“QUEL CHE SO
DELLA MAFIA LO DEVO A DOLCI E SCIASCIA”
Intervista a cura di Beppe Benvenuto
Quando
vivevo a Palermo la mafia non si nominava nemmeno. Se qualcuno, magari uno
straniero, chiedeva: «ma la mafia cos' è?» la gente rispondeva: «la mafia non
esiste, è un' invenzione della stampa». Io sono cresciuta con questa idea che
la mafia fosse un non detto, una non realtà, qualcosa su cui si fantasticava ma
era più una leggenda che altro. Naturalmente sulla leggenda si incrostano i
miti, le favole, le distorsioni dell' immaginazione. Infatti, si passava dall'
esaltazione di un potere sotterraneo, sconosciuto e sempre presente, buono coi
poveri e cattivo coi ricchi, secondo i racconti famosi dei Beati Paoli, a una
sorta di paura che non aveva nome. Meglio non parlarne. La prima volta ho
sentito parlare della mafia da Danilo Dolci. Un uomo che ricordo alto,
massiccio, con gli occhiali piccoli e tondi alla Gramsci. Vestiva di bianco,
incuteva simpatia e soggezione. Io ero una ragazzina, lui un uomo fatto. I
siciliani lo guardavano con un misto di ammirazione e disprezzo. Ammirazione
perché aveva lasciato le sue comodità nordiche per mettere su casa a Partinico,
fra le pecore e i sassi di una Sicilia povera e violenta; disprezzo perché uno
che non pensa ad arricchirsi, uno che non ama il potere, uno che aiuta i
contadini a fare le battaglie per la terra, non può essere che un emulo di San
Francesco, ovvero un uomo a metà, un debole, un rinunciatario che non conosce
la passione del potere che in un uomo è considerata innata e profondamente
virile. «Quando vivevo a Palermo la mafia non si nominava nemmeno. Se qualcuno,
magari uno straniero, chiedeva "ma la mafia cos' è?", la gente
rispondeva "la mafia non esiste,è un' invenzione della stampa". Io
sono cresciuta con questa idea che la mafia fosse un non detto, una non realtà,
qualcosa su cui si fantasticava ma era più una leggenda che altro. Naturalmente
sulla leggenda si incrostano i miti, le favole, le distorsioni dell'
immaginazione. Infatti si passava dall' esaltazione di un potere sotterraneo,
sconosciuto e sempre presente, buono coi poveri e cattivo coi ricchi, secondo i
racconti famosi dei Beati Paoli, a una sorta di paura che non aveva nome. Meglio
non parlarne». Così l' incipit di Sulla mafia, un piccolo libro in cui Dacia
Maraini raccoglie alcuni dei suoi scritti usciti nel corso degli ultimi anni
intorno alla Sicilia e a Cosa Nostra. Sempre in apertura, la narratrice
cresciuta a Bagheria ricorda di aver sentito apertamente trattare dei «bravi
ragazzi» per la prima volta da Danilo Dolci, il sociologo triestino trapiantato
a Trappeto che cercava di combattere la miseria con il metodo ghandiano. Nei
suoi riguardi, i sentimenti non erano del tutto positivi. A quel forestiero, un
po' predicatore un po' agitatore politico, si guardava piuttosto «con misto di
ammirazionee disprezzo». Diventata adulta, l' autrice di La lunga vita di
Marianna Ucria ricorda che proprio l' »amore per la Sicilia mi ha portato a
cercare di capire e intendere e approfondire la questione mafia». Fra gli
interlocutori, spicca il nome di Michele Pantaleone che del fenomeno trattava
«con grande conoscenza. Il suo libro Mafia e politica è una miniera di
informazioni». Il saggista e parlamentare socialista la faceva riflettere sul
fatto «che Calogero Vizzini non aveva mai letto un libro e non conosceva il
potere delle parole». «Per loro», commenta oggi amara la Maraini, «uno che
scrive libri sulla mafia non è da considerarsi un pericolo. Chi li praticava
mai i libri? Solo qualche nasuto topo di biblioteca, di cui si infischiavano
allegramente. Per gli amanti della lupara i pericoli venivano dai giudici, dai
procuratori, dai poliziotti e dai pentiti. Non certo dagli scrittori». Sempre
sul terreno del «voler capire» sono sempre i libri a farle compagnia e a
spingerla ad andare oltre. «Qualcosa me l' ha insegnata lo storico inglese
Denis Mack Smith", osserva la romanziera, «con la sua Storia della
Sicilia. Denis conosceva bene mia madre e ogni volta che arrivava a Palermo
veniva a pranzo da noi». A seguire, gli scritti dei testimoni oculari, a
cominciare da un testo oggi ampiamente dimenticato, l' autobiografia, curata da
Felice Chilanti, di Nick Gentile, un mammasantissima del catanese che aveva
fatto fortuna delinquenziale oltreoceano e che aveva avuto «il coraggio di
parlare di sé». A chiusa del percorso informativo-conoscitivo «le parole di
Buscetta, di Brusca, di altri. Nonché le ricerche e le interpretazioni storiche
e antropologichee sociali di Saverio Lodato, di Corrado Stajano, di Pino
Arlacchi, di Enrico Deaglio, di Salvo Vitale, di Luciano Violante. Nonché i
grandi romanzi di Sciascia come Il giorno della civetta e A ciascuno il suo».
Non ci sono però solo libri e autori nel volume della Maraini. Ci sono anche
incontri. Intense sono le pagine dedicate alla sua città d' elezione, Bagheria:
«una delle più belle (ex belle, prima della rapina del territorio) cittadine
siciliane», di cui ritrae un momento doloroso, il secondo commissariamento da
parte del ministro degli Interni nel giro di pochi anni. Eppure, in un luogo
così martoriato, considerato «una piccola capitale della mafia», la scrittrice
ha modo di incrociare persone ed esperienze che rappresentano una
controtendenza. A conquistarla è, in particolare, il gruppo de "Il nuovo
Paese". Rivista, stampata appunto nella sua cittadina, da un drappello di
cronisti «responsabili e risoluti». Peraltro, «una stella solitaria che non fa
sistema», come affermano con un buon tasso di autoironia i suoi stessi
redattori. Le denunce circostanziate del giornale, che colleziona querele,
sull' acquiescenza dei poteri nei confronti della presenza oppressiva degli
uomini d' onore e dei loro amici nella vita locale, sembrano un' indicazione
incoraggiante della possibilità di una ripartenza complessiva di segno diverso.
Così discontinua rispetto al pregresso, spera e immagina la scrittrice, «da
salvare il nostro paese dal degrado e dall' abbandono di sé».
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