09 marzo 2017

PER UN PAESE E UNA SCUOLA DEMOCRATICA


Domenica scorsa, sulle pagine culturali de Il Sole 24 Ore, è apparso un importante articolo di Carlo Ossola che, oltre a rendere definitiva  giustizia all' opera educativa di Don Milani, ricostruisce con ammirevole onestà e obiettività il contesto storico da cui scaturì la sua famosa Lettera a una professoressa.

Ripropongo di seguito, integralmente, l'articolo anche per capire meglio cosa andrebbe fatto oggi.  fv


Don Milani. Per una scuola democratica
di Carlo Ossola

È apparso su questo giornale, domenica scorsa 26 febbraio 2017, l’articolo di Lorenzo Tomasin, «Io sto con la professoressa», a proposito dei 50 anni di Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani. La tesi che l’autore sostiene (e cioè che il libro di don Milani abbia contribuito a scardinare la scuola italiana e la sua tradizione di formazione) ha remote origini, sin dalla graffiante commemorazione di Giacomo Devoto. Purtroppo un facile accedere al gusto del paradosso trascura i dati storici essenziali per comprendere quel libro. E prima di tutto la nascita nel 1963 della «Scuola media unica» (legge 31/12/1962; in Gu 30/1/1963, n.27).
Prima di allora la «Scuola di Avviamento professionale» immetteva al lavoro a 14 anni; la Scuola Media dava accesso alle Superiori. Unificare i percorsi e non permettere il lavoro minorile (legge 17/10/1967, n. 977) se non dai 15 anni, fu un processo di modificazione sociale enorme, che coinvolse centinaia di migliaia di giovani. I docenti vi arrivarono impreparati e spesso sgomenti; nacquero scuole serali di quartiere, tanto più nelle città del Nord, dove intanto erano migrati – negli anni appunto del boom economico – famiglie e interi villaggi dal Sud, con giovani in possesso, al più, della licenza di V elementare. Va detto, altresì, che Lettera a una professoressa non fu l’unico libro testimone di quella radicale trasformazione; magari il più noto, per la figura del suo autore, per i processi subiti (cfr. L’obbedienza non è più una virtù , 1965) e per l’emarginazione pervicace inflittagli. Ma non si può dimenticare che sin dal 1945, mons. G. P. Carroll-Abbing fonda, per orfani e giovani sbandati per la guerra appena conclusa, l’«Opera per il Ragazzo della Strada» e subito dopo, 1953, la «Città dei ragazzi di Roma», basate sul metodo della responsabilità partecipativa e dell’autogoverno dei ragazzi stessi. Poco dopo, nel 1951, nacque – anche in Italia – il Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) che si ispirava alla pedagogia popolare di Célestin e Élise Freinet; da cui – prima di don Milani – il libro di Mario Lodi, C’è speranza se questo accade a Vho , 1963. E ancora come dimenticare l’opera di due coetanei (entrambi 1924-1997) quali Alberto Manzi e Danilo Dolci? Il primo, dopo aver insegnato in istituti di «Rieducazione e Pena» e dopo esperienze “di terreno” in Amazzonia, fondò e diresse, alla tv italiana (e proprio in quegli anni 1960-68) la straordinaria esperienza di alfabetizzazione Non è mai troppo tardi ». Il secondo, impegnatosi in Sicilia nelle lotte contadine non violente, e nella denuncia della mafia, aveva pubblicato, nel 1964, presso Einaudi un celebre saggio Verso un mondo nuovo , fondando poco dopo il Centro Educativo Sperimentale di Mirto. Quando a tutto questo fiorire si aggiungano, sin dal 1949, le opere di innovazione didattica della matematica di Emma Castelnuovo e del suo movimento scientifico, si può concludere che don Milani dette forma concisa e mordente a un lavoro, partito dalla Costituente, di vent’anni di fecondità democratica: «La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» (da Lettera a una professoressa ).
Dirò di più: l’ampio movimento civile relativo alla scuola, non s’intende appieno se non si associa quello, a esso parallelo (e spesso integrato, come nella esperienza olivettiana), del riscatto delle «lingue tagliate» e dei «diritti tagliati» dei lavoratori: movimento, anch’esso, articolato e vasto, che ebbe i suoi manifesti e testimoni negli stessi anni Sessanta: Giovanni Pirelli, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Luciano Bianciardi, Klaus Davì, autori di quello che venne chiamato il «romanzo industriale». Un insieme di analisi serrate e di utopie generose che trovarono in Giacomo Brodolini (ministro del Lavoro nel 1968-69) un efficace interprete politico, il quale presentò, il 24 giugno 1969 – poche settimane prima della morte – un disegno di legge: «Norme per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori» che divenne la legge n. 300 del 20 maggio 1970, nota come «Statuto dei diritti dei lavoratori». Si trattava insomma di creare per tutti cittadinanza nella dignità, e nella politica cercare l’uguaglianza: «Conoscere i ragazzi dei poveri e amare la politica è tutt’uno. […] Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo» (Lettera a una professoressa ).
Quegli anni 1963-1969 («Appartenere alla massa e possedere la parola», «Appartenere alla massa e possedere il lavoro») furono i più degni della Repubblica Italiana. E non si possono imputare ai Padri le colpe dei figli che da essi non hanno saputo ereditare (cominciando dall’impazienza, spesso violenta, del Sessantotto). Oggi, quest’Italia incapace di dar corpo alla Costituzione, avrebbe bisogno di molti don Milani e di molti Brodolini: e di far scuola sempre, anche la domenica mattina, come lassù a Barbiana.

Da “Il Sole 24 Ore” del 5 marzo 2017

1 commento:

  1. Bernardo Puleio: Grazie Francesco. Avevo letto, con sgomento e sdegno il precedente articolo
    Conosco il merito di Ossola: da studente universitario ho letto un suo memorabile saggio su Baldassarre Castiglione e la corte. Poi, l'ho ascoltato con grande ammirazione in diverse edizioni della settimana dantesca. Poi, lo seguo sul domenicale del sole 24 ore: è uno studioso serio che fa onore all'Italia e che ha insegnato e forse ancora insegna presso il prestigiosissimo College de France. La lettera di Don Milani mette in guardia contro certe storture antidemocratiche interne al sistema. Siccome i reazionari oggi rialzano le corna (pardon la testa), assistiamo a revisionismi disgustosi. Ma come disse Sciascia, per fortuna questo paese è pieno di eretici. Più di quanto si pensi

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