Ho letto La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani di Alain Badiou, uscito per Ponte alle Grazie nella traduzione di Vincenzo Ostuni, mentre stavo facendo una ricerca sul tema delle generazioni in poesia, che oggi in Italia porta con sé una sorta di morbo, molte verità e molte distorsioni. Cercando di far dialogare tra loro quelle verità e quelle distorsioni, è restata, senza remissione, la radice di un problema contemporaneo che va ben oltre l’atavico conflitto padri-figli, che denuncia in Occidente situazioni cruciali di ordine simbolico e materiale, che mette in discussione certi aspetti del pensiero nichilista parallelamente ai modelli economici dominanti. Può essere interessante iniziare a leggere La vera vita dall’ultimo capitolo, A proposito del divenire contemporaneo delle ragazze, che offre una delle analisi più lucide sull’evoluzione del femminismo, sulle relazioni tra generi, identità e competenze, sessualità e lavoro. Andare quindi a ritroso, con il secondo, A proposito del divenire contemporaneo dei ragazzi, e con il primo, Essere giovani oggi: senso e non senso, da cui sono tratti i seguenti brani. Si ringrazia l’editore per aver permesso di pubblicarli. (Maria Borio)
La vera vita
di Alain Badiou
La «vera vita», ricordiamolo, è
un’espressione di Rimbaud. Ecco un autentico poeta della giovinezza,
Rimbaud. Qualcuno che fa poesia a partire dalla propria esperienza
totale della vita che comincia. È lui che, in un momento di
disperazione, scrive in modo straziante: «La vera vita è assente». È
questo che la filosofia c’insegna, o comunque tenta di insegnarci: che
se la vera vita non è sempre presente, essa non è neppure mai
completamente assente. Che lei, la vera vita, sia un po’ presente, è
quello che il filosofo vuole dimostrare. E corrompe la gioventù nel
senso che tenta di dimostrarle che esiste una falsa vita, una vita
devastata, che è la vita pensata e praticata come lotta feroce per il
potere, per il denaro. La vita ridotta, con ogni mezzo, alla pura e
semplice soddisfazione delle pulsioni immediate.
[…]
In fondo, dice Socrate, e per il momento non faccio che seguirlo, per conquistare la vera vita bisogna lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata. Fondamentalmente, corrompere la gioventù significa una cosa sola: tentare di fare in modo che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati, che non sia semplicemente votata a obbedire ai costumi della città, che possa inventare qualcosa, proporre un altro orientamento per quel che riguarda la vera vita.
In fondo, dice Socrate, e per il momento non faccio che seguirlo, per conquistare la vera vita bisogna lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata. Fondamentalmente, corrompere la gioventù significa una cosa sola: tentare di fare in modo che la gioventù non ripercorra i sentieri già tracciati, che non sia semplicemente votata a obbedire ai costumi della città, che possa inventare qualcosa, proporre un altro orientamento per quel che riguarda la vera vita.
[…]
In primo luogo, è una giovinezza non più sottomessa a una severa iniziazione. Non le vengono imposti i riti, spesso ardui, che segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. La seconda caratteristica che sottolineerei è che si attribuisce alla vecchiaia un valore minore, infinitamente minore. Nella società tradizionale, i vecchi sono sempre i maestri, sono valorizzati come tali, naturalmente a svantaggio dei giovani. La saggezza si trova dal lato della lunga esperienza, dell’età avanzata, della vecchiaia. Oggi questa valorizzazione è sparita, a tutto vantaggio del suo contrario: la valorizzazione della giovinezza. È quel che si è chiamato il «giovanilismo». Il giovanilismo è una sorta di capovolgimento dell’antico culto dei vecchi saggi. L’intendo su un piano teorico, o piuttosto ideologico, perché il potere è ancora in gran parte concentrato nelle mani di adulti, anzi di adulti già quasi vecchi. Ma il giovanilismo, in quanto ideologia, in quanto tema della pubblicità mercantile, impregna la società, che prende a modello i giovani. Come del resto prediceva Platone a proposito delle società democratiche, abbiamo l’impressione che i vecchi vogliano restar giovani a qualunque costo, e che i giovani non aspirino altrettanto a divenire adulti.Alcuni tratti positivi sembrano caratterizzare la gioventù contemporanea, e dovrebbero differenziarla dalle gioventù che l’hanno preceduta. Si può in effetti sostenere che, per ragioni molteplici, oggi i giovani dispongono di un margine di manovra più ampio di una volta, tanto per bruciare quanto per costruire la propria esistenza. In parole povere, sembra che il tratto più generale della giovinezza, almeno nel nostro mondo, il mondo che chiamiamo Occidente, sia il fatto che è una giovinezza più libera.
