30 marzo 2017

MARLON BRANDO VISTO DA GOFFREDO FOFI




I diari di Marlon Brando

Goffredo Fofi

Pacchi di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, trai fatti della società e quelli della coscienza
Il film Listen to me Marlon - rispettoso e intelligente - che Steven Riley e il suo gruppo di collaboratori hanno costruito a partire dalle confessioni di Brando, da questa mole di materiale, è il tentativo di mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore, di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un uomo celebrato e chiacchierato, che per decenni è stato al centro dell’attenzione dei media e dell’interesse degli spettatori. Ma non si tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti duraturi dello show business e della mass culture statunitense, di conseguenza un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce per suggerire - e non importa se questo era nelle sue intenzioni - è molto di più, e questo di più è Brando stesso a indicarlo, nelle sue confessioni registrate, presumibilmente a futura memoria. L’attore vi cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo aver arricchito, dice, centinaia di psicanalisti e psichiatri (e, anche se non lo dice, guru d’altro genere) e si confronta con Dio, che ci sia o non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli. Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata, di un padre macho e violento che è stato a sua volta figlio di un padre che non lo ha amato, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actor's Studio da allievo, ci dice il film, più di Stella Adler, figura materna protettiva ma esigente, che non di Lee Strasberg o di quell’Elia Kazan che lo porterà al successo in teatro e in cinema affidandogli il ruolo dell’istintivo Stanley Kowalski nel Tram che si chiama Desiderio. Da parte del pubblico giovanile venne allora venerato appena un po’ meno di James Dean e un po’ più di Montgomery Clift, e alla pari con l’unica giovane attrice che poté eguagliare la loro fama, Marilyn Monroe, che cadde molto prima di lui, distrutta, si può ben dire, dalla nemesi del successo che distruggerà solo più lentamente la vita di Brando.
Una fama eccessiva impedisce una vita normale, è ben noto, anche e forse soprattutto se la si è cercata, voluta. Ecco dunque i trionfi di Marlon attore nuovo, che impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza fisica si impone insieme all’introspezione più accanita. Diventa il segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore con una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram, Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio e dopo anni di sciocchezze e rare buone interpretazioni per Penn o Huston, Il padrino e Apocalypse Now ovvero “the horror”, di Coppola, e quell’Ultimo tango a Parigi in cui Bertolucci lo guidò a essere e fare se stesso, a svelarsi e scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive pratiche psicanalitiche. (Tentò anche la regia, e il film era buono anche se non lasciò molta traccia e Riley non ne parla, così come non parla dell’interesse di Brando per avere nel cinema un erede in Johnny Depp, che, tradito dalla critica quando tentò a sua volta la regia, tradì il suo mentore ed è oggi una qualsiasi pallida maschera del conformismo hollywoodiano.)
Fu il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava, anzitutto il denaro. È accaduto tante altre volte e accadrà ancora e sempre, nel contesto capitalistico dell'american way of life e della società dello spettacolo, è la condanna degli "arrivati”, destinati così spesso a fini ingloriose e addirittura tragiche.
Quel che però ricaviamo da questo film, e più che dal film dalle confessioni di Brando a se stesso ma nell’ovvia speranza che qualcuno prima o dopo potesse ascoltarle, è che egli, nonostante gli ovvi processi di autogiustificazione, fu - almeno nei suoi ultimi anni e dopo tante tragedie famigliari e una vecchiaia ingloriosa, e la perpetrata, e se conscia o inconscia è secondario, autodistruzione della propria immagine fisica - una persona molto più intelligente di quanto non si potesse pensare. Per questo il film di Riley è un giusto complemento alla visione dei suoi film migliori, e la dimostrazione che Brando è stato la tragica vittima di una cultura dell’ego e della fama, a lungo consenziente e alla fine spietatamente cosciente del proprio fallimento e della difficoltà di trovare risposta alle domande, metafisiche come sociali, che non angosciano gli stupidi soltanto fin quando pensano di essere più forti della condizione comune e della comune, umana fragilità.

Da “Il Sole 24 ore – domenica”, 15 novembre 2015

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