I diari di Marlon Brando
Goffredo Fofi
Pacchi
di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di
Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e
un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di
lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La
preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di
cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile
andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la
pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, trai
fatti della società e quelli della coscienza
Il
film Listen to me Marlon - rispettoso e intelligente - che Steven Riley
e il suo gruppo di collaboratori hanno costruito a partire dalle
confessioni di Brando, da questa mole di materiale, è il tentativo di
mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore,
di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un
uomo celebrato e chiacchierato, che per decenni è stato al centro
dell’attenzione dei media e dell’interesse degli spettatori. Ma non si
tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti
duraturi dello show business e della mass culture statunitense, di
conseguenza un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce
per suggerire - e non importa se questo era nelle sue intenzioni - è
molto di più, e questo di più è Brando stesso a indicarlo, nelle sue
confessioni registrate, presumibilmente a futura memoria. L’attore vi
cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo
aver arricchito, dice, centinaia di psicanalisti e psichiatri (e, anche
se non lo dice, guru d’altro genere) e si confronta con Dio, che ci sia o
non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il
bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli.
Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata,
di un padre macho e violento che è stato a sua volta figlio di un padre
che non lo ha amato, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli
anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che
si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actor's Studio da
allievo, ci dice il film, più di Stella Adler, figura materna protettiva
ma esigente, che non di Lee Strasberg o di quell’Elia Kazan che lo
porterà al successo in teatro e in cinema affidandogli il ruolo
dell’istintivo Stanley Kowalski nel Tram che si chiama Desiderio. Da
parte del pubblico giovanile venne allora venerato appena un po’ meno di
James Dean e un po’ più di Montgomery Clift, e alla pari con l’unica
giovane attrice che poté eguagliare la loro fama, Marilyn Monroe, che
cadde molto prima di lui, distrutta, si può ben dire, dalla nemesi del
successo che distruggerà solo più lentamente la vita di Brando.
Una
fama eccessiva impedisce una vita normale, è ben noto, anche e forse
soprattutto se la si è cercata, voluta. Ecco dunque i trionfi di Marlon
attore nuovo, che impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e
un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza
fisica si impone insieme all’introspezione più accanita. Diventa il
segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore con
una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram,
Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio e dopo anni di sciocchezze e
rare buone interpretazioni per Penn o Huston, Il padrino e Apocalypse
Now ovvero “the horror”, di Coppola, e quell’Ultimo tango a Parigi in
cui Bertolucci lo guidò a essere e fare se stesso, a svelarsi e
scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un
incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive
pratiche psicanalitiche. (Tentò anche la regia, e il film era buono
anche se non lasciò molta traccia e Riley non ne parla, così come non
parla dell’interesse di Brando per avere nel cinema un erede in Johnny
Depp, che, tradito dalla critica quando tentò a sua volta la regia,
tradì il suo mentore ed è oggi una qualsiasi pallida maschera del
conformismo hollywoodiano.)
Fu
il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e
il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava,
anzitutto il denaro. È accaduto tante altre volte e accadrà ancora e
sempre, nel contesto capitalistico dell'american way of life e della
società dello spettacolo, è la condanna degli "arrivati”, destinati così
spesso a fini ingloriose e addirittura tragiche.
Quel
che però ricaviamo da questo film, e più che dal film dalle confessioni
di Brando a se stesso ma nell’ovvia speranza che qualcuno prima o dopo
potesse ascoltarle, è che egli, nonostante gli ovvi processi di
autogiustificazione, fu - almeno nei suoi ultimi anni e dopo tante
tragedie famigliari e una vecchiaia ingloriosa, e la perpetrata, e se
conscia o inconscia è secondario, autodistruzione della propria immagine
fisica - una persona molto più intelligente di quanto non si potesse
pensare. Per questo il film di Riley è un giusto complemento alla
visione dei suoi film migliori, e la dimostrazione che Brando è stato la
tragica vittima di una cultura dell’ego e della fama, a lungo
consenziente e alla fine spietatamente cosciente del proprio fallimento e
della difficoltà di trovare risposta alle domande, metafisiche come
sociali, che non angosciano gli stupidi soltanto fin quando pensano di
essere più forti della condizione comune e della comune, umana
fragilità.
Da “Il Sole 24 ore – domenica”, 15 novembre 2015
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