E' stato il più
grande poeta caraibico, spesso paragonato ad Omero per la serena
classicità dei suoi versi. Di sé diceva: Sono solo un negro dai
capelli rossi che ama il mare.
Raffaella De Santis
È morto Derek
Walcott, poeta dei versi meticci
Era il poeta dei confini,
dei versi meticci. Diceva di stare “tra la Grecia e il pantheon
africano”. Derek Walcott è morto all’età di 87 anni nella sua
abitazione sull’isola caraibica di Santa Lucia, dove era nato il 23
gennaio 1930, nella città di Castries. Era cresciuto in quella
piccola isola vulcanica, sentendosi sempre un essere di frontiera, un
meticcio dagli occhi verdi, “né abbastanza nero, né abbastanza
povero”.
Il suo destino sembra scritto nella storia dell’isola e della sua famiglia. Quando era bambino la madre Alix declamava Shakespeare dentro casa. Del padre invece, che aveva perso quando aveva un anno, gli era rimasta una biblioteca, ricca di libri di poesia. È lì che aveva scoperto Walt Whitman, la leggera musicalità delle Foglie d’erba. Iniziò presto, seguendo un istinto infantile a scrivere versi. Una poesia al giorno. Cercava di imitare lo stile dei grandi, Whitman, Milton, Auden. E poi, più tardi, Dante, Joyce, Eliot. Si esercitava attraverso l’imitazione, come farebbe un pittore di bottega. La sua poesia nasceva da questo impulsivo e paziente artigianato.
Così quando poi era
andato a insegnare a Boston, ai suoi allievi aveva cercato di
spiegare una cosa spesso sottovalutata, che nella poesia la tecnica è
fondamentale: “Bisogna imparare il mestiere, maneggiare gli schemi.
Bisogna esercitarsi misurandosi con gli schemi degli elisabettiani e
di Milton, con l’esuberanza di Omero e l’esattezza di Pope”.
Per lui i modelli erano stati i grandi poeti della tradizione
occidentale. Tra le sue opere più importanti c’è Omeros (scritta
nel 1990 e in Italia pubblicata da Adelphi) in cui Walcott fa
rivivere la forma del poema epico contaminandola con le storie
caraibiche dell’isola di Santa Lucia. Non risparmiando il passato
coloniale. Santa Lucia era stata una colonia britannica e questo
aspetto influenzò la vita e il lavoro di Walcott.
Eppure, nonostante fosse la lingua coloniale, scelse di scrivere in inglese. Un inglese limpido, elegante. Ma la scelta non voleva dire sudditanza, semmai rimarcava la sua estraneità a qualsiasi appartenenza. “Sono nessuno” diceva. La sua era una storia di schiavi deportati dall’Africa, dolorosamente impastata di identità multiple, frammentate. E non tornò indietro dalla scelta di scrivere in inglese, neanche quando negli anni Settanta il movimento nero Black Power provò a criticarlo. Walcott rispose a modo suo, con un verso: “Non ho altra nazione che l’immaginazione”.
Fu Josif Brodskij, suo
grande amico, a capire quanto importante fosse la sua poesia e a
difenderlo dalla visione riduttiva di poeta caraibico. Prima che gli
venisse assegnato il Nobel per la letteratura, nel 1992, Brodskij
attaccò “la ritrosia dei signori critici ad ammettere che il
grande poeta della lingua inglese è un nero”.
Walcott aveva
pubblicato la sua prima raccolta di versi a 19 anni. S’intitolava
semplicemente Poems e già c’era il suo stile: grande
musicalità, amore per i paesaggi, nuvole, spiagge. Insomma, i
Caraibi. Ai quali poi avrebbe aggiunto considerazioni storiche, sul
passato coloniale dell’isola, e anche meditazioni metafisiche.
Nel 1962 pubblicò In
a Green Night. Tra i suoi libri più belli ci sono: The Castaway
and Other poems (1965), The Gulf (1970), Another
Life (1973). In italiano sono disponibili, tra gli altri: Mappe
del nuovo mondo, Egrette bianche, La voce del
crepuscolo, Prima luce e Il levriero di Tiepolo (tutti
pubblicati da Adelphi).
Forse però per capire
chi era Walcott conviene citare qualche suo verso. Il suo
autoritratto più bello lo regala lui stesso: “Io sono solamente un
negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale,
/ ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono
nessuno, o sono una nazione”.
http://www.repubblica.it/
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