Antisemitismo e
adesione al nazismo. Pubblicato parte del carteggio tra Martin
Heidegger e il fratello Fritz che dimostra come anche dopo la fine della
guerra il filosofo nutrisse un profondo disprezzo per gli ebrei.
Gennaro Imbriano
La croce uncinata a
difesa dello spirito tedesco
Alcuni atteggiamenti e lo
sguardo che Hitler ha nei ritratti di questi giorni mi ricordano
spesso te». Così scriveva Fritz Heidegger il 3 aprile del 1933 in
una lettera indirizzata al fratello Martin. Il quale dovette
apprezzare questo paragone, dato che era stato proprio lui, nel
dicembre del 1931, a fare attento il fratello sull’«insolito e
sicuro istinto politico di Hitler» e a consigliargli la lettura del
Mein Kampf.
Nel volume Heidegger und
der Antisemitismus (Herder 2016, a cura di Arnulf Heidegger e Walter
Homolka), viene parzialmente pubblicata la corrispondenza che il
filosofo di Meßkirch intrattenne con il fratello Fritz tra il 1930 e
il 1946. È un carteggio molto prezioso, perché contribuisce –
proprio come gli appunti dei Quaderni Neri scritti in questo periodo
– a ricostruire con maggiore precisione gli elementi teorici che
sostanziano la «svolta» di Heidegger dopo la stagione di Essere e
tempo, e a ricostruire il decisivo quindicennio (poco più) nel quale
matura una nuova forma di «pensiero».
Notevole è il fatto che
essa sia elaborata in intima connessione con l’evoluzione della
crisi weimariana. Heidegger ne segue febbrilmente le vicende.
Tutt’altro che disinteressato alla politica, è nelle pieghe del
caos repubblicano che riformula in senso völkisch il suo «gergo
dell’autenticità».
Al nazismo compete una
missione storica: «non si tratta più di meschina politica di
partito — ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell’Europa
e della cultura occidentale» (18.12.1931). Heidegger si convince
progressivamente del fatto che Hitler sia «l’unica salvezza della
patria» e vada sostenuto con forza contro ogni reticenza che qualche
«impaurito “colto”» solleva nella speranza di favorire
«immobilismo e mancanza di decisione» al fine di preservare la
tranquillità della propria «dimensione borghese» (02.03.1932).
Il cancelliere della
Repubblica di Weimar Heinrich Bruning gli appare troppo debole. Al
fratello Fritz, che ne apprezzava gli sforzi per trascinare la
Germania fuori dalla crisi, Heidegger contesta che il cancelliere ha
raggiunto «meno di niente»: poco più che un «giocattolo nelle
mani dei francesi», «privo di responsabilità dinanzi alle forze e
ai compiti dello spirito tedesco», esecutore di «un ammiccare
bugiardo verso Roma» (10-12.05.1932). Quanto al suo successore von
Papen, Heidegger ne auspica la caduta e già nell’ottobre del 1932
prefigura quel cambio di guardia ai vertici dello Stato che si
realizzerà due mesi dopo: «Schleicher sì – ma Papen no»
(28.10.1932).
Quest’ultimo, che pure
aveva tentato di arginare l’avanzata delle forze democratiche,
viene infatti liquidato come amico degli ebrei, i quali grazie a lui
«hanno ricevuto impulso e si sono liberati a poco a poco dalla loro
sensazione di panico nella quale erano piombati» (28.10.1932).
Nella stessa lettera del
1932 Heidegger scrive che il mondo ebraico è espressione del «grande
capitale», avere successo contro il quale «sarà difficile». Pochi
mesi prima chiedeva a Fritz di diffidare della coalizione di centro e
lasciare pure quel «rifugio tremolante alle donne e agli ebrei»
(27.07.1932).
Dopo la guerra Heidegger,
che pure continua a non nascondere al fratello il suo disprezzo per
gli ebrei («Qui tutto è poco bello. Dobbiamo prendere in casa la
gente dei Lager [KZ-Leute]. Tutto è brutto e peggiore che al tempo
dei nazi» ), ridimensiona l’Olocausto chiamando in causa le
violenze subite dai tedeschi dell’est: il «terribile destino che
si è consumato nell’est della nostra patria», scrive in una
lettera del 1946, «supera tutte le atrocità organizzate da
delinquenti e accade indipendentemente – e sarebbe accaduto già
prima – da ciò che noi “conoscemmo” tra il 1933 e il 1945».
Se verso la fine delle
ostilità Heidegger non si dà pace per questo «terribile destino»
e si domanda perché «lo spirito del mondo si serva di americani e
bolscevichi come suoi sgherri» (18.01.1945), negli anni Trenta sono
soprattutto questi ultimi a incutergli terrore. «Esiste oggi solo
una chiara linea, che separa profondamente la destra dalla sinistra.
Le mezze misure sono un tradimento. Dopo le elezioni gli otto milioni
di comunisti daranno da pensare al “borghese”. E al ballottaggio
saranno persino qualche milione in più» (02.03.1932).
Bisogna scongiurare il
pericolo: malgrado le «goffaggini politiche», le «aberrazioni e le
spiacevolezze» dei nazisti, «bisogna restare legati a loro»
(28.10.1932). Occorre lasciarsi finalmente alle spalle «Weimar»,
che «fallì completamente di fronte al pericolo del bolscevismo –
pericolo che i filistei di oggi ancora non vedono» (04.02.1933). E,
poco dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa, scrive: «La
guerra comincia solo adesso. La brutalità della battaglia nell’est
è certamente di dimensione “cosmico-storica”» (20.07.1941).
Eccolo, il nazismo di
Heidegger: la missione storica della filosofia tedesca e della
politica del Reich è la salvezza dallo spettro che si aggira per
l’Europa. Un fantasma che nella Germania weimariana minaccia di
cambiare le sorti della storia del mondo.
Il Manifesto – 11 febbraio 2017
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