In primo luogo, è una giovinezza non più sottomessa a una severa iniziazione. Non le vengono imposti i riti, spesso ardui, che segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. La seconda caratteristica che sottolineerei è che si attribuisce alla vecchiaia un valore minore, infinitamente minore. Nella società tradizionale, i vecchi sono sempre i maestri, sono valorizzati come tali, naturalmente a svantaggio dei giovani. La saggezza si trova dal lato della lunga esperienza, dell’età avanzata, della vecchiaia. Oggi questa valorizzazione è sparita, a tutto vantaggio del suo contrario: la valorizzazione della giovinezza. È quel che si è chiamato il «giovanilismo». Il giovanilismo è una sorta di capovolgimento dell’antico culto dei vecchi saggi. L’intendo su un piano teorico, o piuttosto ideologico, perché il potere è ancora in gran parte concentrato nelle mani di adulti, anzi di adulti già quasi vecchi. Ma il giovanilismo, in quanto ideologia, in quanto tema della pubblicità mercantile, impregna la società, che prende a modello i giovani. Come del resto prediceva Platone a proposito delle società democratiche, abbiamo l’impressione che i vecchi vogliano restar giovani a qualunque costo, e che i giovani non aspirino altrettanto a divenire adulti.Alcuni tratti positivi sembrano caratterizzare la gioventù contemporanea, e dovrebbero differenziarla dalle gioventù che l’hanno preceduta. Si può in effetti sostenere che, per ragioni molteplici, oggi i giovani dispongono di un margine di manovra più ampio di una volta, tanto per bruciare quanto per costruire la propria esistenza. In parole povere, sembra che il tratto più generale della giovinezza, almeno nel nostro mondo, il mondo che chiamiamo Occidente, sia il fatto che è una giovinezza più libera.
[…]Il fatto che non ci sia più
un’iniziazione è un dato che va letto in due sensi. Da un lato esso
espone i giovani a un’adolescenza infinita, dunque all’impossibilità di
trattare le passioni, di regolare quelle passioni, e questo implica
anche – si tratta della stessa cosa vista al contrario – quella che
potremmo definire una puerilizzazione dell’adulto. Un’infantilizzazione.
Dall’altro, il giovane può rimanere indefinitamente giovane perché non
esistono marcature particolari, il che in un certo modo significa che
l’età adulta è un prolungamento dell’infanzia in una maniera che è al
contempo continua e parziale. Si potrebbe dire che questa
puerilizzazione dell’adulto è il correlato della potenza del mercato.
Fra l’adolescenza dei giovani e la sottomissione generale e
infantilizzante alla regola dell’acquisto, con i soggetti che tutti
compaiono davanti allo scintillio delle merci sul mercato mondiale,
abbiamo come risultato una sorta di erranza della giovinezza. Quando
esisteva l’iniziazione, la giovinezza era fissa, ora invece è errante,
non conosce le sue frontiere, i suoi limiti, è al contempo distinta e
indistinguibile dall’età adulta, e questa erranza è anche – così vorrei
definirla – un disorientamento.
[…]Che dire del secondo argomento a
favore della gioventù, ovvero il fatto che non si dà più una
valorizzazione della vecchiaia? Ebbene, questo ha notevolmente
rafforzato una paura della giovinezza, che accompagna come un’ombra la
sua valorizzazione esclusiva. Questa paura della giovinezza, e in
particolare della giovinezza popolare, è del tutto caratteristica delle
nostre società. E questa paura non ha più un contrappeso. Un tempo
esisteva una paura della giovinezza nel senso che la vecchiaia, la
saggezza trasmessa dai vecchi, doveva contenerla, padroneggiarla,
imporle identificazioni, limiti. Ma oggi si verifica qualcosa di molto
più inquietante, che è la paura dell’erranza della giovinezza. Si ha
paura della giovinezza proprio perché non si sa che cosa essa sia, che
cosa possa essere, perché essa è interna allo stesso mondo adulto e al
contempo niente affatto interna, è altro senza essere altro. I giovani
si trovano in una società che allo stesso tempo decanta la giovinezza e
ne ha paura. Questo è un fatto certo. E l’equilibrio fra le due cose ha
come risultato che la nostra società non riesce a trattare il problema
della propria stessa gioventù. E quando, com’è il caso di oggi, la
società non è più in grado di fornire lavoro a questi giovani, i
problemi si fanno molto seri. Perché avere un lavoro era un po’ l’ultima
forma d’iniziazione, era così che sembrava cominciare la vita adulta.
