Queste foto riprendono il trentenne Danilo Dolci in alcune fasi del processo per direttissima che subì nel 1956 per aver organizzato il suo primo "sciopero alla rovescia". Accanto a Danilo, Piero Calamandrei e Nino Sorgi, suoi avvocati di difesa nel corso del processo.
Danilo e Carlo Levi
Devo a Danilo Dolci e a Leonardo Sciascia quasi tutto quello che so sulla Sicilia e sulla mafia. Col primo ci ho anche lavorato per due anni, nella metà degli anni settanta, e ho avuto così modo di conoscerlo meglio. Lo scrittore di Racalmuto, invece, l'ho conosciuto solo attraverso i suoi libri che non mi stanco mai di leggere e rileggere.
I due non si sono mai amati, eppure sono stati tra i primi a parlare e a scrivere di mafia. Lo hanno fatto con stile e modi assai diversi, tra loro, eppure hanno finito per sostenere le stesse cose. Peraltro scrivevano nello stesso giornale, L'ORA, diretto da Vittorio Nisticò. E quest'ultimo, al riguardo, qualche anno fa ha detto tutto quello che c'era da dire.
Oggi mi piace ricordarli insieme perchè, durante il corso della loro vita, si sono trovati sempre a scrivere contro il potere.
Danilo Dolci, specialmente nei suoi primi vent'anni d'impegno in Sicilia, ha creduto fermamente a quello che faceva. Danilo era un uomo di fede e credeva nella forza delle idee.
Leonardo Sciascia, da buon siciliano, non è mai stato un uomo di fede. Ed ha sempre avuto un debole per tutte le forme di eresia. Una forma sottile di scetticismo lo ha accompagnato per tutta la vita e la sua opera ne porta più di un segno. Eppure, in fondo, anche lui credeva nelle idee. Si rammaricava, infatti, del fatto che i siciliani ci credessero poco, a tal punto da scrivere:
"Qui non si è mai creduto che le idee muovano il mondo. Ci sono naturalmente delle ragioni, ragioni di storia, di esperienze. Ma la ragione che ha impedito alla Sicilia di andare avanti è il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato. [...] in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo – è un giudizio per cui io mi batto da sempre – è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee."
fv
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