Al Mudec di Milano una mostra presenta il primo periodo dell'opera di
Kandinskij. Splendido l'uso del colore. "Volevo che gli spettatori
entrassero e si muovessero nei miei quadri", così il pittore spiegò il
respiro cosmico delle sue tele che la scelta dell'astrattismo
trasformerà in un linguaggio magico.
Chiara Gatti
Kandinskij.
L'iniziazione del pittore nella Russia profonda
Alla parete del suo
studio di Monaco, nel 1911, su una tappezzeria a scacchi, era appesa
l’immagine di un uccello del paradiso. Una stampa popolare russa,
un “lubok”, che vegliava su di lui. Appoggiato col gomito alla
scrivania, Vasilij osservava altre carte dipinte. Una fotografia lo
ritrae circondato da una mappa di motivi folclorici: icone e oggetti
votivi della Madre Russia. Da queste fonti di ispirazione, succhiava
il midollo di un passato che gli apparteneva intimamente. Il padre
nobile dell’astrattismo era un nostalgico e insieme un visionario.
Un paladino errante sulla linea del tempo, alla ricerca delle sue
origini, dei geni tartari, delle tracce dei suoi avi calati dalla
Siberia orientale con un carico di fiabe, leggende, riti sciamanici
sedimentati nella memoria. Per sempre.
Kandinskij. Il cavaliere
errante. In viaggio verso l’astrazione è il titolo della mostra
organizzata da 24 Ore Cultura e curata da Silvia Burini e Ada
Masoero, che racconta al Mudec di Milano, fino al 9 luglio, vent’anni
di riflessione, ragione e sentimento, violento rifiuto del
positivismo e risveglio dell’anima alla ricerca di una dimensione
spirituale dell’arte. Con un sogno intoccabile: dipingere
l’invisibile.
Il percorso, chiaro nella
sequenza dei momenti, raccoglie 49 opere del maestro, in arrivo
dall’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Galleria Tret’jakov e dal
Puškin di Mosca, oltre a vari musei esteri, e vanta un taglio
antropologico, che affonda nel cuore di un uomo innamorato della sua
terra. Un viaggio à rebours accosta ai dipinti, agli oli, agli
acquerelli, alle silografie, 85 reperti di un mondo ai confini delle
geografie: oggetti quotidiani, elementi decorativi tradizionali,
tessuti ricamati e bauli dipinti con simboli arcaici, sopravvissuti
nella cultura contadina dell’estremo nord. Questo universo favoloso
ed esoterico, lontanissimo dal razionalismo dell’Europa moderna, lo
sedusse fin da ragazzo, destinato a depositarsi nel ricordo e a
riemergere con energia primordiale nella sua pittura matura.
Durante una spedizione di
ricerca nelle campagne ugro-finniche delle Vologda, invitato dalla
Società imperiale Amici della scienza a studiare le credenze pagane
nella provincia più profonda, Kandinskij, giovane allievo dei corsi
di giurisprudenza, entrò nelle izbe dei popoli sirieni. Era il 1889.
«Non dimenticherò mai le grandi case di legno dai tetti scolpiti.
In quelle case meravigliose provai impressioni rare che mai più si
rinnovarono. Mi insegnarono a commuovermi, a vivere in pittura ».
Le slitte di Novgorod, i
giocattoli in legno scolpiti nella regione del Vladimic, i battipanni
delle donne di Kerchomja, le canocchie per filare la lana di
Archangel’sk. Santi e guerrieri, orsi e lupi, eroi e regine
illustravano scene fiabesche, tratteggiate su ogni utensile. Mandrie
di cavallini dalle criniere spettinate galoppavano nelle
rappresentazioni incise sul legno, nei colori alle pareti, nei libri
delle canzoni, sulle stufe e le cassapanche. La nonna e la zia
avevano intonato per lui, da bambino, nelle notti gelide di Mosca,
brani di quelle melodie della steppa. Quando si trovò davanti, nella
sua avventura cognitiva, le radici della sua storia, fu un’ipnosi
regressiva. Un’epifania. E addio studi di legge, addio alla
cattedra che gli fu offerta in Estonia. La prima moglie, la cugina
Anja, compagna di università e intellettuale, reagì duramente alla
decisione di abbandonare ogni cosa per partire in direzione di Monaco
e iscriversi all’Accademia dove insegnava Franz von Stuck.
La malia del simbolismo,
i riccioli dello Jugendstil, le ombre del medioevo tedesco, la musica
mentale di Schönberg, la teosofia di Madame Blavatsky e l’anima
senziente di Steiner si mescolarono alle reminiscenze del suo viaggio
iniziatico. E tutto si riversò nella sua pittura illuminata da uno
sguardo interiore. Dal dialogo serrato dei motivi che rimbalzano fra
dipinti e candelabri, carte, coperte e scatole in corteccia di
betulla, emergono segni indelebili di riti e miti ortodossi sublimati
nei colori dell’astrazione. I dischi solari dei sirieni ispirarono
lo scudo di San Giorgio nel magnifico Cavaliere del 1914. Il serpente
infernale delle icone apocalittiche striscia come un’onda del
destino nell’Ouverture del 1919. Il carro di fuoco del profeta Elia
deflagra nel profondo rosso dell’Improvvisazione del Puškin. Lo
stesso uccello del paradiso vola in scene magiche, sopra le cupole
d’oro del Cremlino.
Erano ormai già passati
gli anni del Blaue Reiter, il cavaliere azzurro, fondato con Franz
Marc nel 1911 e si avvicinava il tempo leggendario della docenza al
Bauhaus. Ma i tamburi della taiga risuonavano ancora nelle sue vene.
Una tesi di fondo aleggia
lungo il percorso: il Kandinskij popolare degli anni Venti è solo un
epigono di se stesso. Kandinskij prima di Kandinskij rivela l’origine
del genio e il debito verso i moti ancestrali della sua terra. Lo si
vede dai toni che accendono i paesaggi di Murnau o le vedute della
Piazza Rossa. «Mosca si fonde in questo sole, in una macchia che
mette in vibrazione il nostro intimo, l’anima intera come una tuba
impazzita. Non è questa uniformità in rosso l’ora più bella!
Essa è l’accordo finale della sinfonia che avviva ogni colore, che
fa suonare Mosca come il fortissimo di un’orchestra gigantesca».
La Repubblica – 15 marzo 2017
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