Renato Guttuso
Per parlare di puttane e bordelli non credo che occorra scomodare la filosofia. Ma, curiosi e desiderosi come siamo di conoscere orizzonti nuovi, proviamo a leggere quest'articolo pubblicato su http://www.leparoleelecose.it/?p=26643
Metafisica della puttana reale
Per molto tempo la filosofia, e in
particolare la metafisica, si sono organizzate stabilmente, con la
sicurezza della talpa nella sua tana, nella forma del trattato.
Oggi che, per queste discipline almeno, il genere del trattato
“scientifico” è diventato quasi solo il derisorio nome accademico di un
oggetto indefinibile, situato tra la rassegna bibliografica e il
quaderno di appunti, la filosofia ha un bisogno imperioso di cercare
nuove forme di espressione.
Tra i pochi impegnati in questa ricerca,
alcuni (per esempio Giorgio Agamben) ricordano come, da Parmenide a
Lucrezio, i filosofi ancora percepissero la stretta parentela che li
legava ai poeti, e come la percepissero, stranamente, proprio nel
momento in cui pretendevano di comporre un’opera scientifica; altri
tentano invece di reinventare uno stile per la filosofia mettendo le sue
categorie alla prova di una molteplicità di eventi minimi o marginali,
della storia o dell’esistenza. È ciò che fa, per esempio, Jacques
Rancière, quando organizza i suoi testi attorno a quelle che chiama scene (come accade esemplarmente in Aisthesis. Scènes du régime esthétique de l’art,
Galilée 2011) e che sono situazioni o momenti, in loro stessi quasi
insignificanti, ma capaci nondimeno di presentare, come sulla scena di
un teatro o sullo schermo del cinema, una svolta nel modo di pensare.
Sembra voler combinare entrambe le strategie Laurent de Sutter, in un testo, Metafisica della puttana, tradotto ora da Aldo Prini per la collana “Scienza” delle nuove e preziose edizioni Giometti & Antonello di Macerata.
Si tratta di un libro di poco più di
cento pagine, organizzato in cinque parti, con un una cinquantina di
brevi capitoli, che manifesta un’ormai rarissima attenzione e passione
per la scrittura. Il lettore viene portato, senza soluzione di
continuità, da Bukowski, con cui si apre il capitolo 0, a Bukowski,
nella Coda che chiude il libro, passando per Baudelaire Godard,
Berg, Joyce, Genet, come se le scene attraversate avessero il ritmo dei
diversi movimenti di una partizione musicale, o come se si trattasse di
Variazioni su un unico tema, quello della puttana.
Chi è, ammesso che possa essere un qualcuno,
questo strano essere che a suo tempo popolava i bordelli? Che tipo di
relazione intrattiene, con lei, il cliente di una prostituta? E
soprattutto, che cosa cerca e che cosa gli rivela di sé quel rapporto?
Laurent de Sutter, senza girarci troppo attorno, spiega che nella
modernità la putain o la coquette ha sempre a che
vedere nientemeno che con la verità. Più precisamente, con
l’inestricabile intreccio di verità e apparenza, di realtà e illusione,
di simbolico e immaginario, che costituisce il nostro mondo, e nel quale
la puttana emerge come il reale allo stato puro.
Già Simmel, in un testo del 1909 sulla Psychologie der Kokotterie, aveva notato che la coquette
– come ricorda Sutter – è “la donna che lascia credere di essere
disponibile, ma presenta sempre ‘un’ultima segreta restrizione della
propria anima’, che si limita a far immaginare. È questo quasi-niente
sottratto alla possibilità del possesso ad essere oggetto del desiderio,
e quindi causa dello sconvolgimento da esso prodotto – perché esso corrisponde a ciò che non avremo mai” (p. 72). La “civetta” insomma è colei che, nella sua esplicita esposizione, nella manifesta finzione
che nondimeno fa realmente sorgere il desiderio, rende evidente sino a
che punto l’illusione e la realtà siano inseparabili; al contempo, in
lei si fissa un punto cieco, una casella vuota che è ciò a partire da
cui tutto lo spettacolo si gioca, ma anche il luogo che di quello stesso
gioco non potrà mai fare pienamente parte.
Da qui, Sutter giunge a formulare un
vero e proprio “principio della civetteria”, che suona così: “ c’è
verità solo nello sconvolgimento di un ordine; e c’è verità solo quando
il motore dello sconvolgimento è il desiderio. Per questa ragione –
d’altronde avviene lo stesso nella psicanalisi – pagare la
puttana è così importante. Se il denaro è lo strumento dell’impossibile
possesso, di conseguenza esso diventa anche la misura di quanto non può
essere posseduto” (p. 73).
