Calitri, Irpinia
Riprendiamo dal sito http://www.leparoleelecose.it/ l'intervento di Raoul Bruni uscito in forma integrale nel numero monografico della “Rivista di Letteratura Italiana” (I, 2017) dedicato a Francesco De Sanctis, in occasione del bicentenario della nascita.
L’Italia di De Sanctis
di Raoul Bruni
Un viaggio elettorale di
Francesco De Sanctis viene pubblicato a puntate in appendice alla
«Gazzetta di Torino» nel 1875, dunque esattamente quattordici anni dopo
l’atto di nascita del nuovo Stato unitario. Sebbene il libro si svolga
quasi tutto in Irpinia, è impossibile negare che quello spicchio di
Penisola rifletta alcuni dei caratteri più tipici dell’intera nazione,
cosicché l’itinerario desanctisiano assume senz’altro un valore
paradigmatico, fornendo un’icastica istantanea dell’Italia di allora.
Non solo: mentre racconta Italia degli anni settanta dell’Ottocento De Sanctis coglie con largo anticipo alcuni tratti fondamentali del nostro carattere nazionale che sarebbero emersi con più chiarezza nel futuro della storia italiana. In questo senso, il Viaggio desanctisiano non è soltanto un ‘classico del meridionalismo’ (come pure, giustamente, è stato definito), ma, più in generale, un classico dell’italianità letteraria,[1] da collocarsi idealmente nella gloriosa scia di Machiavelli e Guicciardini, e del Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (che sarebbe uscito soltanto dopo la morte di De Sanctis ma che presenta non poche consonanze ideali con Un viaggio elettorale). Né si dimentichi che De Sanctis scrive il Viaggio pochi anni dopo aver portato a termine la sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), cioè uno dei più fondamentali contributi alla storia della civiltà, non solo letteraria, italiana.
Non solo: mentre racconta Italia degli anni settanta dell’Ottocento De Sanctis coglie con largo anticipo alcuni tratti fondamentali del nostro carattere nazionale che sarebbero emersi con più chiarezza nel futuro della storia italiana. In questo senso, il Viaggio desanctisiano non è soltanto un ‘classico del meridionalismo’ (come pure, giustamente, è stato definito), ma, più in generale, un classico dell’italianità letteraria,[1] da collocarsi idealmente nella gloriosa scia di Machiavelli e Guicciardini, e del Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (che sarebbe uscito soltanto dopo la morte di De Sanctis ma che presenta non poche consonanze ideali con Un viaggio elettorale). Né si dimentichi che De Sanctis scrive il Viaggio pochi anni dopo aver portato a termine la sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), cioè uno dei più fondamentali contributi alla storia della civiltà, non solo letteraria, italiana.
Del resto, nei decenni che seguono
l’Unificazione, escono alcuni viaggi letterari attraverso lo stivale
improntati agli ideali patriottici risorgimentali: i più organici e
importanti sono Il bel paese di Antonio Stoppani, che viene pubblicato nel 1876 (in concomitanza con l’uscita in volume, presso Morano, del Viaggio elettorale desanctisiano) e Il viaggio per l’Italia di Giannettino di
Carlo Collodi, pubblicato in tre volumi, tra il 1880 e il 1886.
Rispetto a queste due opere monumentali, De Sanctis si concentra su
un’area ben più limitata, ma egli stesso si dimostra ben consapevole
della portata esemplare del suo racconto, tant’è che, dopo aver scritto
che «avev[a] imparato più in quei paeselli che in molti libri», aggiunge
che la storia confluita in quel libro non è più soltanto «storia mia; è
storia di tutti, ci s’impara molte cose».[2]
L’idea di civiltà italiana che De
Sanctis presuppone ha come alimento fondamentale la letteratura
nazionale. Risulta impossibile separare nettamente il pensatore politico
dal letterato, così come lo scrittore dal viaggiatore. Gli autori
prediletti (Machiavelli, Guicciardini, Leopardi, Manzoni) accompagnano e
illuminano costantemente De Sanctis come un’ideale biblioteca
portatile: a volte li cita esplicitamente, come Manzoni (nel Viaggio si evoca un famoso episodio dei Promessi sposi, già considerati alla stregua di un classico, e si paragona un personaggio a Don Abbondio)[3] e Guicciardini,[4] altre volte implicitamente (è il caso di Leopardi).[5]
La poetica del Viaggio elettorale
risponde perfettamente ad alcuni dei più classici canoni dell’umorismo;
d’altra parte, questo libro è stato letto anche come prodromo della
letteratura verista (nel capitolo I, l’autore scrive che il proprio
racconto parla di un «mondo studiato dal vero e dal vivo» [V, p. 61]).
