Eliot, un poeta profeta e i suoi parassiti
Gian Maria Annovi
Nell'ottobre del 1922,
mentre migliaia di fascisti marciano verso Roma, in pochi sospettano
che sotto i loro piedi la terra abbia iniziato lentamente a muoversi,
allontanandosi - come una scheggia d'isola alla deriva - dal resto
dell'Europa, in un progressivo processo d'isolamento e inaridimento
sociale e politico, culminato in vent'anni di dittatura e nel secondo
conflitto mondiale. La storia è nota. Meno noto è che quello stesso
mese, sul primo numero della rivista londinese “Criterion” viene
pubblicato un testo di poco più di quattrocento versi destinato a
rivoluzionare, in ben altro modo, le sorti del panorama culturale
europeo e a «indicare una direzione» - scriverà anni dopo Eugenio
Montale - anche a molti poeti italiani: si tratta di La terra
desolata di T. S. Eliot. Per Montale, che solo tre anni dopo
pubblica Ossi di seppia, in tale momento storico proprio Eliot
rappresenta, insieme a Valéry, «una presa di contatto con l'alta
tradizione europea». Eliot è insomma una delle àncore con cui
l'Italia, nei modi piuttosto ctonii della poesia, si è mantenuta
legata al continente in un momento di deriva.
In quel titolo, La terra desolata, la cui ormai consueta traduzione italiana il poeta Giorgio Caproni sentiva, e con finezza d'orecchio, in qualche modo limitante rispetto all'originale The Waste Land, sembra echeggiare il «paese guasto» di cui parla Dante nell'Inferno, volgarizzando a sua volta l'antico francese terre gaste, cioè il territorio devastato e sterile che nei poemi epici del Medioevo era compito dei cavalieri attraversare per ritrovare il Graal, uno dei simboli centrali del poemetto eliotiano. In un certo qual modo, insomma, Eliot non ha descritto semplicemente il raggiunto paesaggio interiore dell'uomo insterilito e svuotato dall'assurdità e dall'orrore della prima guerra mondiale. O lo stagnante male interiore destinato a diventare l'oscuro protagonista di tanta letteratura del primo Novecento. Al contrario, Eliot ha parlato - e qui si trova forse una parziale ragione del prolungato successo di questo testo, ben oltre il riconoscimento del Nobel, nel 1948 - di un futuro, di un viaggio ancora da compiere. Eliot ha insomma vaticinato la devastazione di un paesaggio reale, quello che l'irrazionalismo dei totalitarismi occidentali avrebbe costretto milioni di uomini e donne ad attraversare, come fragili cavalieri senza scarpe e senza speranza di ritorno.
Che a fare da protagonisti di questo dialogo drammatico a più voci siano, tra gli altri, un'improbabile cartomante, Madame Sosostris, e il più celebre indovino dell'antichità (un Tiresia dietro le cui fattezze si cela la figura del poeta), non sembra dunque troppo inopportuno: ad essere predetto è infatti un orizzonte di tragedia e di morte, la stessa che - nell'epigrafe inaugurale al poemetto - augura a se stessa la sibilla del Satyricon di Petronio, quando interrogata sui suoi desideri. Raramente, si potrebbe dire, un così algido pessimismo ha saputo generare maggiore entusiasmo, tanto che la critica è concorde nel considerare proprio La terra desolata come il vero capolavoro di Eliot, oltre che uno dei testi fondamentali del modernismo, soprattutto se paragonato alle pur mirabili meditazioni liriche dei Quattro quartetti (1943), scritti quando la conversione al cattolicesimo anglicano aveva fatto del poeta rivoluzionario un conservatore con discutibili simpatie monarchiche.
Ripubblicato in volume nel 1923 dalla casa editrice di Virginia Woolf e del marito Leonard, La terra desolata offre ancor oggi esattamente quanto indica, con secchezza, il suo titolo: un panorama di sterili e irriconoscibili rovine su cui crescono, come piante infestanti, tra i detriti e i frammenti letterari più disparati (dal simbolismo francese allo Stil Novo, dalla poesia metafisica inglese ai detti del Buddha), le cinque sezioni in cui si articola il testo, originariamente lungo più del doppio.
