Torna l’autobiografia
dello scrittore francese che, dalla strada, conquistò Sartre e i
salotti di Parigi. Ne presentiamo parte della prefazione.
Walter Siti
Ladro d’amore
Chi ha conosciuto
l’ossessione erotica non può rileggere Genet senza sentirsi
personalmente coinvolto ma anche, purtroppo, senza sentirsi un
disertore: al di là delle differenze caratteriali e di talento,
ambientali e biografiche, Genet lo interpella direttamente, gli
chiede conto degli escamotages con cui ha cercato di morire per
rinascere, venendo a patti con la normalità della maggioranza e col
passare degli anni. Genet scrive a partire da una condizione
psicologica del tutto particolare e minoritaria, incontra personaggi
estremi ma la sua scrittura tende al generale, all’assoluto: ha
l’intemporalità di un classico.
Il romanzo della sua
autobiografia non si intitola “diario di un ladro” ma “Diario del
ladro”: non importano l’esattezza o la completezza delle
informazioni, né la consequenzialità temporale e logica delle
vicende, né tantomeno la giustificazione del medico o del sociologo,
importa la fissazione di un mito. «La sua autobiografia» scrive
Sartre «è una cosmogonia sacra: non racconta fatti, ma riti».
La scrittura di Genet non
si abbassa alla cronologia, disprezza il servilismo della chiarezza,
la banalità dei tessuti connettivi: va dritto a ciò che gli tronca
il fiato. L’ossessione erotica è un esercizio prolungato di apnea,
è l’attesa spasmodica e senza fine di quel che può solo deludere;
l’ossessione nega la realtà ma ha bisogno di rinfacciare
continuamente alla realtà la colpa di non essere sufficiente; è
l’intensità vitale proiettata su ciò che è morto da tempo, o non
è esistito che come mitica mancanza.
Genet ha trentaquattro
anni quando conosce Sartre ed è stato scarcerato da pochissimo (gli
resta qualche mese di condanna che non sconterà mai, e i suoi nuovi
amici intellettuali gli otterranno, per l’ennesimo furto, la grazia
presidenziale); ha già conosciuto Cocteau, folgorato dal poema
Condannato a morte, e la sua fama di “scrittore criminale” si
diffonde rapidamente a Parigi – le signore lo invitano nei loro
salotti, deliziosamente titillate dal brivido di poter essere
“rapinate” di qualche soprammobile.
Genet gioca la sua parte
col misto di astuzia e imbranata ingenuità che gli è proprio; per
essere un cronico, naturale dropout il suo successo editoriale sarà
sorprendente: grazie a un abilissimo agente letterario le sue opere
sbarcheranno negli Usa verso la metà degli anni Cinquanta e
influenzeranno la beat generation.
Ma Genet è fisicamente,
quasi geneticamente refrattario all’integrazione; lui stesso ne
chiama a testimone la propria faccia, quel «naso schiacciato non dal
pugno d’un uomo ma per aver urtato contro i cristalli che ci
tagliano fuori dal vostro mondo». (Il “noi” si riferisce
contemporaneamente ai delinquenti e agli omosessuali, in un nesso
causale, elettrico e amoroso che Genet non metterà mai in
discussione.)
Ma con Sartre le cose si
fanno più complicate: non è solo un mentore, un protettore, un
maestro; per Sartre, Genet è anche una cavia su cui applicare quel
metodo di “psicanalisi esistenziale” a cui affida un ruolo
notevole nella sua visione filosofica complessiva. Ci ha già provato
con Baudelaire, si porta dietro da anni il progetto di un lavoro
monumentale su Flaubert; l’esplosione improvvisa del “caso Genet”
lo porta a scrivere (uscirà nel 1952) un libro di settecento pagine,
Saint Genet comédien et martyr, che sarà per Genet stesso un segno
di gloria raggiunta e una formidabile trappola. [...]
Il rapporto di dare e
avere tra Sartre e Genet, nelle conversazioni tra il 1944 e il 1952,
è molto complesso: a Sartre appartiene l’invenzione del “mito
originario”, fissato nell’episodio di quando, all’età di dieci
anni, il piccolo trovatello viene sorpreso a rubare dalla famiglia
adottiva. Quello, per Sartre, è l’istante che tornerà sempre
nella vita di Genet, inchiodandolo all’icona del “ladro”,
costringendolo a diventare ciò che gli altri vogliono che sia, a
recitare continuamente la parte di se stesso; da lì deriverebbero
anche i modi della sua sessualità, “bloccata” sull’apparenza e
attratta da esseri deboli che a loro volta recitano la parte dei
bruti, in un claustrofobico gioco di specchi.
Lo sdoppiamento sarebbe
la figura tipica della sua letteratura, la negazione di sé in quanto
soggetto libero. L’acume critico è indubbio, coglie con precisione
violenta il nodo centrale: e Genet lo riconosce, lo fa proprio,
esagera in sartrismi. [...] Eppure, con la sorda ostinazione
dell’autodidatta di fronte a uno dei maggiori intellettuali
europei, Genet resiste a Sartre, gli oppone le proprie verità; su
una cosa soprattutto non cederà mai, sull’asserita (da Sartre)
priorità del furto rispetto all’attrazione omosessuale [...].
Quel che colpisce
nell’ossessione di Genet è l’inestricabile complementarità tra
autolesionismo spettacolare (simile a quello di certi mistici,
Jacopone o i “santi folli” bizantini) e attrazione per
l’autoritarismo assoluto e tirannico (i guardiani del bagno penale,
i poliziotti, le SS); sadomasochismo, certo, ma intinto in una
tenerezza che lascia esterrefatti. [...] «Il mio libro» scrive alla
fine del Diario «divenuto la mia Genesi, contiene i comandamenti che
non potrò trasgredire»; il Diario non è una biografia romanzata, è
il romanzo della scoperta di sé, anzi dell’invenzione di sé.
Jean Genet
I fatti empirici sono
trattati con disinvolta sprezzatura: il periodo spagnolo è molto
dilatato rispetto al vero, sui sei anni di servizio militare
sostanzialmente si sorvola, si narra una diserzione dalla Legione
Straniera in realtà mai avvenuta. Conta il succo, non la cronaca, il
momento della memoria e quello della scrittura presente si
confondono; hegelianamente (ma anche proustianamente) il reale conta
solo in quanto è razionale.
Tutto questo varrebbe ben
poco se non fosse sostenuto dalla scrittura abbagliante di Genet: uno
stile fastoso, barocco, di una ricchezza metaforica che sfida
l’eccesso a ogni pagina[...]. Le metafore barocche portano in sé
la metamorfosi; tutto è in trasformazione nelle pagine del Diario:
la Spagna diventa Belgio, gli uomini diventano donne, le galere
dimore regali, l’inverno diventa primavera, i corpi altari, santi
gli assassini – «la santità consiste nel costringere il diavolo a
essere Dio».
Ottenere il
riconoscimento del Male per via di bellezza, questa è la missione di
Genet: «Del male imporrò la visione candida, dovess’io, in tale
ricerca, lasciar la pelle, l’onore e la gloria». In un’epoca
poststilistica come la nostra, in cui la «forma delle parole »
sembra impallidire o si trasforma al massimo in un hashtag, leggere
Genet significa ritrovare uno dei compiti fondamentali della
scrittura, che è quello di farci complici dell’inaccettabile.
La Repubblica – 15
febbraio 2017
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