Anche questa, oggi, viene rimandata a lungo, finisce per arrivare molto
tardi.
Si può probabilmente affermare che le
evidenti nuove libertà della gioventù dimostrano che non ci troviamo più
nel mondo della tradizione. Ma constatiamo anche che non trovarcisi più
pone problemi la maggior parte dei quali non sono ancora risolti. Del
resto non solo per i giovani, ma anche per i vecchi. I primi sono
erranti e fanno paura, i secondi sono svalutati e piazzati in appositi
istituti, con il solo destino di morire «in pace».
Vi propongo allora un’idea militante.
Sarebbe giusto organizzare un’ampia manifestazione per l’alleanza fra i
giovani e i vecchi, rivolta esplicitamente contro gli adulti di oggi. I
più ribelli sotto i trent’anni e i più coriacei sopra i sessanta contro
gli affermati quaranta-cinquantenni. I giovani direbbero che ne hanno
abbastanza di essere erranti, disorientati e interminabilmente privi di
ogni marca d’esistenza positiva. Direbbero anche che non è un bene che
gli adulti facciano finta di essere eternamente giovani.
[…]
I giovani si trovano alle soglie di un
nuovo mondo, un mondo che non sarà più quello plurimillenario della
tradizione. Voi vi trovate nel frangente di una crisi delle società che
scuote e distrugge gli ultimi resti della tradizione. E di questa
distruzione, di questa negazione, noi non conosciamo realmente il
versante positivo. Sappiamo che essa apre incontestabilmente a una
libertà. Ma questa libertà consiste soprattutto nell’assenza di
determinati divieti. È una libertà negativa, consumista e consacrata
all’incessante variabilità dei prodotti, delle mode e delle opinioni.
Essa non stabilisce alcun orientamento verso una nuova idea di vera
vita.
[…]
Il punto forse più sorprendente, e
comunque quello su cui dobbiamo soffermarci qui, è che l’uscita dal
mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte
sull’umanità e in appena tre secoli spazza via forme di organizzazione
che duravano da millenni, crea una crisi soggettiva di cui percepiamo
oggi le cause e la portata, e uno dei cui aspetti più vistosi è
precisamente l’estrema e crescente difficoltà che la gioventù incontra
nel situarsi nel nuovo mondo.
È questa, la vera crisi. Oggi tutti
parlano della […]«crisi». Si crede talvolta che sia la crisi del
capitalismo finanziario moderno. No! Niente affatto! Il capitalismo è in
piena espansione globale, e il suo proprio modo di sviluppo ha sempre
comportato crisi e guerre, mezzi tanto selvaggi quanto necessari per
ripulire le forme della concorrenza e consolidare la posizione dei
vincitori. Ricordiamoci del punto al quale siamo. Come diceva Mao
Zedong, bisogna sempre «avere le cifre in testa». Oggi, il 10% della
popolazione mondiale detiene l’86% del capitale disponibile. L’1%
detiene da solo il 46% di questo capitale. E il 50% della popolazione
mondiale non possiede esattamente nulla, lo 0%. L’uscita dal mondo
gerarchizzato della tradizione non ha proposto una simbolizzazione non
gerarchica, ma unicamente una violenta costrizione reale sotto il giogo
dell’economia, accompagnata da regole di calcolo sottomesse agli
esclusivi appetiti di un piccolo numero di persone. Ne risulta una crisi
storica della simbolizzazione, entro la quale la gioventù contemporanea
patisce il suo disorientamento.
Al riguardo di questa crisi, la quale,
con il pretesto di una libertà neutra, propone il denaro come unico
referente universale, vi sono oggi due percorsi attivi, l’uno e l’altro,
a mio giudizio, assolutamente conservatori e inadeguati alle vere
questioni soggettive in preda alle quali oggi l’umanità, e soprattutto
la sua gioventù, si ritrovano.
