Ungaretti. Le parole come carne
Alberto Asor Rosa
Sulla prima pagina della prima raccolta poetica di Ungaretti, L'allegria in
quella sezione che contiene le poesie datate 1914-15 (e dunque del
periodo lacerbiano e parafuturista) troviamo il componimento Eterno:
due versi che, nella loro spoglia ma canora nudità, segnano già in
apertura i precisi confini di una ricerca istintivamente ben formata:
“Tra un fiore colto e l'altro donato / L'inesprimibile nulla”. A questa
data, e più per forza d'istinto che di riflessione critica, Ungaretti ha
impostato la parte essenziale della sua rivoluzione.
Il futurismo è appena dietro le spalle: Ungaretti non ne ha ritenuto la retorica delle macchine, ma sì l'appello a puntare sulla riduzione all' essenziale del linguaggio poetico; ovvero, per dirla con le parole di Marinetti, a “le metafore condensate, le immagini telegrafiche, le somme di vibrazioni, i nodi di pensieri... gli scorci di analogie... il tuffo della parola essenziale nell' acqua della sensibilità, senza i cerchi concentrici che la parola produce...”. Più che a Mallarmé o a Leopardi di là da venire , il giovane Ungaretti, reduce da un bagno nella Senna, guarda per ora a quella zona assai mobile dove la tradizione simbolista si disfa e, celebrando i suoi ultimi trionfi, si versa e al tempo stesso si disperde nei mille e diversi rivoli di una poetica dell'essenza pura (molto Apollinaire, ad esempio). Egli nasce perciò, probabilmente senza volerlo, come un poeta fortemente avanguardista, uno dei pochi veramente autentici del nostro Novecento: tutti gli altri, compreso Montale (che si apprestava a declinare di lì a qualche anno le eterne ragioni del povero antico poeta malato di spleen: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / L' animo nostro informe...”), gli stanno per allora dietro, raggruppati sulla bella riva della nostalgia o della memoria e penosamente incerti se lanciarsi o no nell'onda perigliosa e sconosciuta che gli scorre davanti.
“Quest'onda perigliosa e sconosciuta si chiama crisi della parola poetica, una parola in istato di crisi” (Ungaretti, in "Ragioni di una poesia"; ma il testo citato risale al 1933). Ungaretti la riafferra per i capelli, con forza più barbarica che civilizzata, e le restituisce dignità di strumento d'interpretazione o, meglio, di valorizzazione del mondo.
Il futurismo è appena dietro le spalle: Ungaretti non ne ha ritenuto la retorica delle macchine, ma sì l'appello a puntare sulla riduzione all' essenziale del linguaggio poetico; ovvero, per dirla con le parole di Marinetti, a “le metafore condensate, le immagini telegrafiche, le somme di vibrazioni, i nodi di pensieri... gli scorci di analogie... il tuffo della parola essenziale nell' acqua della sensibilità, senza i cerchi concentrici che la parola produce...”. Più che a Mallarmé o a Leopardi di là da venire , il giovane Ungaretti, reduce da un bagno nella Senna, guarda per ora a quella zona assai mobile dove la tradizione simbolista si disfa e, celebrando i suoi ultimi trionfi, si versa e al tempo stesso si disperde nei mille e diversi rivoli di una poetica dell'essenza pura (molto Apollinaire, ad esempio). Egli nasce perciò, probabilmente senza volerlo, come un poeta fortemente avanguardista, uno dei pochi veramente autentici del nostro Novecento: tutti gli altri, compreso Montale (che si apprestava a declinare di lì a qualche anno le eterne ragioni del povero antico poeta malato di spleen: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / L' animo nostro informe...”), gli stanno per allora dietro, raggruppati sulla bella riva della nostalgia o della memoria e penosamente incerti se lanciarsi o no nell'onda perigliosa e sconosciuta che gli scorre davanti.
“Quest'onda perigliosa e sconosciuta si chiama crisi della parola poetica, una parola in istato di crisi” (Ungaretti, in "Ragioni di una poesia"; ma il testo citato risale al 1933). Ungaretti la riafferra per i capelli, con forza più barbarica che civilizzata, e le restituisce dignità di strumento d'interpretazione o, meglio, di valorizzazione del mondo.
Che questo avvenga, è
più facile constatarlo che spiegarlo (nonostante l'apparente,
ingannevole semplicità della soluzione adottata). La mia ipotesi è
questa. Diversamente dai futuristi, di cui pure riprende le
intuizioni fondamentali, Ungaretti non è interessato ad una dinamica
degli eventi ma ad una fenomenologia dei sentimenti. Per lui, forse,
esserci era e restò più importante che poetare, anche se poetare fu
per lui l'unico modo di esserci. Se è un po' sciocco e banale
leggere la poesia di Ungaretti come un documento autobiografico, è
altrettanto e forse più sciocco procedere a tale lettura
prescindendo del tutto dal fondamento esistenziale, anzi biologico,
profondissimo, di tale poesia, quasi che Ungaretti fosse davvero un
manierista tardorinascimentale (non sarà per un caso fortuito,
almeno, che da un certo momento in poi egli abbia cominciato a
marcare le sue raccolte con il supra-titolo di Vita di un uomo).
Questa biologia, però “Tra un fiore colto e l' altro donato...”
porta nel suo seno una fessura non nascosta né occultabile,
attraverso cui lo sguardo s'arrischia a scoprire, con una sorta di
riluttante stupore ma anche di allegra meraviglia, la presenza di un
Ente indefinito e misterioso: “L' insopprimibile nulla...”.
