La Rivoluzione partì dalle donne russe
«L’appello
diretto a scendere in piazza era venuto da un certo Linde che scrisse
così il suo nome nella storia della rivoluzione. Scienziato, matematico,
filosofo, Linde era al di fuori dei partiti, era un convintissimo
fautore della rivoluzione e desiderava ardentemente che la rivoluzione
stessa mantenesse quanto prometteva». Così Lev Trockij nella Storia della rivoluzione russa,
pubblicata nel 1932, descrisse il promotore di una dimostrazione
durante la rivoluzione che cento anni fa abbatté l’autocrazia zarista.
La rivoluzione ebbe un inizio imprevisto a Pietrogrado il 23
febbraio, secondo il calendario giuliano vigente in Russia,
corrispondente all’8 marzo del calendario occidentale. La giornata era
incominciata con un pacifico corteo di operaie, studentesse e signore
della borghesia, per celebrare la giornata internazionale della donna,
mentre migliaia di donne e di operai in sciopero protestavano per la
mancanza del pane, insieme ad altre migliaia di operai sospesi dal
lavoro per la serrata delle fabbriche. Gli approvvigionamenti della
capitale erano ostacolati dal blocco delle ferrovie per un inverno molto
gelido. Nelle settimane precedenti la temperatura media era di -12 °C.
La mattina del 23 febbraio un sole splendente e una temperatura mite
favorirono la partecipazione delle masse alle dimostrazioni di protesta.
Uno storico ha osservato che il fattore climatico «svolse un ruolo
tutt’altro che indifferente negli eventi storici di quel periodo»
(Richard Pipes, La rivoluzione russa, Mondadori 1995). Le fotografie mostrano donne che sfilano gioiosamente. Ma nel pomeriggio, quando alle migliaia di manifestanti si aggiunsero ancora centomila operai in sciopero, avvennero i primi scontri con la polizia. Nei due giorni successivi gli operai in sciopero erano quasi duecentomila e gli assalti della polizia furono più violenti, con numerose vittime fra i manifestanti. La protesta per il pane si trasformò in un’insurrezione popolare contro l’autocrazia. Era iniziata la «rivoluzione di febbraio».
Da tre anni la Russia era in guerra contro la Germania. Sconfitta dopo sconfitta, il più numeroso esercito del mondo, con quasi due milioni di vittime, era allo stremo, come erano allo stremo il proletariato urbano e i contadini, che formavano la massima parte dei centosettanta milioni di sudditi dello zar Nicola II. Nel 1913, lo zar aveva solennemente celebrato il terzo secolo di regno della dinastia Romanov: tre anni dopo, nessun prestigio rimaneva alla monarchia tarata e corrotta, con un despota inetto e debole, irremovibile solo nella sua ossessione autocratica, che gli impedì di accorgersi dell’agonia del suo regime.
Non se ne accorse neppure la zarina, altrettanto dispotica, che il 25 febbraio aveva scritto al consorte, lontano dalla capitale: «Si tratta di un movimento promosso da teppisti... Se facesse un po’ più di freddo sarebbero rimasti tutti a casa».
Nicola II ordinò di reprimere le agitazioni con le armi, convinto di poter stroncare la rivolta nel sangue, come aveva fatto nel 1905. Invece i soldati si ammutinarono e si unirono agli operai in rivolta. Un’immensa folla armata travolse ogni resistenza poliziesca. La violenza dilagò nella capitale con migliaia di vittime fra la polizia, i rivoltosi e la gente comune.
Il 2 marzo lo zar abdicò e due giorni dopo l’autocrazia crollò. Il potere statale fu assunto da un governo provvisorio formato da esponenti della Duma, il parlamento russo, che abolì la pena di morte, emanò un’amnistia generale, concesse libertà di stampa e di riunione, annullò le discriminazioni di religione, di razza e di classe, adottò il suffragio universale, e si impegnò per far eleggere un’assemblea costituente. Tuttavia, il suo operato fu sottoposto di fatto al controllo del comitato dirigente del Soviet, il Consiglio dei soldati e degli operai, che divenne un potere indipendente dal governo statale.
La «rivoluzione di febbraio» fu un’insurrezione popolare che nessuno aveva previsto, preparato e promosso. I capi dei partiti che da decenni lottavano per la rivoluzione furono colti di sorpresa. Trockij era a New York, Stalin in Siberia, Lenin a Zurigo. All’inizio del 1917, il quarantaseienne capo del bolscevismo aveva detto a un’assemblea di giovani operai: «Noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione»; quando apprese dai giornali svizzeri che in Russia era scoppiata la rivoluzione, disse alla moglie: «È sbalorditivo! È una cosa tanto incredibile e insperata!». Uno dei pochi dirigenti bolscevichi che era Pietrogrado il 25 febbraio, esclamò: «Ma quale rivoluzione? Date agli operai qualche etto di pane e il movimento si esaurirà».
Il collasso dell’autocrazia avvenne per una rivoluzione «senza capi, spontanea e anonima», osservò nel 1935 William H. Chamberlin uno dei primi storici della rivoluzione russa. Eppure, come sempre è accaduto nei grandi avvenimenti, ci fu anche l’intervento risolutivo dell’individuo: come quel «certo Linde», citato da Trockij come l’organizzatore di una dimostrazione armata, fatta il 20 aprile 1917, per incitare il Soviet a prendere il potere contro il governo provvisorio, accusato di voler proseguire la guerra imperialista. Lo stesso episodio è ricordato da Chamberlin, che parla della «grande popolarità e ascendente tra i soldati» di Linde. Ma altri storici hanno ignorato il suo ruolo nella rivoluzione russa. Dall’oblio lo ha riscattato Orlando Figes nel suo splendido libro La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924 (Corbaccio 1997), dove ha messo in risalto la parte decisiva del giovane sergente «nell’imprimere una svolta alla rivoluzione di febbraio», capeggiando l’ammutinamento dei soldati.
Nel 1922, il giornalista Nikolaj Suchanov, nelle Cronache della rivoluzione russa (Editori Riuniti 1967), definì «il soldato Linde» «un bolscevico». Linde era un rivoluzionario democratico: «La democrazia è una cosa che va difesa e per la quale si deve combattere», aveva scritto mentre si recava al fronte per ordine del Soviet con il compito di ricondurre alla disciplina i soldati disertori che spargevano il terrore. Con coraggio, Linde li affrontò cercando di persuaderli a rientrare nei ranghi e combattere in difesa della libertà conquistata dalla rivoluzione popolare. Ma alcuni disertori bolscevichi lo accusarono di essere un agente zarista e lo linciarono.
Intanto, il 3 aprile, il capo dei bolscevichi era giunto a Pietrogrado, dopo aver attraversato la Germania in treno col consenso del governo tedesco. Deciso a conquistare il potere, nel suo programma rivoluzionario noto come le Tesi di aprile, Lenin proclamò che la Russia era diventata «il Paese più libero del mondo». Otto mesi dopo, la libertà conquistata dal popolo con la rivoluzione di febbraio fu annientata, con la rivoluzione di ottobre, da Lenin e dal partito bolscevico.
Da IL SOLE24ORE, Domenica 5 marzo 2017
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