Eliot, un americano educato a Harvard e poi trasferitosi a Parigi per studiare con Henri Bergson, aveva, infatti, laboriosamente rivisto il manoscritto originale sotto l'occhio paterno di un altro esule statunitense, Ezra Pound, il dantesco «miglior fabbro» (Purgatorio, XXVI, 117) cui il testo è dedicato nell'edizione del 1925. Solo con la pubblicazione, nel 1971, del dattiloscritto originale, conservato dalla seconda moglie di Eliot, è stato possibile comprendere l'importanza del «taglio cesareo» operato da Pound, tanto lungimirante nell'acume poetico, quanto miope nel valutare le sorti dell'isola alla deriva che era diventata l'Italia di Mussolini, e a non intravvedere, dunque, quella che l'amico Eliot - memore della tragedia della prima guerra mondiale e sospettoso tanto del fascismo quanto del nazismo - ha chiamato nel suo poemetto «la paura in un pugno di polvere».
Oggi, a novant'anni di distanza dalla sua pubblicazione e dopo aver rappresentato un passaggio obbligato per generazioni di lettori italiani, La terra desolata non rappresenta più una rivoluzione. Il libro resta, comunque, tra i più venduti, un classico verrebbe da dire, se non fosse che in una celebre conferenza del 1944, poi raccolta nel volume On Poetry and Poets, tradotto per la prima volta nel 1960 dal Novissimo Alfredo Giuliani, Eliot abbia negato che alcuna lingua europea possa produrre un classico dopo Virgilio, il poeta latino che ha saputo, in un momento particolare e irripetibile della storia, farsi «interprete, misura e quindi canone di un'intera civiltà». Senza voler fare di Eliot un Virgilio del Novecento è innegabile che nell'ultimo secolo La terra desolata ha rappresentato per molti proprio il momento di maturità stilistica capace di restituire l'immagine di una civiltà in crisi.
Oggi, nonostante il nuovo millennio si sia aperto con la stessa immagine di crollo che ritroviamo nel poemetto («Torri che crollano / Gerusalemme, Atene, Alessandria / Vienna, Londra / irreali»), è difficile capire se La terra desolata possa ancora fornire una chiave per il presente, soprattutto in un'epoca in cui il lettore medio, anche quello più appassionato di poesia, non solo non possiede i formidabili strumenti culturali necessari per apprezzare l'intarsio citazionale, ma è spossessato da qualsiasi certezza ideologica, e dunque spaesato di fronte a quella che l'Eliot critico riteneva la più necessaria delle caratteristiche di un poeta: un sistema filosofico o teologico di riferimento, alla pari di Dante, per questo considerato superiore a Shakespeare.
La storia della ricezione di Eliot e di La terra desolata s'incrocia con quella della grande poesia italiana del secolo scorso a partire dagli anni '20, quando, scrive Ungaretti, nell'Italia de La Ronda «si voleva prosa, poesia in prosa» ed era dunque più semplice considerare Eliot un poeta oscuro e un critico perfetto, come recita il titolo di un lontano articolo di Carlo Linati. Questo studioso, insieme a Mario Praz - all'epoca professore all'Università di Liverpool - ha contribuito alla diffusione e traduzione del poeta anglo-americano.
Si deve proprio a Praz, come ha rivelato Montale in un articolo del 1950, il suo incontro con Eliot, che sulle pagine di “Criterion” pubblica, in una molto eliotiana traduzione di Praz, il suo celebre Arsenio. Da Eliot, «lirico concentratissimo» e «fin troppo razionale», Montale coglie soprattutto - come anche il più improbabile testo scolastico non manca di indicare - l'importanza dell'idea del correlativo oggettivo, «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi» capaci di formulare una particolare emozione, e di attivare quel processo di fuga nell'impersonalità che si ritrova sia nel mondo insterilito e nella disperata aridità della «vita che si screpola» degli Ossi, che negli oggetti-testimoni de Le occasioni. Pagine sottili sul rapporto tra i due poeti si trovano, ad esempio, ne L'inno nel fango, lo splendido saggio che Zanzotto dedica a Montale nel 1953. La terra desolata e gli uomini vuoti di Eliot diventano per il poeta veneto l'emblema di un presente «come regno delle scorze e dei gusci vuoti», i gracili e duri gusci della vita che Montale descrive - a partire dal titolo della sua prima racconta - lungo l'arco della sua opera, fino alla «palta» e alle «zattere di sterco» di Satura.
