Quest’anno ricorrono
i sessant’anni del suo famoso «Il lavoro culturale», un testo
ancora attuale.Un percorso di letture ne ricorda lo spessore umano e
intellettuale. Dalle lotte operaie alle preziose traduzioni, fu
oppositore critico e infaticabile dei facili entusiasmi.
Velio Abati
Luciano Bianciardi.
Quella vita agra di un “fuoriposto”
Michel David, l’autore
del monumentale studio sulla Psicoanalisi nella cultura
italiana, mi descrisse in un colloquio Luciano Bianciardi nei termini
di un «cinghiale selvaggio» della sua Maremma. Per contro, Enzo
Jannacci, nell’affettuoso ritratto consegnato al regista Francesco
Falaschi, nel cortometraggio della sua biografia bianciardiana, Addio
a Kansas City, dice dello scrittore: «sembrava un impiegato di
banca».
I due giudizi forse
meglio di altro sintetizzano il fuori posto, da cui il grossetano
emigrato a Milano si è trovato a vivere. Se all’uomo di spettacolo
che cantava degli eroi strampalati della «Banda dell’ortica»
appariva troppo borghese, al fine letterato appariva eccentrico per
motivi opposti.
La sua condizione di
isolato non è separabile dalla sua fedeltà al mondo dei terrazzieri
e dei minatori grossetani e insieme dal senso di colpa per la propria
impotenza e la propria inadeguatezza, nel travolgimento della vita e
dei costumi della intensa innovazione capitalistica del dopoguerra.
È da questa sua
posizione che all’uomo derivò presto l’isolamento e poi la
disperazione, mentre allo scrittore ne è venuta una fortuna
intermittente. La sua bibliografia si arricchisce ora, in brevissimo
lasso di tempo, di tre monografie. Arnaldo Bruni raccoglie «scritti
nati perlopiù in servizio di convegni e seminari» nel volume «Io
mi oppongo». Luciano Bianciardi garibaldino e ribelle (Aracne,
pp.150, euro 12). Il volumetto compone un agile ritratto dello
scrittore, a partire dal periodo giovanile a Grosseto, con
particolare attenzione a Bianciardi e il cinema e al Lavoro
culturale.
DEL PERIODO MILANESE,
oltre alla Vita agra, viene soprattutto messa a fuoco, come
indicato dal titolo stesso del saggio, la passione «garibaldina» di
Bianciardi per il Risorgimento visto, dice Bruni, come «premessa
della modernità». Nell’ampio capitolo Bianciardi
garibaldino, lo studioso indaga sia le anticipazioni del tema nella
narrativa del Lavoro culturale e dell’Integrazione, sia le
inclusioni autobiografiche. Inoltre, si sofferma su Da Quarto a
Torino per mostrarvi le riprese, che vanno dai garibaldini diventati
scrittori Giuseppe Bandi e Giuseppe Cesare Abba, a scrittori come
Ippolito Nievo e Alessandro Manzoni.
In quella che forse è
stata la prima tesi di laurea su Bianciardi, a tre anni dalla morte,
Ermenegildo Saglio raccolse da Carlo Cassola, che per un quinquennio
aveva lavorato fianco a fianco con Bianciardi, un’intervista in cui
osservò persuasivamente che quando Bianciardi metteva mano alla
penna, lo faceva sempre per prendere una posizione critica verso
costumi e condizioni del presente. Non sorprende, dunque, che
anche Carlo Varotti riproponga fin dal titolo del suo studio questa
nota dominante: Luciano Bianciardi, la protesta dello
stile (Carocci, pp. 307, euro 23). L’ampia monografia offre
uno sguardo complessivo e ravvicinato dell’opera dello scrittore.
COME INDICA in modo
trasparente lo stesso titolo, il fuoco dell’indagine è ricercare
nelle caratteristiche dello stile bianciardiano, nel modus operandi
della sua pagina – sia essa narrativa, giornalistica, manualistica
o diaristica – lo spazio e l’azione della propria opposizione
critica.