La parola di Ungaretti è
quello sguardo che, calato negli interstizi di una realtà biologica
paradossalmente contraddittoria, contempla il primigenio stato
dell'essere ciò che già c'è prima che il resto ci sia. Io non
credo, tuttavia, che questo si possa definire, almeno all'origine, il
frutto di un atteggiamento religioso (in senso proprio). Se è lecito
dissentire per una volta da un maestro come Contini, a me pare
infatti che la rivoluzione di Ungaretti non consista nel rimettere al
centro dell'ispirazione poetica la Parola, orficamente intesa. La
parola, in un suo senso più dimesso e quotidiano, è invece alla
base di una nuova sintassi: una sintassi, tuttavia, che, tanto per
esser chiari, muove in una direzione completamente opposta rispetto
alla nuova sintassi montaliana: quest'ultima, infatti, delucida ed
argomenta una nuova e diversa interpretazione del mondo; l'altra,
invece, quella ungarettiana, la presuppone.
La sintassi poetica
ungarettiana si fonda dunque su di una metafisica; quella montaliana,
invece, risolutamente la esclude. Ma la metafisica ungarettiana anni
1912-18 non presuppone (a me pare) un ulteriore rimando: c' è in
quanto c' è e perché c' è il che vuol dire che lo sguardo-parola
per ora si autogiustifica. Da questo punto di vista a me sembra che
Ungaretti riveli un lato fortemente materiale, sensibile, anzi
decisamente sensuale, anzi molto carnale, e una percezione
fisiologica estremamente vigile e circostanziata del proprio essere
(Stamani mi sono disteso / In un' urna d' acqua / E come una reliquia
/ Ho riposato...).
A quest'altezza
cronologica la forza che dissolve il contesto semantico-storico
(ossia, se si preferisce, l' immensa mole dell'eredità classica) e
sprigiona tanta potenza evocativa è più nichilistica che dogmatica,
ma di quell'allegro, sfrontato nichilismo dissolutore, la cui radice
ben conosce chiunque conosca un libro come La gaia scienza
(anche se bisogna ammettere che le vie del signore sono infinite...).
Dunque, se una sintassi è un modo articolato e non volgarmente
intuizionistico di leggere il mondo, non v'è ombra di dubbio che
L'allegria rappresenti l'emergere di una nuova sintassi; e se
nuova sintassi c' è, non se ne può ridurre la portata ad una
semplice ripresa di illuminazioni rimbaudiane: per Ungaretti Je n'
est un autre; se mai, è vero il contrario, e cioè che la rete
delle sensazioni, tenacemente tirata da un punto all'altro del suo
essere uomo-poeta, tende sempre a raccontare una storia, mai ad
esaurirsi in un rapido bagliore nel buio. Qui, per la concreta
costruzione del testo poetico, Bergson vale ancora più dei
simbolisti, o almeno quanto loro: i celebri quadretti lirici
dell'Allegria sono racconti, da cui il tempo è stato
risucchiato per rimpiazzarlo con una durata, che ne slarga i confini
fino ad ottenere esiti smisurati, un ampliamento e una
moltiplicazione degli echi, che non ha più bisogno di parole per
suggerire l' ulteriore sviluppo di una narrazione (Sono una
creatura, 1916: Come questa pietra / E' il mio pianto / Che non
si vede. / La morte / Si sconta / Vivendo' ' ; I fiumi, 1916:
...Mi sono riconosciuto / Una docile fibra / Dell' Universo. / Il mio
supplizio / E' quando / Non mi credo / In armonia' ' ; Soldati,
1918: Si sta come / D' autunno / Sugli alberi / Le foglie' ' ).
Già lo accennavamo: una
nuova sintassi è sempre, in qualche modo, l'adozione d'un nuovo
codice. La scansione degli eventi esiste, e come, anche in questa
poesia ungarettiana; ma essa è ridotta agli elementi stessi del
codice che la descrive. Parola e sentimento tendono a coincidere: il
resto, il lettore sa che bisogna cercarlo nell' alone che circonda e
al tempo stesso espande il quadro un quadro a cui la cornice sia
stata tolta onde consentire il pieno respiro della visione. Ardua
doveva essere l' impresa di tenere sempre a questo altissimo livello
il gettito di una vocazione poetica, che presupponeva una perfetta
fusione della lingua già avvenuta in interiore homine. Non c' è
dubbio per me che, dopo L' allegria, Ungaretti vada incontro a
momenti successivi e progressivi di istituzionalizzazione. L'
incontro con l' idea di Roma e dunque con l' implicita classicità,
di cui quella città è simbolo e ancor più con il barocco, che
soddisfa in termini ben noti quella sete di meraviglioso, pur
implicita fin dall' inizio nella novazione ungarettiana, sposta l'
accento su di una ricerca che arditamente sviluppa l' idea, anch'
essa originariamente presente ma non ancora chiaramente formulata, di
un rapporto necessario tra parola e mistero (“Il mistero c' è, è
in noi... La parola ci riconduce, nella sua oscura origine, e nella
sua oscura portata, al mistero, lasciandolo tuttavia inconoscibile”
; in Ragioni di una poesia).
Ho ancora nelle orecchie
la cavernosa dizione, il vero e proprio soffio del demone, quando
leggeva poesie sue o di altri in una oscura aula della Facoltà di
Lettere dell'Università di Roma, metà degli anni Cinquanta.
Sottoposto al ludibrio ridanciano degli studenti d'ingegneria, che
accorrevano in massa a bearsi dello spettacolo di questo peraltro
indifferente e impenetrabile invasamento, non gli mancò neanche lo
scherno del volgo per essere in tutto e per tutto, anche nella vita,
il grande poeta ch'egli era.
“la Repubblica”, 4
febbraio 1988
Nessun commento:
Posta un commento