Non importano le ripetute Verneinung montaliane circa la reale portata dell'influenza eliotiana; il sospetto è che in Italia il poeta anglo-americano abbia sempre vissuto una doppia vita, la vita di un poeta parassitato. Eliot e il suo poemetto capolavoro, ma anche le sue raccolte critiche, a partire da Il bosco sacro, tradotto efficacemente ma non perfettamente nel 1946 da Luciano Anceschi, che ha voluto vedere in lui il prototipo più alto di «scrittore della crisi», sono stati spesso letti (forse troppo spesso) in funzione di qualcosa d'altro, magari per compensare l'impossibilità di cogliere il virtuosismo linguistico dell'originale o la sottile critica sociale all'Inghilterra del tempo, compiuta anche attraverso l'adozione di uno specifico gergo. Abbiamo così avuto l'Eliot montaliano, l'Eliot ermetico di Mario Luzi, quello della Linea lombarda di poeti come Giorgio Orelli, Nelo Risi e Luciano Erba, o ancora l'Eliot tutto poundiano della Neoavanguardia.
Lo ha confessato, molto candidamente, anche Edoardo Sanguineti, in un intervento ora raccolto in Cultura e realtà, spiegando che già nel '61, all'altezza del suo primo saggio dantesco, Interpretazione di Malebolge, considerava i Cantos e The Waste Land come commenti migliori alla Commedia di tanti studi specialistici. Eliot offre insomma a Sanguineti una lettura parassitaria di Dante, che può ritornare sì al presente, come «auctor sperimentale», ma senza che nulla si sia poi detto del poema eliotiano, ridotto a catalizzatore critico. Come tanti prima di lui, Sanguineti gioca «Eliot contro Eliot», associandolo alla problematica dell'avanguardia - ne sono una dimostrazione Laborintus e Laborintus II, dove i calchi eliotiani sono dichiarati. Ciò avviene contro lo stesso fondo ideologico del poeta anglo-americano, per farlo - il verbo è sempre di Sanguineti - «funzionare» davvero. Forse, l'apparente silenzio con cui le generazioni di scrittori più giovani circondano Eliot e La terra desolata viene dal bisogno di de-funzionalizzarlo, di ritornare a una lettura vera che prescinda da Dante, Montale, Pound o l'avanguardia.
Viene da chiedersi, come ha fatto anni fa Fredric Jameson nel suo più celebre saggio sul postmodernismo, ma con un senso alquanto differente, se T. S. Eliot sia ancora «recuperabile» nel contesto delle poetiche contemporanee o se la sua non sia che una pietrificata condizione museale.
Una parziale risposta la offre oggi, nel segno della radicalità della scrittura, Marjorie Perloff, tra le massime specialiste di poesia statunitensi. Secondo Perloff, la citazionalità, o récriture, per usare l'espressione impiegata da Antoine Compagnon, che caratterizza La terra desolata, e che Eliot abbandona subito dopo, è oggi la forma logica della «scrittura» in un'epoca di testi digitalizzati, letteralmente mobili e trasferibili. Non a caso, Eliot è tra gli autori citati anche da Kenneth Goldsmith - insieme a Walter Benjamin, Gertrude Stein e James Joyce - nel suo provocatorio pamphlet pubblicato da Columbia University Press nel 2010, Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age. Secondo Goldsmith, la reinvenzione odierna della scrittura deve necessariamente passare attraverso processi non creativi di trascrizione e libera appropriazione di materiali linguistici e dunque attraverso forme non centrali di soggettività.
È possibile che questa sia una strada percorribile, anche se l'impressione è quella di respirare una sospetta - e un po' claustrofobica - aria di famiglia. Più ariosa, certo, la prospettiva che lo stesso Eliot presentava, sotto forma d'invito a chiunque volesse scrivere poesia, nel saggio Tradizione e talento individuale, che pare scritto proprio ieri, ma con lo sguardo rivolto al domani. Il poeta, suggeriva Eliot, «dev'essere consapevole che lo spirito dell'Europa, lo spirito del suo paese (e ben presto egli deve imparare che tale spirito è molto più importante del suo, individuale) è in continuo movimento, ma che tale movimento è fatto in modo che nulla viene abbandonato en route, che né Shakespeare né Omero e neppure i graffiti degli artisti del periodo Magdaleniano vanno mai in pensione».
È forse questa la lezione che ancora si può apprendere da un poema come La terra desolata. Nella sua oscura e profonda bellezza, nella sua sarcastica invettiva contro un presente che sembra non passare, si coglie comunque un movimento, costante e continuo, come il frusciare delle infinite ali dell'angelo della storia, il movimento «verso una maggiore complessità».