La prima è l’apologia illimitata del
capitalismo e delle sue vuote «libertà», gravate come sono dalla vana
neutralità della sola determinazione mercantile. Diamo un nome a questo
percorso: il richiamo a quel che chiamo «desiderio d’Occidente», ovvero
l’affermazione che non esiste né può esistere nulla di meglio del
modello liberale e «democratico» della nostra società, qui da noi in
Francia e in tutti gli altri paesi dello stesso tipo. Il secondo
percorso è il desiderio reattivo di un ritorno alla simbolizzazione
tradizionale, ovvero gerarchica. Questo desiderio si ricopre spesso
dell’una o dell’altra narrazione religiosa, che si tratti di sette
protestanti negli Stati Uniti, dell’islamismo reattivo nel Medio Oriente
o del ritorno al giudaismo ritualista in Europa. Ma si annida
altrettanto bene nelle gerarchie nazionali (Viva i francesi «di
origine»! Viva l’ortodossia grande-russa!)nel razzismo puro e semplice
(islamofobia di derivazione coloniale o antisemitismo ricorrente) o,
infine, nell’atomismo individuale (Viva Me e abbasso gli altri!). Questi
due percorsi sono a mio parere vicoli ciechi estremamente pericolosi, e
la loro contraddizione, sempre più sanguinosa, avvia l’umanità verso un
ciclo di guerre senza fine. È il vero problema delle false
contraddizioni, che impediscono il gioco della contraddizione autentica.
La contraddizione autentica, quella
che dovrebbe servirci da riferimento, per il pensiero come per l’azione,
è quella che oppone due visioni dell’uscita ineluttabile dalla
tradizione simbolica gerarchizzante: la visione a-simbolica del
capitalismo occidentale, che crea mostruose diseguaglianze ed erranze
patogene, e la visione generalmente denominata […]«comunismo», che a partire da Marx e dai suoi contemporanei propone di inventare una simbolizzazione egualitaria.
Questa contraddizione fondamentale del
mondo moderno è oggi mascherata, dopo il provvisorio fallimento storico
del «comunismo» di Stato nell’Unione Sovietica o in Cina, dalla falsa
contraddizione che, al riguardo dell’uscita dalla tradizione, si
instaura tra la pura negatività neutra e sterile dell’Occidente, che
dissolve le antiche gerarchie simboliche a tutto vantaggio delle
gerarchie reali, dissimulate dalla neutralità monetaria, e la reazione
fascisteggiante che, con una violenza spettacolare volta a camuffarne la
reale impotenza, propugna il ritorno alle antiche gerarchie.
[…]
È nel quadro di quest’esigenza di simbolizzazione egualitaria che posso tornare ai giovani, i primi ad esser colpiti, assieme ai più vecchi, dal dominio della falsa contraddizione.
È nel quadro di quest’esigenza di simbolizzazione egualitaria che posso tornare ai giovani, i primi ad esser colpiti, assieme ai più vecchi, dal dominio della falsa contraddizione.
Voi giovani siete immersi nel doppio
effetto della reale uscita dalla tradizione, e della dimensione
immaginaria della falsa contraddizione. Siete d’altro canto, io lo
credo, sulla soglia di un nuovo mondo, quello della simbolizzazione
egualitaria. Il lavoro non è semplice: fino a oggi, tutte le
simbolizzazioni sociali sono state gerarchiche. Dovete dunque accordare
la vostra soggettività a un compito completamente nuovo: l’invenzione,
contro la rovina del simbolico nell’acqua gelida del calcolo
capitalistico e contro il fascismo reattivo, di una nuova
simbolizzazione.
Si può dunque dire che esiste quel che
voi potete costruire, ma che esiste anche quel che vi fa andare più
lontano; esiste quel che vi può «sistemare» ma esiste anche la vostra
capacità di viaggio, d’esilio. Le due cose esistono allo stesso tempo.
Il «sistemarsi» può essere revocato a partire da un’erranza che non è
più nichilista, ma da un’erranza orientata, da una bussola per trovare
la vera vita, da un simbolo inedito.
Quest’ultimo punto, in relazione alla
contraddizione fra bruciare la propria vita e costruirla, è qualcosa
che, consciamente o inconsciamente, costituisce la soggettività della
gioventù. Direi che occorre stabilire un legame fra i due. Esiste quel
che volete costruire, quello di cui siete capaci ma esistono anche i
segni di ciò che vi chiama a partire, ad andare oltre quello che
sapete fare, costruire, «sistemare». Il potere della partenza. Costruire
e partire. Non c’è contraddizione fra i due. Saper rinunciare a quel
che si costruisce perché qualcos’altro vi ha fatto cenno in direzione
della vera vita. La vera vita, oggi, situata al di là della neutralità
mercantile, e al di là delle vecchie idee di gerarchia.
20 marzo 2017
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