Bestie di scena. Una conversazione con Emma Dante
«Quando in Mpalermu ho raccontato la storia dei Carollo», dice Emma Dante, «una famiglia misera e sgangherata che si prepara per uscire senza varcare mai la sogliadi casa, la scena era spoglia ma c’erano dei legamie una piccola storia». I quattordici corpi –«Non attori», ribadisce più volte – che si muovono per il palco nero di Bestie di scena condividono con i Carollo una condizione, o meglio un’ossessione: «Non possono stare all’interno della scena vuota, ma non possono neppure andare via. Anche perché un fuori non esiste, al di là di quel perimetro inospitale non c’è nulla». Dunque si abita nell’inabitabile, e non essendoci più la famiglia i legami vengono meno, i corpi sono centrifughi e si smarriscono. «Diversamente da come ho proceduto negli altri spettacoli, sempre calibrando ogni movimento per comporre sulla scena geometrie, stavolta chi è sul palco è libero di stare dove vuole, mobile e perduto». Ne viene fuori uno sciamare anarchico di corpi-particelle, un pulviscolo di carne.
«Quando dalle quinte vengono scagliati in scena dei petardi» – per l’intero spettacolo due attori invisibili disseminano lo spazio di minacce, sempre in forma di materia concreta – «ho esplicitamente domandato di non teatralizzare la paura e i tentativi di difesa». Così si elimina l’affettazione che è propria del mattatore che domina il palco; a questi corpi ipersensibili tocca invece avere a che fare con un luogo variamente dispettoso, ironicamente vessatorio e indomabile. Tanto che la sensazione è di trovarsi davanti averi e propri organismi, creature tragicomiche che vivono in uno stato di perenne inermità.«Tutto ciò fa di Bestie di scena il mio spettacolo più libero e allo stesso tempo il più fragile, un corpo cagionevole che per uno spiffero può finire allettato con la febbre a quaranta. E non si tratta di una metafora ma di quanto è accaduto durante le prove e continuerà ad accadere quando lo spettacolo debutterà».
Una vulnerabilità che non si dà come rischio bensì come condizione se non addirittura come bisogno. Ciò che allora va fatto è togliere, ridurre: letteralmente spogliare. «La prima immagine di Bestie di scena coincide con dei corpi nudi in unospazio vuoto. Questa è l’origine, ciò a cui non potevo rinunciare, ho passato un anno per dare forma a questa visione». Un anno di lavoro condiviso con gli attori della compagnia. Molti silenzi, altrettanta pazienza. Soprattutto nessuna volontà di provocare: «Tanto più che non amo il nudo in teatro, mi mette a disagio». Finché è diventato chiaro che centrale non era il nudo bensì il denudamento: «La cosa più bella è stata scoprire la sparizione dell’enfasi che di solito accompagna il denudarsi estremo: ciò che abbiamo fatto è stato portarlo a qualcosa di prosaico».
Sempre procedendo «per assenze ed essenze», si è arrivati a fare a meno di ogni dialogo. «In questa microcomunità di imbecilli» – l’in-baculum è chi, senza il sostegno di un bastone, è disarmato – «nessuno ha qualcosa da comunicare». Se ogni corpo è imprigionato in un sistema di movimenti («Così come ognuno è imprigionato nel suo talento») ed è impegnato, con gli altri corpi, a fare e poi a disfare ciò che si è fatto e a rifare quanto si è disfatto (e quindi se si bagna si asciuga, se si sporca si pulisce, in un ciclo potenzialmente inesauribile), le parole non servono. A imporsi, tanto da far percepire Bestie di scena come uno strumento che nel sottrarre distilla, sono allora gli sguardi: quelli dei corpi in schiera sul limite del palco, quando scegliendo di non aggrapparsi al relitto dei vestiti accolgono il naufragio come unica condizione possibile – sguardi in cui leggiamo la supplica, il rimprovero, ma soprattutto una sbalordita delusione; e poi gli sguardi degli spettatori, di colpo concretissimi, una sostanza fisica che ha un peso e ha un volume.
Quando poi i nostri occhi riconoscono posture e movimenti che provengono da Mpalermu, La scimia, Le pulle, Le sorelle Macaluso, all’improvviso ci rendiamo conto che il luogo in cui siamo penetrati attraverso Bestie di scena è la caverna dell’immaginazione di Emma Dante, e che quanto abbiamo visto è anche il catalogo delle sue ossessioni. La sua casa dei fantasmi. E allora ce ne restiamo in silenzio a guardare quei corpi eternamente intrappolati nella scena, nel trauma ein una strana disperata tenerezza, avvertendo che l’umano è questa cosa che non sa, desidera, teme, tenta, barcolla, si aggira, si ferma e ci guarda. Così, preistorico e presente. Nudo di parole. Nient’altro che una bestia di scena.
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