In quel titolo, La terra desolata, la cui ormai consueta traduzione italiana il poeta Giorgio Caproni sentiva, e con finezza d'orecchio, in qualche modo limitante rispetto all'originale The Waste Land, sembra echeggiare il «paese guasto» di cui parla Dante nell'Inferno, volgarizzando a sua volta l'antico francese terre gaste, cioè il territorio devastato e sterile che nei poemi epici del Medioevo era compito dei cavalieri attraversare per ritrovare il Graal, uno dei simboli centrali del poemetto eliotiano. In un certo qual modo, insomma, Eliot non ha descritto semplicemente il raggiunto paesaggio interiore dell'uomo insterilito e svuotato dall'assurdità e dall'orrore della prima guerra mondiale. O lo stagnante male interiore destinato a diventare l'oscuro protagonista di tanta letteratura del primo Novecento. Al contrario, Eliot ha parlato - e qui si trova forse una parziale ragione del prolungato successo di questo testo, ben oltre il riconoscimento del Nobel, nel 1948 - di un futuro, di un viaggio ancora da compiere. Eliot ha insomma vaticinato la devastazione di un paesaggio reale, quello che l'irrazionalismo dei totalitarismi occidentali avrebbe costretto milioni di uomini e donne ad attraversare, come fragili cavalieri senza scarpe e senza speranza di ritorno.
Che a fare da protagonisti di questo dialogo drammatico a più voci siano, tra gli altri, un'improbabile cartomante, Madame Sosostris, e il più celebre indovino dell'antichità (un Tiresia dietro le cui fattezze si cela la figura del poeta), non sembra dunque troppo inopportuno: ad essere predetto è infatti un orizzonte di tragedia e di morte, la stessa che - nell'epigrafe inaugurale al poemetto - augura a se stessa la sibilla del Satyricon di Petronio, quando interrogata sui suoi desideri. Raramente, si potrebbe dire, un così algido pessimismo ha saputo generare maggiore entusiasmo, tanto che la critica è concorde nel considerare proprio La terra desolata come il vero capolavoro di Eliot, oltre che uno dei testi fondamentali del modernismo, soprattutto se paragonato alle pur mirabili meditazioni liriche dei Quattro quartetti (1943), scritti quando la conversione al cattolicesimo anglicano aveva fatto del poeta rivoluzionario un conservatore con discutibili simpatie monarchiche.
Ripubblicato in volume nel 1923 dalla casa editrice di Virginia Woolf e del marito Leonard, La terra desolata offre ancor oggi esattamente quanto indica, con secchezza, il suo titolo: un panorama di sterili e irriconoscibili rovine su cui crescono, come piante infestanti, tra i detriti e i frammenti letterari più disparati (dal simbolismo francese allo Stil Novo, dalla poesia metafisica inglese ai detti del Buddha), le cinque sezioni in cui si articola il testo, originariamente lungo più del doppio.
Eliot, un americano educato a Harvard e poi trasferitosi a Parigi per studiare con Henri Bergson, aveva, infatti, laboriosamente rivisto il manoscritto originale sotto l'occhio paterno di un altro esule statunitense, Ezra Pound, il dantesco «miglior fabbro» (Purgatorio, XXVI, 117) cui il testo è dedicato nell'edizione del 1925. Solo con la pubblicazione, nel 1971, del dattiloscritto originale, conservato dalla seconda moglie di Eliot, è stato possibile comprendere l'importanza del «taglio cesareo» operato da Pound, tanto lungimirante nell'acume poetico, quanto miope nel valutare le sorti dell'isola alla deriva che era diventata l'Italia di Mussolini, e a non intravvedere, dunque, quella che l'amico Eliot - memore della tragedia della prima guerra mondiale e sospettoso tanto del fascismo quanto del nazismo - ha chiamato nel suo poemetto «la paura in un pugno di polvere».
Oggi, a novant'anni di distanza dalla sua pubblicazione e dopo aver rappresentato un passaggio obbligato per generazioni di lettori italiani, La terra desolata non rappresenta più una rivoluzione. Il libro resta, comunque, tra i più venduti, un classico verrebbe da dire, se non fosse che in una celebre conferenza del 1944, poi raccolta nel volume On Poetry and Poets, tradotto per la prima volta nel 1960 dal Novissimo Alfredo Giuliani, Eliot abbia negato che alcuna lingua europea possa produrre un classico dopo Virgilio, il poeta latino che ha saputo, in un momento particolare e irripetibile della storia, farsi «interprete, misura e quindi canone di un'intera civiltà». Senza voler fare di Eliot un Virgilio del Novecento è innegabile che nell'ultimo secolo La terra desolata ha rappresentato per molti proprio il momento di maturità stilistica capace di restituire l'immagine di una civiltà in crisi.
