Domenica scorsa, sulle pagine culturali de Il Sole 24 Ore, è apparso un importante articolo di Carlo Ossola che, oltre a rendere definitiva giustizia all' opera educativa di Don Milani, ricostruisce con ammirevole onestà e obiettività il contesto storico da cui scaturì la sua famosa Lettera a una professoressa.
Ripropongo di seguito, integralmente, l'articolo anche per capire meglio cosa andrebbe fatto oggi. fv
Don Milani. Per una scuola
democratica
di Carlo Ossola
È apparso su questo
giornale, domenica scorsa 26 febbraio 2017, l’articolo di Lorenzo Tomasin, «Io
sto con la professoressa», a proposito dei 50 anni di Lettera a una
professoressa (1967) di don Lorenzo Milani. La tesi che l’autore sostiene (e
cioè che il libro di don Milani abbia contribuito a scardinare la scuola
italiana e la sua tradizione di formazione) ha remote origini, sin dalla
graffiante commemorazione di Giacomo Devoto. Purtroppo un facile accedere al gusto
del paradosso trascura i dati storici essenziali per comprendere quel libro. E
prima di tutto la nascita nel 1963 della «Scuola media unica» (legge
31/12/1962; in Gu 30/1/1963, n.27).
Prima di allora la «Scuola
di Avviamento professionale» immetteva al lavoro a 14 anni; la Scuola Media
dava accesso alle Superiori. Unificare i percorsi e non permettere il lavoro
minorile (legge 17/10/1967, n. 977) se non dai 15 anni, fu un processo di
modificazione sociale enorme, che coinvolse centinaia di migliaia di giovani. I
docenti vi arrivarono impreparati e spesso sgomenti; nacquero scuole serali di
quartiere, tanto più nelle città del Nord, dove intanto erano migrati – negli
anni appunto del boom economico – famiglie e interi villaggi dal Sud, con
giovani in possesso, al più, della licenza di V elementare. Va detto, altresì,
che Lettera a una professoressa non fu l’unico libro testimone di quella
radicale trasformazione; magari il più noto, per la figura del suo autore, per
i processi subiti (cfr. L’obbedienza non è più una virtù , 1965) e per
l’emarginazione pervicace inflittagli. Ma non si può dimenticare che sin dal
1945, mons. G. P. Carroll-Abbing fonda, per orfani e giovani sbandati per la
guerra appena conclusa, l’«Opera per il Ragazzo della Strada» e subito dopo,
1953, la «Città dei ragazzi di Roma», basate sul metodo della responsabilità
partecipativa e dell’autogoverno dei ragazzi stessi. Poco dopo, nel 1951,
nacque – anche in Italia – il Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) che si
ispirava alla pedagogia popolare di Célestin e Élise Freinet; da cui – prima di
don Milani – il libro di Mario Lodi, C’è speranza se questo accade a Vho ,
1963. E ancora come dimenticare l’opera di due coetanei (entrambi 1924-1997)
quali Alberto Manzi e Danilo Dolci? Il primo, dopo aver insegnato in istituti
di «Rieducazione e Pena» e dopo esperienze “di terreno” in Amazzonia, fondò e
diresse, alla tv italiana (e proprio in quegli anni 1960-68) la straordinaria
esperienza di alfabetizzazione Non è mai troppo tardi ». Il secondo,
impegnatosi in Sicilia nelle lotte contadine non violente, e nella denuncia
della mafia, aveva pubblicato, nel 1964, presso Einaudi un celebre saggio Verso
un mondo nuovo , fondando poco dopo il Centro Educativo Sperimentale di Mirto.
Quando a tutto questo fiorire si aggiungano, sin dal 1949, le opere di
innovazione didattica della matematica di Emma Castelnuovo e del suo movimento
scientifico, si può concludere che don Milani dette forma concisa e mordente a
un lavoro, partito dalla Costituente, di vent’anni di fecondità democratica:
«La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di
due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che
seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi
toglie la conoscenza delle cose» (da Lettera a una professoressa ).
Dirò di più: l’ampio
movimento civile relativo alla scuola, non s’intende appieno se non si associa
quello, a esso parallelo (e spesso integrato, come nella esperienza
olivettiana), del riscatto delle «lingue tagliate» e dei «diritti tagliati» dei
lavoratori: movimento, anch’esso, articolato e vasto, che ebbe i suoi manifesti
e testimoni negli stessi anni Sessanta: Giovanni Pirelli, Paolo Volponi,
Ottiero Ottieri, Luciano Bianciardi, Klaus Davì, autori di quello che venne
chiamato il «romanzo industriale». Un insieme di analisi serrate e di utopie
generose che trovarono in Giacomo Brodolini (ministro del Lavoro nel 1968-69)
un efficace interprete politico, il quale presentò, il 24 giugno 1969 – poche
settimane prima della morte – un disegno di legge: «Norme per la tutela della
libertà e della dignità dei lavoratori» che divenne la legge n. 300 del 20
maggio 1970, nota come «Statuto dei diritti dei lavoratori». Si trattava
insomma di creare per tutti cittadinanza nella dignità, e nella politica
cercare l’uguaglianza: «Conoscere i ragazzi dei poveri e amare la politica è
tutt’uno. […] Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non
presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo» (Lettera a una
professoressa ).
Quegli anni 1963-1969
(«Appartenere alla massa e possedere la parola», «Appartenere alla massa e
possedere il lavoro») furono i più degni della Repubblica Italiana. E non si
possono imputare ai Padri le colpe dei figli che da essi non hanno saputo
ereditare (cominciando dall’impazienza, spesso violenta, del Sessantotto).
Oggi, quest’Italia incapace di dar corpo alla Costituzione, avrebbe bisogno di
molti don Milani e di molti Brodolini: e di far scuola sempre, anche la domenica
mattina, come lassù a Barbiana.
Da “Il Sole
24 Ore” del 5 marzo 2017
Bernardo Puleio: Grazie Francesco. Avevo letto, con sgomento e sdegno il precedente articolo
RispondiEliminaConosco il merito di Ossola: da studente universitario ho letto un suo memorabile saggio su Baldassarre Castiglione e la corte. Poi, l'ho ascoltato con grande ammirazione in diverse edizioni della settimana dantesca. Poi, lo seguo sul domenicale del sole 24 ore: è uno studioso serio che fa onore all'Italia e che ha insegnato e forse ancora insegna presso il prestigiosissimo College de France. La lettera di Don Milani mette in guardia contro certe storture antidemocratiche interne al sistema. Siccome i reazionari oggi rialzano le corna (pardon la testa), assistiamo a revisionismi disgustosi. Ma come disse Sciascia, per fortuna questo paese è pieno di eretici. Più di quanto si pensi