Valeria Ribeiro
Corossacz
Margaret Mead, quando
i ruoli sessuali erano complementari
Pubblicato per la prima
volta negli Stati Uniti nel 1949, Maschio e Femmina dell’antropologa
Margaret Mead è ora riedito per i tipi de Il Saggiatore (pp. 410,
euro 28), che lo aveva pubblicato nel 1966 nell’attuale traduzione.
Si tratta di un classico dell’antropologia, che ebbe un grande
successo di pubblico, e in particolare di un testo di riferimento per
quella che sarà la futura antropologia di genere, sviluppatasi
proprio dalla ricezione del lavoro di Mead.
Il volume - che può
essere utilmente affiancato al testo divulgativo Margaret Mead
Quando l’antropologa è donna, a cura di Silvia Lelli (2016) -
presenta materiali e riflessioni basati su diverse campagne
etnografiche, condotte tra il 1925 e il 1939 presso sette popolazioni
del Pacifico meridionale e occidentale: i samoani (Polinesia), i
manus, gli arapesh, i mundugumor, i ciambuli (Nuova Guinea), gli
iatmul (Papua Nuova Guinea) e i balinesi. L’oggetto di queste
ricerche sul campo sono quelli che l’autrice stessa definisce i
problemi su cui ha meditato tutta la sua vita professionale, ovvero
cosa siano mascolinità e femminilità.
Oggi potremmo dire che
Mead studiava, in diverse società, i processi culturali della
costruzione del maschile e del femminile, quelli che definiva ruoli
sessuali, una tappa fondamentale nella formazione della nozione di
genere. Il libro si contraddistingue per proporre un messaggio
ottimista, basato sulla sua fiducia nelle capacità delle scienze
sociali di poter trasformare in meglio le relazioni tra uomini e
donne e così l’intera società americana. In Maschio e Femmina
Mead dimostra come, sin dalla primissima infanzia, uomini e donne
sono socializzati in base a un modello maschile e femminile previsto
dalla propria società, a cui gli individui si devono adeguare.
Quello che in una società può essere considerato un comportamento
tipicamente femminile (passività), in un’altra può essere
ritenuto maschile. A volte però le caratteristiche individuali non
trovano spazio nei modelli sessuali promossi e approvati socialmente.
I ruoli sessuali sono
dunque appresi, sono delle «parti da recitare», ma secondo
l’antropologa hanno comunque un fondamento naturale e sono
complementari. Mead non mette in discussione la divisione sociale tra
maschile e femminile, ma afferma che ci sono delle variazioni
culturali nei comportamenti maschili e femminili. Il libro si
caratterizza per il suo impianto comparativo, basato sull’idea che
l’antropologia compara società diverse trovandovi un «filo
conduttore», che permise a Mead di avvicinare i comportamenti di
bambini e adolescenti statunitensi a quelli delle popolazioni da lei
studiate insinuando in un vasto pubblico il dubbio che non tutto era
«naturale» nei giochi, nelle preferenze dei vestiti delle bambine e
nelle scelte professionali delle donne.
Inoltre Mead sviluppa la
lezione di Boas, di cui fu allieva, sulla plasticità dell’essere
umano, osservando come sessualità, matrimonio e riproduzione siano
condizionati dal contesto culturale. Mead era estremamente
consapevole della forza dei condizionamenti culturali, per esempio di
quanto fosse difficile per una donna fare l’antropologa, osservando
come le antropologhe siano più sensibili dei colleghi a quanto
succede nella propria famiglia quando sono sul campo e come questo
influenzi l’esperienza stessa del campo.
Tuttavia, leggendo il
testo ci rendiamo conto come anche Mead rimanesse immersa nella
cultura della sua epoca, come quando afferma che lo stupro non è un
«atto riconosciuto socialmente», ma piuttosto che esso «può
svilupparsi come una deviazione di speciali situazioni sociali»,
ovvero quando ci sono delle diversità di educazione o di classe.
Sappiamo quanto sia difficile ancora oggi riconoscere la violenza
sessuale contro le donne.
Maschio e femmina può
apparire scritto in un linguaggio datato, lontano dall’attuale
letteratura degli studi di genere, ma ci è quanto mai utile per
comprendere la complessità dell’impresa iniziata dall’antropologa
americana. Il lavoro di Mead ha rappresentato, infatti, il punto di
partenza delle riflessioni che identificano sesso (natura) e genere
(cultura) come separati, ma anche di quelle che riconoscono come il
genere venga prima del sesso, poiché gli esseri umani investono gli
attributi naturali di significati prodotti nelle relazioni sociali.
Mead ha contribuito ad
avviare questi sviluppi, che lei non avrebbe affatto condiviso,
attraverso le sue ricerche sul campo in cui osservava come i modelli
educativi di bambine e bambini possono variare in modo considerevole
da una società all’altra. La prospettiva comparativa e
l’insistenza sulla plasticità delle esperienze umane hanno reso il
suo lavoro la base da cui si svilupperà poi l’antropologia
femminista. Mead prese sempre le distanze dalle rivendicazioni
femministe dei suoi tempi. Eppure la sua opera è stata un ponte per
le lotte contro l’oppressione delle donne, poiché in essa
l’antropologa dimostra che non esistono basi biologiche per la
discriminazione sociale delle donne e denuncia quelle visioni che
«sopravvalutano il ruolo delle diversità fra i sessi e le estendono
arbitrariamente ad altri aspetti della vita».
Come ricorda la figlia
Mary Catherine Bateson, il cambiamento era uno dei temi principali
del lavoro di Mead, ovvero l’idea che la cultura non è un destino
innato, ma un artefatto umano che può essere modellato. Seguendo
proprio questa strada, l’antropologia femminista ha scardinato
l’idea che in ultima istanza le donne siano determinate dalla loro
capacità riproduttiva, dalla loro specifica natura. Ci auguriamo che
la riedizione di questo classico indichi la strada per la
pubblicazione di altri testi antropologici che ormai da anni studiano
l’organizzazione sociale dei rapporti tra uomini e donne,
l’eterosessualità come una delle molteplici opzioni a disposizione
degli esseri umani per vivere la sessualità, gli affetti e la
famiglia, e come essa si fondi, nella maggior parte delle società
umane, sullo sfruttamento maschile delle donne.
il manifesto – 11
ottobre 2016
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