Per questa ragione, per
esempio, dell’enorme mole traduttoria portata a termine da
Bianciardi con la collaborazione della compagna Maria Jatosti, lo
studioso spiega di far ricorso solo ad alcune opere che abbiano
«lasciato tracce individuabili (fatte di temi o di modelli di stile)
nei romanzi». E sempre per questa ragione la stessa ricostruzione
del contesto sociale, politico e culturale è da Varotti assunta come
materiale convogliato nella pagina bianciardiana.
UNA SCELTA NETTA, una
rotta che non manca di marcare la propria linea di confine anche
attraverso la polemica aspra contro «il facile entusiasmo di chi ha
voluto farne il testimone incorrotto e sventurato di una generazione
e di una crisi epocale, l’acuto sociologo che ha capito per primo
(anche questo capita di leggere) le dinamiche occultamente persuasive
e pericolosamente omologanti del neocapitalismo».
L’indagine di Varotti, collocando Bianciardi tra gli autori del postmoderno, conduce a individuare nel parodismo, ossia nella ri-scrittura deformante, che si dispone in una ricchissima gamma di sfumature, dal grottesco al falsetto, dalle vesti della citazione dissimulata a quelle del falso candore, la cifra specifica dello stile bianciardiano e quindi della sua opposizione critica.
DIVERSAMENTE, la
monografia di Elisabetta Francioni si presenta come studio di un
periodo e di un’attività particolari: Luciano Bianciardi
bibliotecario a Grosseto (1945-1954) (Associazione Italiana
Biblioteche, pp.175, euro 30). Tuttavia, robustamente incardinato
com’è su una minuta e sistematica ricerca d’archivio e sorretto
dalla competenza dell’arte biblioteconomica, lo studio segna una
tappa salda negli studi bianciardiani.
L’aderenza rigorosa
alle fonti, il loro collegamento sicuro al contesto complessivo, nel
mentre che sgombrano il terreno da tanti miti fasulli e falsi
testimoni, approdano a una diversa e più convincente interpretazione
dello scrittore.
L’argomentare pacato e sempre rigoroso di Francioni dimostra che la biblioteca comunale Chelliana, riportata in vita da Bianciardi dopo un’alluvione e i bombardamenti della seconda guerra mondiale, non solo non è stata per lui una sinecura, ma che vi ha intensamente lavorato per farne strumento di crescita culturale e civile a fianco delle classi subalterne grossetane, in collaborazione convinta, non acritica, con i partiti che li rappresentavano: i comunisti e i socialisti.
L’AMORE PER LO
SBERLEFFO, per la sprezzatura ironica, propri dell’uomo e della sua
pagina, erano la faccia esibita dell’infaticabile lavoro
quotidiano, dell’impegno intellettuale e della tensione morale per
costruire una città più civile e democratica, a partire dalle
condizioni dei minatori e dei contadini.
Lo studio rende palese perché, ancora nella postfazione del 1964 al Lavoro culturale, l’autore scriva: «eppure Kansas City è una città tremendamente seria, e io ci torno ogni volta con un po’ di magone e parecchio rimorso».
LA RICOSTRUZIONE storica
di Elisabetta Francioni contribuisce a chiarire che, per non
fraintendere il profilo intellettuale e la voce di Bianciardi, è
necessario non perder di vista la scissione tra la sua età di
scrittore – dall’abbandono di Grosseto alla morte milanese, da Il
lavoro culturale ad Aprire il fuoco – e quella della sua formazione
sentimentale del periodo grossetano, il cui lascito più rilevante è
la ricostruzione della biblioteca Chelliana e I minatori della
Maremma redatti con Cassola l’opera più importante.
Di più: tutta la carica
corrosiva fino all’iperbole, capace di mettere a nudo gli ottimismi
sciocchi, i cinismi aggressivi, le disumanizzazioni nel dispiegarsi
della società dei consumi, propri della sua narrativa maggiore, non
avrebbe letteralmente potuto prender vita senza il contrappunto del
periodo grossetano.
Contrappunto con gli anni semmai mitizzato e del tutto consentaneo con l’altro mito della sua infanzia, di suo padre e di nuovo prossimo alla cultura comunista: il Risorgimento mazzinian-garibaldino.
Il manifesto – 2 marzo
2017
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