, alla Guerra
civile americana, al fenomeno dell’interventismo femminile durante la
Prima guerra mondiale. Non è casuale che questi lavori abbiano
cominciato a infittirsi in un periodo, i primi anni Novanta, in cui la
maggior parte degli eserciti occidentali ha avviato l’espansione dei
ruoli operativi per le donne soldato. La militare che combatte (e può
morire) in prima linea è un altro tabù che si spezza, un’ulteriore
ridefinizione non solo del rapporto tra identità femminile e corporeità,
ma anche di quello tra uguaglianza di genere, esercizio della violenza
(in questo caso legittima) e diritti e doveri di cittadinanza.
[…]
Note
[1] Françoise Héritier, “Réflexions pour nourrir la réflexion”, in De la violence,
Séminaire de Françoise Héritier, Odile Jacob, Paris 1996 (trad. it. di
L. Pacelli, “Riflessioni per nutrire la riflessione”, in Sulla violenza, a cura di Françoise Héritier, Meltemi, Roma 2005, pp. 23 sgg.).
[2] Hannah Arendt, On Violence, Harcourt, New York 1969 (trad. it di S. D’Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 37, pp. 46-49).
[3] Robert Muchembled, Une histoire de la violence. De la fin du Moyen Age à nos jours, Seuil, Paris 2008 (trad. it. di M. Pegoraro, Storia della violenza. Dal Medioevo ai nostri giorni, Odoya, Bologna 2012, pp. 16-17).
[4] Françoise Héritier, Masculin-Féminin II. Dissoudre la hiérarchie, Odile Jacob, Paris 2002 (trad. it. A. Panaro, Dissolvere la gerarchia. Maschile/femminile, Raffaello Cortina, Milano 2004 , p. 49).
[5] John Klama, Aggression: Conflict in Animals and Humans Reconsidered, Longman, London 1988 (trad. it. di F. Bianchi Bandinelli, L’aggressività, realtà e mito, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 134).
[6]
Seguace di Freud e convinta assertrice della necessaria complementarità
dei generi, Lou Andreas-Salomé afferma che il desiderio di uguaglianza,
la lotta per i diritti e la “possibilità di fare scelte” comportano per
la donna un “inaridimento di quelle che sono le sue sorgenti più
atavicamente specifiche”, conducendola “nel tormento di contrasti che,
tra ambizione e colpa nella sua qualità di ribelle, la straniano da se
stessa; in breve: essa comincia a uccidere il padre” (“Che cosa deriva
dal fatto che non sia stata la donna a uccidere il padre” (1928), in Lou
Andreas-Salomé, Anal und Sexual e altri scritti psicoanalitici,
Guaraldi, Rimini-Firenze 1977, pp. 115-116). Immaginando una filiazione
tutta paterna dell’identità femminile, Andreas-Salomé sembra dunque
collegare una condizione di maggior parità alla necessità di
confrontarsi con l’omicidio simbolico dell’autorità.
[7] René Girard, La violence et le sacré, Bernard Grasset, Paris 1972 (trad. it. di O. Fatica, E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980).
[8] Erich Neumann, Die Grosse Mutter, Rhein-Verlag, Zürich, 1956 (trad. it. di A. Vitolo, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Astrolabio, Roma 1981, p. 151).
[9] Arlette Farge, “Évidentes émeutières”, in Histoire des femmes en Occident, xvie-xviiie siècles, t. 3, Natalie Zemon Davis et Arlette Farge éd., Plon, Paris 1991 (trad. di P. Russo, “Sovversive”, Storia delle donne dal Rinascimento all’età moderna,
Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 498-499); cfr. anche Nicole Castan,
“Criminale”, in ivi, pp. 471-483; Simona Trombetta, “Public vices,
private remedies in nineteenth-century Italy: Giulia Falletti di Barolo
Colbert and Le Forzate”, Journal of Modern Italian Studies, 7,
1, 2002, pp. 56-73. In campo storiografico e antropologico, una
significativa eccezione alla scarsa attenzione al tema è rappresentata
dagli studi sulla stregoneria in età moderna, un fenomeno in cui di
nuovo le presunte violenze – spesso contro bambini e nella gran parte
dei casi imputate a donne marginali e “autonome” – sono ricondotte al
soprannaturale e a una tradizione misogina risalente all’antichità; tra i
tanti titoli, cfr. Jean-Michel Sallmann, “Strega”, in Storia delle donne, cit., pp. 455-469 e Lyndal Roper, Witch Craze: Terror and Fantasy in Baroque Germany, Yale University Press, New Haven 2004.