Oggi, nonostante il nuovo millennio si sia aperto con la stessa immagine di crollo che ritroviamo nel poemetto («Torri che crollano / Gerusalemme, Atene, Alessandria / Vienna, Londra / irreali»), è difficile capire se La terra desolata possa ancora fornire una chiave per il presente, soprattutto in un'epoca in cui il lettore medio, anche quello più appassionato di poesia, non solo non possiede i formidabili strumenti culturali necessari per apprezzare l'intarsio citazionale, ma è spossessato da qualsiasi certezza ideologica, e dunque spaesato di fronte a quella che l'Eliot critico riteneva la più necessaria delle caratteristiche di un poeta: un sistema filosofico o teologico di riferimento, alla pari di Dante, per questo considerato superiore a Shakespeare.
La storia della ricezione di Eliot e di La terra desolata s'incrocia con quella della grande poesia italiana del secolo scorso a partire dagli anni '20, quando, scrive Ungaretti, nell'Italia de La Ronda «si voleva prosa, poesia in prosa» ed era dunque più semplice considerare Eliot un poeta oscuro e un critico perfetto, come recita il titolo di un lontano articolo di Carlo Linati. Questo studioso, insieme a Mario Praz - all'epoca professore all'Università di Liverpool - ha contribuito alla diffusione e traduzione del poeta anglo-americano.
Si deve proprio a Praz, come ha rivelato Montale in un articolo del 1950, il suo incontro con Eliot, che sulle pagine di “Criterion” pubblica, in una molto eliotiana traduzione di Praz, il suo celebre Arsenio. Da Eliot, «lirico concentratissimo» e «fin troppo razionale», Montale coglie soprattutto - come anche il più improbabile testo scolastico non manca di indicare - l'importanza dell'idea del correlativo oggettivo, «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi» capaci di formulare una particolare emozione, e di attivare quel processo di fuga nell'impersonalità che si ritrova sia nel mondo insterilito e nella disperata aridità della «vita che si screpola» degli Ossi, che negli oggetti-testimoni de Le occasioni. Pagine sottili sul rapporto tra i due poeti si trovano, ad esempio, ne L'inno nel fango, lo splendido saggio che Zanzotto dedica a Montale nel 1953. La terra desolata e gli uomini vuoti di Eliot diventano per il poeta veneto l'emblema di un presente «come regno delle scorze e dei gusci vuoti», i gracili e duri gusci della vita che Montale descrive - a partire dal titolo della sua prima racconta - lungo l'arco della sua opera, fino alla «palta» e alle «zattere di sterco» di Satura.
Non importano le ripetute Verneinung montaliane circa la reale portata dell'influenza eliotiana; il sospetto è che in Italia il poeta anglo-americano abbia sempre vissuto una doppia vita, la vita di un poeta parassitato. Eliot e il suo poemetto capolavoro, ma anche le sue raccolte critiche, a partire da Il bosco sacro, tradotto efficacemente ma non perfettamente nel 1946 da Luciano Anceschi, che ha voluto vedere in lui il prototipo più alto di «scrittore della crisi», sono stati spesso letti (forse troppo spesso) in funzione di qualcosa d'altro, magari per compensare l'impossibilità di cogliere il virtuosismo linguistico dell'originale o la sottile critica sociale all'Inghilterra del tempo, compiuta anche attraverso l'adozione di uno specifico gergo. Abbiamo così avuto l'Eliot montaliano, l'Eliot ermetico di Mario Luzi, quello della Linea lombarda di poeti come Giorgio Orelli, Nelo Risi e Luciano Erba, o ancora l'Eliot tutto poundiano della Neoavanguardia.
