08 marzo 2017

DACIA MARAINI RICORDA LEONARDO SCIASCIA






      Non è facile oggi festeggiare la "giornata della donna". Siamo stanchi di ricordare la storia di questa giornata a, ancor di più, della retorica costruita intorno ad essa. Così stamattina, mentre cercavamo una intervista di Dacia Maraini, rilasciata nel lontano 1975 al giornale L'ORA, in cui polemizzava con l'ipotesi del matriarcato avanzata Leonardo Sciascia, abbiamo trovato l'articolo che la stessa scrittice dedicò alla memoria del grande scrittore siciliano il giorno della sua morte.  fv

Dacia Maraini - Un giorno Sciascia entrò nella città delle donne

Un uomo che non sorride dovrebbe essere un uomo triste. Ma Sciascia non lo era. Un uomo che non arriccia mai le labbra, che non apre la bocca in un moto di allegria, dovrebbe essere un uomo malinconico e cupo. Eppure Sciascia non lo era.
Il suo astenersi dal sorriso aveva un carattere di gravità, come solo gli isolani più arcaici, schivi nel sentimento (qualsiasi sentimento, che sia di gioia o di dolore) usano fare. Una ritrosia gelosa, una segretezza generosa che non gli impediva, anzi lo aiutavano, ad allungare uno sguardo attento e pudico sugli altri tutti.
Curioso che anche Pasolini fosse affetto da questa forma di ritrosia del sorriso. Soprattutto della risata, quasi che ridendo di potesse perdere qualcosa di prezioso di sé. Le sue risate, come quelle di Sciascia, erano mute e tragiche; non chiamavano alla complicità, ma alla sospensione di ogni giudizio.
Una volta abbiamo discusso pubblicamente con Sciascia, sui giornali, sopra quello che lui chiamava il “matriarcato” delle donne siciliane. La sua idea era che sotto questo grande sventolio di pistole, fucili, carabine, ci fosse una fermo disegno di ordine, tenuto stretto alle basi (e quindi nella struttura familiare) da esperte mani di donna.
Era un piacere discutere con lui, per quanto si potesse essere in disaccordo, perché il suo discorso era sempre inatteso, imprevedibile e quindi stimolante, e inoltre puntava verso l'altro, non cadeva mai nel disprezzo o nel malanimo.
Ricordo i suoi primi libri letti agli inizi degli anni Sessanta. La sorpresa di una prosa piana, limpida, in un momento corrusco della storia letteraria italiana, in cui il piacere del racconto sembrava essersi perso per sempre, la psicologia era vista con sospetto e ogni descrizione passava per noioso naturalismo.
Ma Sciascia non si lasciava incantare dalle sirene dell'avanguardia letteraria. Andava avanti col suo inquieto, ideologico realismo minimale trasportando sulle pagine quel sorriso che non gli spuntava volentieri sulle labbra. Un sorriso, come dice Pirandello, che comporta “simpatia per l'altro”. La differenza tra umorismo e comicità, Pirandello la intendeva proprio così: l'umorismo si mette dalla parte della persona di cui si ride, mescolando comprensione e giudizio, la comicità si mette contro colui di cui si ride, tenendosene fuori, lontano.
Un libro mi ha sorpreso più di altri, fra quelli di Sciascia, un libro recente e precisamente La strega e il capitano. Non solo per la precisione irridente con cui ha indagato nelle minutaglie della storia, fra le parole appena accennate di Manzoni e di Verri, non solo per la forza con cui ha denunciato le ipocrisie interessate delle classi colte nei confronti delle loro serve (streghe o maliarde con cui prima “negoziano” e poi accusano di demonismo), ma anche perché ha ritrovato e fatto sue, dopo solitarie elaborazioni personali, alcune delle idee che da anni le donne, a gruppi o da sole, portano avanti.
Ai tempi del sommovimento ideologico femminile, Sciascia era rimasto “a guardare” con un sorriso chiuso dentro la bocca, di sospetto e di preoccupazione. Poi, da uomo curioso e aperto qual era, anche se con l'aria di occuparsi d'altro, si era messo a riflettere sul concetto della diversità femminile, del razzismo di sesso, fino a scrivere con mano veloce e sapiente questo piccolo capolavoro sulle “ragioni delle donne”.