In realtà, più che di verismo in senso stretto, sarebbe più corretto
parlare di ‘realismo’, un realismo costantemente venato di umorismo. Del
resto, il realismo di De Sanctis non è soltanto letterario, ma anche
realismo politico, giacché la modalità del racconto è perfettamente
solidale con la tensione ideologica che lo sostanzia.
De Sanctis, nonostante la sua indole
sognatrice e la sua incrollabile fiducia nel progresso, non coltiva
utopie astratte ma conosce bene la natura intrinsecamente impura del
potere e della politica. A tale proposito, le diagnosi consegnate ai
suoi importanti interventi politici risalenti agli anni immediatamente
successivi all’uscita del Viaggio (da considerarsi come una
sorta di «manifesto a posteriore dei motivi di fondo che animano la
riflessione e la militanza politica»[6] che innervano il libro) sono inequivocabili: «Come si chiama questo pot-pourri?
Politica italiana! perché non conosco nessun paese, dove sia tale
babele. Di che nasce l’equivoco, lo scetticismo, la demolizione de’
partiti legali, l’abbassamento de’ caratteri, la corruzione degli ordini
costituzionali. Il campo rimane così aperto agli avventurieri,
fabbricatori di combinazioni politiche almeno una volta al mese,
lusingando tutti e ingannando tutti»[7].
Non fossimo nel 1877, sembrerebbe di leggere una delle tipiche denunce,
oggi sempre più diffuse, che di solito vengono rubricate sotto
l’etichetta di ‘antipolitica’: certo, le elezioni allora coinvolgevano
soltanto una piccola élite, ma, nondimeno, rimane l’impressione
che, in oltre un secolo e mezzo di storia italiana unitaria, i sistemi
di gestione del potere non si siano modificati granché. Anche riguardo
ai partiti politici il giudizio desanctisiano suono altrettanto
sferzante: non ne esistono di «solidamente costituiti, se non quelli
fondati sulla regione o sulla clientela, le due piaghe d’Italia,
ricordanza di antiche divisioni e scuola organizzata di corruzione».[8]
Ne consegue che la politica equivale, in definitiva, a «farsi gli amici
e gli alleati, vantare protezioni e relazioni, parlare a mezza bocca,
congiungere l’intimidazione con la ciarlataneria».[9]
La stessa parabola politica di De Sanctis si scontra continuamente, anche nel Viaggio,
contro la corruzione e l’immobilismo del sistema politico italiano,
contro l’asfittica rete di consorterie su cui esso è basato. Di fronte a
questo sistema, De Sanctis spesso è costretto a soccombere, tant’è che,
a osservarlo attentamente, il bilancio della sua esperienza di politica
attiva potrebbe apparire sostanzialmente fallimentare. Egli stesso
comprende lucidamente il risvolto beffardo e il carattere effimero della
sua avventura politica in Irpinia: «Ed io che sarò? Un sigaro fumato.
Bella consolazione! Niente muore, tutto si trasforma. Una gran frase,
sicuro, per farci ingoiare la pillola» (V, p. 86) – afferma nel celebre
dialogo immaginario con il teologo, incastonato, quasi come una piccola
operetta morale leopardiana, all’interno del capitolo Fantasmi notturni.
Certo, De Sanctis, nel ballottaggio finale, la spunterà sul suo
avversario (Severino Soldi, di cui si dirà dopo), ma tutta la sua
faticosa spedizione elettorale gli frutterà soltanto venti voti in più.