Questo qualcosa che non può essere
posseduto sembra avere il suo luogo di residenza nel bordello o, più
precisamente, il quello che Sutter chiama “il bordello del reale”
(p. 61). Qui, in un paragrafo nel quale si parla di Lacan con Joyce e
altri, il Reale si presenta come l’opposto della realtà: è non solo “il
limite del basso”, ma è soprattutto l’incarnazione dei bassifondi, cioè anche “la parodia della città”. Il
bordello è “il luogo del reale in un mondo completamente immaginario,
ovvero completamente strutturato dalle distinzioni immaginarie operate
dalla polizia in nome di una verità che non è nient’altro che un nome”; è
per questo che “è sempre stato percepito come insopportabile da tutti
coloro che accettano la verità soltanto come ordine, il tempo come
norma, lo spazio come divisione. Il bordello – conclude Sutter forse parodiando Heidegger – è lì dove la cosa succede,
indipendentemente dall’edificio, dalla camera o dalla cornice della
porta entro cui qualcuno, per un istante, incontra una puttana” (ibidem).
Nondimeno, il Reale non è un altrove.
Non è forse proprio questo che ci insegna il bordello di cui Sutter fa
una sorta di rivelatore della realtà? L’idea della puttana, quella che
consente di farne una metafisica, è l’idea di un mondo nel quale tutto è
esposto e tutto è a disposizione, un mondo interamente risolto
nell’equivalente generale e fantasmatico di un desiderio infinito – che
però manca sempre il proprio soddisfacimento. Per questo la nostra
realtà, che si regge sull’esposizione e la disposizione della merce, ha
le apparenze di un bordello. Ma, per la stessa ragione, solo il bordello
reale, quello in cui l’insoddisfazione del desiderio non è foriera
soltanto di frustrazione, ma produttrice di una tensione verso ciò che
si sottrae a ogni scambio possibile, può strappare il velo della
finzione che governa la realtà. Così si pone, per Sutter, anche il
problema politico della prostituzione. Non si tratta di
guardare la puttana dal punto di vista del suo sfruttamento (come faceva
ancora Aleksandra Kollantaj nelle Basi sociali della questione femminile, 1909), cioè, in fondo, di adottare lo stesso sguardo, seppur capovolto, del cliente borghese,
“incapace di capire che, nel momento in cui andava a letto con Lulu,
egli riceveva il suo amore, un dono che non dipendeva dal suo denaro ma
dal suo essere” (p. 39). Non si tratta dunque di liberare la puttana,
bensì di pensarla (spiega Sutter con Karl Kraus) come “la liberatrice”.
Solo lei, infatti, offre gratuitamente il suo amore, anche a qualcuno
che, avendo dato denaro in cambio, non si rende conto averlo ottenuto.
“Se una rivoluzione-Lulu è esistita – si legge a proposito dell’opera di
Berg – è stata una rivoluzione invisibile, una rivoluzione dello
sguardo quale organo della percezione delle superfici” (ibidem),
perché l’amore di Lulu, come l’amore venduto, donato e trattenuto da
ogni prostituta, implica al contempo l’elevazione di quanto è
superficiale e l’oblio del suo essere superficiale, cioè, insieme, la
consapevolezza che l’amore, come la verità, si paga, e la verità che
l’amore non si dà senza un “oblio del denaro” (p. 36).
Nonostante il piacere del testo, viene il sospetto che anche questa puttana, con il suo bordello, non sia che una metafora del (bordello) reale. E non perché, in fondo, tutto quanto si possa dire
sul Reale sia sempre un modo per sviare il suo incontro, o perché il
Reale si possa soltanto vivere e non pensare, ma perché ci sono discrete
possibilità che l’esperienza reale del bordello sia più una triste
copia che una parodia dell’esperienza “borghese”, del suo ordine e della
sua polizia. È indubbio che il bordello, nel buon costume poliziesco
che definisce le persone per bene, sia stato espulso ai margini della
città e della civiltà, come se queste ultime non fossero anche,
con ogni evidenza, l’incarnazione stessa della menzogna e della truffa
(o del “vero” che “tenta di forcludere la verità”, p. 102); ed è
altrettanto indubitabile che la nostra saggezza, come quella di
Bukowski, non può che detestare “l’ordine, la polizia, l’evidenza, la
regolarità, la regola, la norma, il gusto, il buono, il bene” (ibidem);
ma appunto per questo dovremmo forse sapere che è illusorio fare
affidamento ad ognuno dei contrari di quei termini per uscire
dall’ordine del “Bene”. Bisognerebbe ammettere non solo che l’irruzione
del Reale non può avere un suo domicilio stabilito, neppure se si tratta
di un bordello, ma forse che il Reale non assomiglia neppure a qualcosa
come un’irruzione, a un evento sopra-numerario che, per il solo fatto
di essere fuori dagli schemi, sarebbe capace di sconvolge l’ordine
costituito.
Davvero reale è forse soltanto lo
sguardo distratto con cui una prostituta rivela che lì, nel suo
bordello, non sta succedendo proprio niente di diverso da quanto succede
fuori, niente di sublime, nessuna verità all’orizzonte, un lavoro come
un altro, con il solito, tranquillo vociare che si sente in un mercato –
da cui talvolta, come si sa, non solo il desiderio, ma neppure la pura dépense è esclusa.
Articolo ripreso da
15 marzo 2017
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