Lo ha confessato, molto candidamente, anche Edoardo Sanguineti, in un intervento ora raccolto in Cultura e realtà, spiegando che già nel '61, all'altezza del suo primo saggio dantesco, Interpretazione di Malebolge, considerava i Cantos e The Waste Land come commenti migliori alla Commedia di tanti studi specialistici. Eliot offre insomma a Sanguineti una lettura parassitaria di Dante, che può ritornare sì al presente, come «auctor sperimentale», ma senza che nulla si sia poi detto del poema eliotiano, ridotto a catalizzatore critico. Come tanti prima di lui, Sanguineti gioca «Eliot contro Eliot», associandolo alla problematica dell'avanguardia - ne sono una dimostrazione Laborintus e Laborintus II, dove i calchi eliotiani sono dichiarati. Ciò avviene contro lo stesso fondo ideologico del poeta anglo-americano, per farlo - il verbo è sempre di Sanguineti - «funzionare» davvero. Forse, l'apparente silenzio con cui le generazioni di scrittori più giovani circondano Eliot e La terra desolata viene dal bisogno di de-funzionalizzarlo, di ritornare a una lettura vera che prescinda da Dante, Montale, Pound o l'avanguardia.
Viene da chiedersi, come ha fatto anni fa Fredric Jameson nel suo più celebre saggio sul postmodernismo, ma con un senso alquanto differente, se T. S. Eliot sia ancora «recuperabile» nel contesto delle poetiche contemporanee o se la sua non sia che una pietrificata condizione museale.
Una parziale risposta la offre oggi, nel segno della radicalità della scrittura, Marjorie Perloff, tra le massime specialiste di poesia statunitensi. Secondo Perloff, la citazionalità, o récriture, per usare l'espressione impiegata da Antoine Compagnon, che caratterizza La terra desolata, e che Eliot abbandona subito dopo, è oggi la forma logica della «scrittura» in un'epoca di testi digitalizzati, letteralmente mobili e trasferibili. Non a caso, Eliot è tra gli autori citati anche da Kenneth Goldsmith - insieme a Walter Benjamin, Gertrude Stein e James Joyce - nel suo provocatorio pamphlet pubblicato da Columbia University Press nel 2010, Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age. Secondo Goldsmith, la reinvenzione odierna della scrittura deve necessariamente passare attraverso processi non creativi di trascrizione e libera appropriazione di materiali linguistici e dunque attraverso forme non centrali di soggettività.
È possibile che questa sia una strada percorribile, anche se l'impressione è quella di respirare una sospetta - e un po' claustrofobica - aria di famiglia. Più ariosa, certo, la prospettiva che lo stesso Eliot presentava, sotto forma d'invito a chiunque volesse scrivere poesia, nel saggio Tradizione e talento individuale, che pare scritto proprio ieri, ma con lo sguardo rivolto al domani. Il poeta, suggeriva Eliot, «dev'essere consapevole che lo spirito dell'Europa, lo spirito del suo paese (e ben presto egli deve imparare che tale spirito è molto più importante del suo, individuale) è in continuo movimento, ma che tale movimento è fatto in modo che nulla viene abbandonato en route, che né Shakespeare né Omero e neppure i graffiti degli artisti del periodo Magdaleniano vanno mai in pensione».
È forse questa la lezione che ancora si può apprendere da un poema come La terra desolata. Nella sua oscura e profonda bellezza, nella sua sarcastica invettiva contro un presente che sembra non passare, si coglie comunque un movimento, costante e continuo, come il frusciare delle infinite ali dell'angelo della storia, il movimento «verso una maggiore complessità».
Postilla bibliografica
Un giovane lettore che
volesse accostarsi per la prima volta al testo più importante, o
comunque più celebre, di T. S. Eliot ha oggi a disposizione diverse
traduzioni in italiano. L'edizione più recente di La terra
desolata ha una forma ancora relativamente anomala nel nostro
paese, dal momento che si tratta di un audiolibro, pubblicato nel
2010 dalla casa editrice specializzata Full Color Sound: la versione
dall'inglese è di Roberto Sanesi, ma la voce è quella dello
scrittore Stefano Benni, con un accompagnamento musicale di Umberto
Petrin (audiolibro + cd, pp. 16, euro 12,90).
Tra le altre edizioni in
commercio, impossibile non citare lo smilzo volumetto della collana
«bianca» di Einaudi, dove La terra desolata si accompagna a
Frammento di un agone e a Marcia trionfale e la
traduzione, così come la prefazione, portano la firma di Mario Praz
(pp. 91, euro 9,50). Nella Universale Economica Feltrinelli, invece,
The Waste Land (versione di Angelo Tonelli, testo originale
inglese a fronte) è seguita dai Quattro quartetti e porta
l'autorevolissima introduzione di Czeslaw Milosz (pp. 184, euro 7).
Da “il manifesto", 10
agosto 2012
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