Ma guardiamo più da vicino l’intricata vicenda politica raccontata nel Viaggio.[10]
Alle origini della spedizione elettorale di De Sanctis c’è
l’annullamento per irregolarità vere o presunte del ballottaggio
tenutosi il 15 novembre 1874 nel collegio di Lacedonia, in cui egli era
risultato vincitore. Il 17 gennaio del 1875 si deve quindi tornare alle
urne e De Sanctis viene spedito nella sua Irpinia, da dove mancava da
una quarantina d’anni, per raccogliere il numero maggiore possibile di
voti. La paradossale situazione che si crea con questo nuovo
ballottaggio si presenta all’insegna di quel fenomeno oggi divenuto
ormai proverbiale che è il trasformismo. Intanto De Sanctis è
sostenuto da Michele Capozzi, meglio noto come Re Michele, potentissimo
rappresentante del potere locale, uomo di destra che per seguire
determinati interessi è disposto ad appoggiare, appunto, un politico di
sinistra. Ma ancor più spiccatamente trasformista è l’avversario di De
Sanctis, Severino Soldi, il quale appena alla vigilia delle elezioni era
passato dalla compagine della destra a quella della sinistra.
Trasformismo, dunque, ma anche una sinistra che si scontra e si dilania
al suo interno invece di unire le proprie forze per sconfiggere la
destra, insomma: una situazione lontana nel tempo e che ha come teatro
un luogo apparentemente marginale, ma che, per contro, non potrebbe
essere più attuale. Come scrive De Sanctis a proposito dell’affaire
Soldi, c’è chi non concepisce che «nella stessa elezione e agli stessi
elettori lo stesso candidato potesse recitare due programmi diversi. Le
menti erano scombussolate» (V, p. 79), mentre egli, conoscendo già bene i
maneggi della politica, non si stupisce più di tanto, anzi è «di tutti
il meno sorpreso, perché se ignoravo il dietroscena di Lacedonia,
conoscevo perfettamente il dietroscena di Napoli» (V, p. 80).
L’Irpinia nella quale De Sanctis si
appresta a ingaggiare la sua aspra contesa elettorale con Soldi è
dominata dai campanilismi e dai contrasti intestini. In questo senso la
lettura del Viaggio può essere proficuamente illuminata dall’articolo del 1877 I partiti personali e regionali,
in cui De Sanctis denuncia drasticamente l’invadenza dei partiti
personali e regionali, che, in realtà, «non sono partiti, sono malattie
sociali».[11] I capi di queste piccole fazioni, oggi diremmo lobbies,
«hanno inclinazione a scegliersi clienti e non amici, non compagni di
buona tempra e ingegno, anzi un gregge docile, servile, parassiti,
commessi, mezzani, compari, confidenti, tutte cattive erbe che sogliono
germogliare nella mala compagnia, effetto e insieme causa di
corruzione».[12]
In sostanza, quindi, i gruppi regionali «al di là della regione non
veggono altro», al pari dei gruppi personali, che «non guardano al di là
delle loro persone».[13]
Nel Viaggio elettorale ogni paese fa storia a sé: ogni contrada si presenta come un microcosmo autonomo, con i suoi piccoli partitini, i suoi boss,
i suoi «dietroscena», per usare una parola-chiave del viaggio. I titoli
dei vari capitoli illuminano a volte icasticamente il carattere
principale delle varie località: Rocchetta la poetica, Bisaccia la gentile, Calitri la nebbiosa, Andretta la cavillosa.
Se, come lascia immediatamente intendere il titoletto, Andretta è
dominata, per l’appunto, da uno «spirito cavilloso» («I grandi ingegni
non sono mai cavillosi; il cavillo è il carattere della mediocrità» [V,
p. 125]), la nebbia di Calitri non è soltanto un fenomeno metereologico.
De Sanctis non riesce a comprendere veramente «le condizioni morali del
paese», giacché:
Frizzi, sarcasmi,
ironie s’incrociavano de’ presenti contro gli assenti; c’era lì del
guelfo e del ghibellino, lotta di famiglie lotta d’interessi, passioni
vive e dense, col nuovo alimento che viene da’ piccoli centri, dove non
si pensa che a quello solo. Gittarmi entro a quell’incendio mi pareva
pazzia (V, p. 118).
Così recita un altro illuminante passo del Viaggio:
in questi piccoli
centri, il mondo comincia e finisce lì. Il campanile è la stella
maggiore di quel piccolo cielo. E in quelle gare, in quelle gelosie, in
quelli che tu chiami I pettegolezzi municipali è tanta passione, quanta
è, poniamo, tra Francia e Germania. Ciascuno ha la sua epopea a modo suo
(V, p. 92).