[10] Cfr. Carol Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge 1982; Nel Noddings, Caring: A Feminist Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley 1984; Annette C. Baier, Moral Prejudices: Essays on Ethics, Harvard University Press, Cambridge 1994. Influente è stato anche il “pensiero materno” di Sara Ruddick (S. Ruddick, Maternal Thinking: Toward a Politics of Peace, Beacon Press, Boston 1989, 1995).
[11] Adriana Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007, p. 150.
[12]
Secondo la ricerca psicoanalitica di Melanie Klein sulle prime fasi di
sviluppo del bambino, il “seno buono” corrisponde all’interiorizzazione
della madre come oggetto d’amore, mentre il “seno cattivo”
all’interiorizzazione della madre come oggetto di odio e del timore di
persecuzione (cfr. Il mondo interno del bambino, 1952-1958, Bollati Boringhieri, Torino 2012).
[13] Teresa de Lauretis, “The Violence of Rhetoric: Considerations on Representation and Gender”, in The Violence of Representation: Literature and the History of Violence, a cura di Nancy Armstrong e Leonard Tennenhouse, Routledge, New York 1989, p. 250 (traduzione mia).
[14] Cécile Dauphin e Arlette Farge, “Introduction”, De la violence et des femmes,
Cécile Dauphin et Arlette Farge, éd., Albin Michel, Paris 1997, p. 11
(traduzione mia). Sulla doppia focalizzazione violenza delle
donne-violenza sulle donne, cfr. anche Joan DeJean, “Violent Women and
Violence against Women: Representing the ‘Strong’ Woman in Early Modern
France”, Signs, 29, 1, 2003, pp. 117-147 e, con riferimento al contesto della Prima guerra mondiale, Kimberly Jensen, Mobilizing Minerva: American Women in the First World War, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2008.
[15] Barbara Ehrenreich, “When the Predator Had a Woman’s Face”, in Ead., Blood Rites: The Origins and History of the Passions of War, Henry Holt & Co., New York 1997 (trad. it. A. Bottini, “Quando il predatore aveva un volto di donna”, in Riti di sangue. All’origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 97-98).
[16] Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe I. Les faits et les mythes, Gallimard, Paris 1949 (trad. it. di R. Cantini e M. Andreose, Il secondo sesso. I: I fatti e i miti, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 94).
[17] Cfr. Jean Leighton, Simone de Beauvoir on Woman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford 1975, pp. 33-34, e Eva Lundgren-Gothlin, “The Master-Slave Dialectic in The Second Sex”, in Simone de Beauvoir: A Critical Reader, a cura di Elizabeth Fallaize, Routledge, London 1998, p. 106.
[18] Dana Crowley Jack, Behind the Mask: Destruction and Creativity in Women’s Aggression, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2001; Patricia Pearson, When She Was Bad: Violent Women and the Myth of Innocence,
Viking, New York 1997. In Italia, qualche punto di contatto con queste
posizioni è presente nel lavoro della psicoanalista junghiana Marina
Valcarenghi, che riconduce alla plurisecolare repressione dell’istinto
aggressivo delle donne la loro diffusa incapacità di affermare e
difendere con efficacia il proprio spazio soggettivo, facendole
oscillare tra comportamenti ipoaggressivi e iperaggressivi che le
mettono in guerra contro se stesse (cfr. L’aggressività femminile, Mondadori, Milano 2007).
TESTO RIPRESO DAL SITO: http://www.leparoleelecose.it/?p=24970
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