“Questo è il punto; Caterina Medici credeva di essere strega o quanto meno aveva fede nelle pratiche di stregoneria. Ma forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori; poiché in fatto di stregoneria, l'inquisitore e l'inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell'eguale credenza: ma streghe e stregoni, dal vedere tante loro pratiche non sortire alcun effetto, qualche dubbio dovevano pure averlo, mentre ovviamente non ne avevano coloro che li temevano o che di pratiche stregonesche si credevano affetti, e ancora di più i padri inquisitori, i giudici”.
Una intuizione straordinaria: le donne che si confessavano streghe, che rivelavano mille avventurosi peccati (dal “negozio” col diavolo ai voli sulle scope, dai cuori strappati ai petti dei bambini sostituiti con palle di fieno ai malanni mandati col pensiero) erano in realtà le vere giocatrici, le artiste di una simulazione consapevole rischiosissima perché ne andava della loro vita. Eppure questa vita la regalavano ai carnefici con la grandezza istrionica di chi per una volta sola nella vita si sente presa sul serio, ascoltata e potente, anche se di un potere negativo che si rivolterà contro di lei.
L'Inquisizione non poteva bruciare un corpo se non era confesso. Perciò si insisteva tanto sulla confessione. E per ottenerla si usava regolarmente la tortura. Le donne incriminate, pur di non soffrire, aggiungevano confessioni alle confessioni, fino a entrare, come suggerisce bene Sciascia, “nella perversa circolarità” che si era stabilita tra inquisitori e inquisiti, fra torturatori e torturati.
Le perversioni venivano “suggerite” dai torturatori e fatte proprie dalle torturate con un dispiego di fantasia che lascia stupefatti e ammirati.
“Caterina aveva già confessato” in casa del senatore Melzi. Ma fu torturata ancora dal Santo Ufficio. Non per sapere il vero. “Il Senato e la Curia non volevano la verità, volevano creare un mostro che perfettamente si attagliasse al grado più alto di consustanziazione diabolica, di professione del male di cui i manuali di demonologia, classificandoli e descrivendoli, deliravano. Si voleva insomma costringere Carolina, coi tormenti, a uguale delirio. E Caterina non può che accontentarli”. 
Caterina continua infatti a raccontare storie di repertorio, come un personaggio dell'”Enrico IV” o del “Come tu mi vuoi”, in una adesione recitata e innocente allo stesso tempo, alla crudele volontà sociale del suo ambiente. Come se dicessero: tu vuoi che io sia questo e lo sarò ma con molta più immaginazione, più intelligenza, più imprevedibilità di quanto tu non ti aspetti, fino a sorprenderti sul tuo stesso terreno e così farti testimone passivo della mia grandezza.
Spesso libri fulminanti questi di Sciascia, lavorati a lungo nel pensiero, scritti rapidamente nei mesi estivi a Racalmuto, come lui stesso ha ripetuto più volte. Libri che dilatano miracolosamente la realtà più minuta. Scene dipinte su una capocchia di spillo. Ma talmente vive da apparire a grandezza naturale. Vicino in questo procedimento a Borges, di cui amava lo stile indagatorio nei confronti delle zone dimenticate della storia, nei confronti dei Nomi che costituiscono la rete simbolica del tempo, nei confronti dei lapsus della storiografia ufficiale, pur non condividendo il suo platonismo e la sua geniale fumisteria.
Con Sciascia perdiamo una parte della Sicilia migliore, quella che sa giudicare con lucidità anche i mali più vicini, quella che sa riconoscere i propri errori e cambiare idea nel mezzo di una battaglia per puro amore della verità, quella che sa rimboccarsi le maniche e “andare a vedere” anche per conto di chi è troppo pigro o troppo impaurito per farlo.

(da l'Unità, 22 novembre 1989)

1 commento:

  1. Antonio Corrado: altri tempi, altri intellettuali, altra "L'Unita'"

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