Esce in una nuova
traduzione, da Fazi, il saggio del 1882 «Che fare, dunque?», dove
Tolstoj denuncia le condizioni di vita del proletariato urbano
russo. Come per il più famoso libro di Lenin (che non scrive nei
“medesimi anni” visto che allora ne aveva poco più di dieci,
ma due decenni più tardi e in una Russia molto diversa) il richiamo è al capolavoro di
Cernysevskij che dal 1862 fu il libro di formazione di almeno due
generazioni di intellettuali rivoluzionari russi.
Valentina Parisi
Viaggio nei bassifondi
dove la rivoluzione è una risposta tardiva
In un giorno imprecisato
dell’autunno 1901 Anton Cechov confidò a Ivan Bunin riferendosi a
Lev Tolstoj: «…quello che più mi colpisce in lui è il disprezzo
che nutre per noi scrittori. Ci considera dei bambini. Per lui i
nostri racconti, le novelle, i romanzi sono solo giochi puerili».
Con la sua innata sensibilità, Cechov coglieva un aspetto della
cosiddetta «conversione» tolstoiana, forse meno visibile di altri,
ma non per questo meno essenziale, e cioè quella critica spietata
che, a partire dai primi anni ottanta, il conte di Jasnaja Poljana
aveva indirizzato non solo verso il proprio ceto, ma anche e
soprattutto nei confronti dei suoi colleghi letterati.
Una polemica ispirata non
tanto da motivazioni di ordine estetico, quanto da una consapevolezza
ben più radicale e tragica della vanità che si cela spesso dietro
l’ambizione di scrivere. Tali recriminazioni sembravano
paradossalmente ingiustificate alla luce dei rinnovati interessi
sociali dimostrati dagli scrittori russi dopo l’abolizione della
servitù della gleba nel 1861. Eppure le argomentazioni di Tolstoj –
nate da una crisi esistenziale molto acuta – scavavano ben più in
profondità, fino a minare le basi stesse su cui si fondava
l’esistenza dell’intelligencija in quanto classe a se stante.
Com’è possibile
infatti pensare di ammaestrare il popolo, se non si condivide con lui
la stessa disperata lotta quotidiana per la sopravvivenza? Che
diritto ha l’intellettuale di sottrarsi alla fatica fisica in nome
di una sua presunta eccezionalità? E come possono artisti, pensatori
o scienziati cambiare davvero le cose, se per primi, pur di potersi
dedicare in tutta tranquillità alla ricerca o alla creazione,
sfruttano senza nemmeno rendersene conto gli sforzi di chi li sfama?
Interrogativi
impietosi che l’autore poneva a se stesso, ancor prima che agli
altri, e che emergono in tutta la loro urgenza in Che fare, dunque?,
riproposto ora da Fazi dopo una lunga assenza dagli scaffali nella
nuova traduzione di Flavia Sigona (pp. 246, euro 20,00). Composta
intorno al 1882, questa serrata disamina delle circostanze che
determinano le diseguaglianze e l’ingiustizia sociale proietta sul
piano collettivo quel che nella Confessione, scritta poco prima, era
sofferta analisi interiore e discesa senza infingimenti nel proprio
io.
Il punto di partenza è,
ancora una volta, un dato di natura biografica: «Mai, in vita mia,
avevo abitato in città. Quando nel 1881 mi trasferii a Mosca, restai
stupito di fronte alla miseria urbana: conoscevo la povertà nelle
campagne, ma quella cittadina era per me nuova e incomprensibile».
Questo sbigottimento trapela in modo evidente dalle pagine in cui lo
scrittore lascia a piedi la sua residenza di Chamovniki per vagare
nei sobborghi operai, fino a raggiungere i luoghi più malfamati
della Mosca proletaria, come il mercato della Chitrovka o il
dormitorio Ljapin, descritti qualche anno dopo da Vladimir
Giljarovskij nelle sue cronache di «nera» e nei suoi bozzetti.
Ma, a differenza di
Giljarovskij, Tolstoj è totalmente immune da qualsiasi compiacimento
naturalista, da qualunque concessione, seppur inconsapevole, al
fascino oscuro dei bassifondi. Prevale piuttosto un disorientamento
che si traduce prima in incredulità e poi in vergogna, di fronte
allo stridente contrasto con le proprie sfarzose condizioni di vita.
Se la prima, istintiva reazione sarà donare ai bisognosi quel che
Tolstoj chiama «il mio stolido denaro», di lì a breve il
romanziere si renderà conto che la carità resta fine a se stessa se
non si accompagna a una più ampia riflessione sulle cause economiche
e sociali che determinano la diseguaglianza, nonché a un radicale
ripensamento dei propri comportamenti.
L’autore punta dunque il dito contro il principio della divisione del lavoro che ha sollevato intere classi (l’aristocrazia e l’intelligencija innanzitutto) dalla necessità dello sforzo fisico, finendo così per aggravare le condizioni di asservimento e di miseria in cui versa il popolo. Ricorrere il meno possibile alla manodopera altrui e svolgere da sé gran parte delle azioni indispensabili per provvedere a se stessi e ai propri cari diventa, in questa ottica, la conditio sine qua non per mettere fine allo sfruttamento e procedere alla ridistribuzione dei beni.
Il quadro che Tolstoj disegna dopo le sue incursioni nei bassifondi non è dunque particolarmente dissimile da quello tracciato nei medesimi anni da Lenin. L’emancipazione dei contadini dal giogo del servaggio non solo non ha significato l’eliminazione della schiavitù, ma ha portato a un massiccio fenomeno di inurbamento, con il conseguente passaggio da strategie feudali di asservimento a quelle che caratterizzano la moderna società capitalistica.
A questo proposito,
stupefacente è l’intuizione tolstoiana dell’inevitabilità di
una rivoluzione operaia, ribadita anche nei diari: «La rivoluzione
non è ciò che può accadere, bensì ciò che non può non accadere.
Ed è sorprendente che non sia già scoppiata». Ed è proprio questa
prospettiva a rendere ancora più urgente la necessità di un
rinnovamento radicale delle coscienze che Tolstoj interpreta nel
senso del precetto evangelico: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi
non ne ha e chi ha del cibo faccia lo stesso».
Logico corollario di
questa metamorfosi è il nuovo ruolo attribuito all’uomo di
cultura, scalzato dal suo piedestallo e richiamato al dovere del
lavoro manuale. Solo la rinuncia alla sua posizione di immeritato
privilegio consentirà all’artista di creare opere comprensibili a
tutti, perché dettate non dall’ambizione, bensì da una reale
necessità interiore.
Spinto dal proprio
insopprimibile massimalismo etico, Tolstoj consegna dunque ai posteri
una visione dell’arte in cui il valore estetico è una diretta
emanazione non del talento, bensì della purezza della propria
posizione ideologica. Un programma che, per il tramite di Gor’kij e
Lunacarskij, verrà ripreso dal realismo socialista e che negli anni
novanta dell’Ottocento avrebbe fatto esclamare a uno sconsolato
Cechov che per Tolstoj Maupassant o un Semenov qualsiasi sono la
stessa cosa.
il manifesto/Alias - 5
marzo 2017
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