Ogni visione che abbia a cuore il bene
pubblico deve inevitabilmente fare i conti con le più miopi logiche di
campanile, perché esse vincolano e condizionano ogni tipo di iniziativa
politica. Viene in mente la celebre riflessione del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, in cui Leopardi, dopo aver sottolineato l’assoluta mancanza in Italia di un bon ton sociale,
cioè di «una maniera, un tuono italiano determinato», afferma che
«Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e
maniera da sé».[14]
De Sanctis non ha paura di raccontare la
realtà dei fatti, anche quando essa sembra ritorcersi contro la propria
causa. Penso ad esempio al capitolo in cui riferisce che uno dei suoi sponsor
più forti, don Molinari, per assicurarsi che alcuni elettori votassero
effettivamente per De Sanctis, aveva chiesto loro di inserire
all’interno delle schede dei marchi di riconoscimento, facendo
aggiungere accanto al cognome del candidato (De Sanctis) epiteti e o
frasi come non vogliamo versipelli, oratore italiano, fratello di D. Vito,
ecc. (V, p. 163). Sia pure attraverso il filtro dell’ironia, De Sanctis
denuncia una pratica più o meno dissimulata di compravendita dei voti,
che purtroppo ha continuato ad avere corso, almeno in certe aree, fino
ai nostri giorni. E lo fa ben sapendo che, in questo caso, questa
pratica ha favorito la sua propria causa politica.
Le denunce politiche e sociali del Viaggio non
si limitano alle tare della politica locale ma investono anche altri
aspetti, che peraltro alla politica sono strettamente connessi.
Innanzitutto, le condizioni dissestate delle strade, che rendono gli
spostamenti nelle già di per sé impervie contrade dell’alta Irpinia
particolarmente difficoltosi. Si legge, ad esempio, nel capitolo su
Calitri:
O come questi
cittadini, che dicono così ricchi, non hanno avuto ambizione di
trasformare la loro città e farla degna dimora di loro signorie? Non
conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e danno del
paese una cattiva impressione a chi giunge nuovo; le strade sono pel
paese quello che il vestire è per l’uomo (V, p. 127).
Anche nel natio borgo selvaggio di De
Sanctis, Morra Irpino, nonostante qualche timido segnale di progresso
sociale, permangono antiche piaghe difficilmente estirpabili:
Veggo ancora per
quelle vie venirmi tra gambe, come cani vaganti, una turba di monelli,
cenciosi e oziosi, e mi addoloro che non ci sia ancora un asilo
d’infanzia. Non veggo sanata la vecchia piaga dell’usura, e non veggo
nessuna istituzione provvida che faciliti gl’istrumenti del lavoro e la
coltura dei campi. Veggo più gelosia gli uni degli altri, che fraterno
aiuto, e nessun centro di vita comune, nessun segno di associazione.
Resiste ancora l’antica barriera di sdegni e di sospetti tra
galantuomini e contadini, e poco si dà all’istruzione, e nulla alla
educazione. Nessuno indizio di esercizii militari e ginnastici, nessuno
di scuole domenicali, dove s’insegni a tutti le nozioni più necessarie
di agricoltura, di storia e di viver civile (V, pp. 152-153).
Per ripristinare un minimo di uguaglianza e di giustizia sociale occorre la pioggia, come fa notare, con amara ironia, De Sanctis: «La pioggia aveva messo là l’eguaglianza tra contadini e signori, anzi vedevi con rara abnegazione qualche signore a piedi e qualche contadino a cavallo» (V, p. 162).
Per ripristinare un minimo di uguaglianza e di giustizia sociale occorre la pioggia, come fa notare, con amara ironia, De Sanctis: «La pioggia aveva messo là l’eguaglianza tra contadini e signori, anzi vedevi con rara abnegazione qualche signore a piedi e qualche contadino a cavallo» (V, p. 162).
Il Viaggio elettorale
rappresenta uno dei vertici della prosa civile del nostro Ottocento e,
al tempo stesso, un modello più o meno dichiarato di un certo filone di
giornalismo d’inchiesta (basti fare il nome di uno dei più importanti
rappresentati del giornalismo meridionalista, Giovanni Russo, che non
hai mai nascosto il suo debito nei riguardi del Viaggio desanctisiano).[15] Se le fonti del Viaggio
sono state attentamente indagate, quasi nulla è stato scritto sulle sue
foci: invece, ricerche in questa direzione potrebbero avere esiti molto
interessanti, e, forse, sorprendenti. Il Viaggio, insomma, rappresenta ancora una lettura attuale, dato
che, raccontando una parte del meridione, De Sanctis racconta l’Italia:
per certi aspetti, anche quella odierna. Perché, come egli stesso
scrive: «Le questioni regionali sono una questione di politica generale.
La malattia di un membro è malattia di tutto il corpo, la debolezza di
uno è debolezza di tutti; dov’è stato morboso, tutti hanno interesse
alla guarigione».[16] Ecco perché Un viaggio elettorale è stato (e ancora oggi è) un libro esemplare.
[1] Sulla formazione del concetto di italianità letteraria, cfr., fra l’altro, lo studio di Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[2] Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale. Racconto,
edizione critica a cura di Toni Iermano, collaborazione di Paola Di
Scanno, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2003, p. 61(da ora in avanti questa
edizione sarà indicata con la sigla V: i rinvii alle pagine saranno
forniti tra parentesi, dopo le citazioni virgolettate).
[3] Cfr. V, rispettivamente, pp. 140 e 183.
[4]
«Il sacrifizio a noi, e la gloria a’ nipoti: o chi conosce i nipoti? e
mi pare che il bravo operaio non andasse più in là del suo particolare,
come diceva Guicciardini; così s’incontravano l’uomo della decadenza e
l’uomo dell’infanzia, dove finisce e dove comincia la storia» (V, p.
174).
[5]
Si legga ad esempio questa riflessione, che riecheggia chiaramente il
pensiero di Leopardi: «La menzogna, il falso vedere foggiato da’ nostri
desiderii ci tiene allegri. E chè l’inganno duri, altro non chiediamo,
pur sapendolo inganno. E quando sopraggiunge il disinganno, la vista
della verità ci offende e chiudiamo gli occhi per non vederla, e
mettiamo guai, come fanciulli» (V, p. 168).
[6] Toni Iermano, Tra gli uomini di Guicciardini. «Un viaggio elettorale» di Francesco De Sanctis, in Idem, Raccontare il reale. Cronache, viaggi e memorie nell’Italia dell’Otto-Novecento, Napoli, Liguori, 2004, p. 4 (Iermano si riferisce agli articoli apparsi sul «Diritto» tra il 1877 e il 1878).
[7] Francesco De Sanctis, L’Italia democratica, «Diritto», 7 ottobre 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, a cura di Nino Cortese, Torino, Einaudi, 1970, p. 132.
[8] Ibidem.
[9] Francesco De Sanctis, L’educazione politica, «Diritto», 11 giugno 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, cit., p. 99.
[10]
Non è questa la sede per ricostruire nel dettaglio il complesso
contesto politico-elettorale entro il quale va inquadrato il viaggio di
De Sanctis in Irpinia: sull’argomento, cfr., soprattutto il prezioso
volume Il viaggio elettorale di Francesco De Sanctis. Il dossier Capozzi e altri inediti, a cura di Attilio Marinari, Firenze, La Nuova Italia, 1973; per un quadro più sintetico, cfr. l’Introduzione dello stesso Attilio Marinari alla sua edizione di Un viaggio elettorale, con un’appendice di documenti vari, Napoli, Guida, 1983, in particolare, pp. 9-17.
[11] Francesco De Sanctis, I partiti personali e regionali, «Diritto», 9 novembre 1877, in Idem, I partiti e l’educazione della nuova Italia, cit., p. 141.
[12] Ivi, p. 142.
[13] Ivi, p. 143.
[14] Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani,
edizione diretta e introdotta da Mario Andrea Rigoni, testo critico di
Marco Dondero, commento di Roberto Melchiori, Milano, BUR, 1998, p. 57.
[15] Nella conversazione con Goffredo Fofi che apre il suo volume La terra inquieta, Giovanni Russo indica nel De Sanctis del Viaggio elettorale e di Giovinezza una lettura fondamentale per la sua formazione (cfr. Giovanni Russo, La terra inquieta memoria del Sud, a cura di Goffredo Fofi, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2003, p. 7; Russo torna a richiamarsi all’attualità del modello di reportage del Viaggio elettorale anche in un altro passo del libro, cfr. Ivi, p. 233, ma De Sanctis è citato anche in altri libri del giornalista).
[16] Francesco De Sanctis, I partiti personali e regionali, cit., p. 145.
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