13 luglio 2012

BASSANI VISTO DA ARBASINO




Alberto Arbasino,  Ritorno a Bassani

II romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani (Feltrinelli, pp. 800, 40 euro) appare come una presa di possesso territoriale forse analoga ai Dubliners di James Joyce, ma piuttosto improbabile per altre capitali o ex-capitali grandi e piccole come Roma, Parigi, Vienna, Londra. I segreti di Milano di Giovanni Testori o I segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci si consideravano egregi esempi di narratività piuttosto tradizionale a un livello che mezzo secolo fa era medio-borghese, e oggi potrebbe sembrare elitario, agli utenti.

Attualmente, infatti, il lettore medio di bestseller desidera piuttosto commissari e noir e killer e delitti e indagini, a Ferrara come a Voghera o a Novara o Matera. Magari coppie in crisi e intellettuali in crisi, in un bilocale con problemi di fine-mese e posti-motorino. O nostalgiche rimembranze degli antichi sapori e odori dei quattro nonni ed otto bisnonni, di decine di zie e cognate e cugine con le loro ricette e salsine pubblicizzate una ad una su pagine di giornali piene di griffe e fragranze e vacanze e prezzi di mode giovani per qualunque età.

Lo stile appare fornito dagli stilisti, mentre ogni aura risulta provvista dai vari media, con siti, fiction, format, pensieri deboli e facili, entertainment, relax. File e code e notti bianche per qualsiasi evento. Una tv del dolore gradita a tutti, con tanti cattivi e tante vittime. Continue e compatte commemorazioni collettive di stragi ed eccidi e massacri attempati o quotidiani con sfilate e fiaccolate luttuose nella puntuale seriosità cimiteriale. Dolorosa e doverosa. Sui media minori e nella vita quotidiana di massa, invece, meticolose discussioni e trasmissioni interminabili su bazzecole calcistiche e automobilistiche.

In caduta verticale e marginale, e confinata nei territori specialistici – più o meno ovattati e blindati – ogni lettura per impegno o svago di buon livello, come si usava appunto cinquant’anni fa.

Si era normalmente abituati, allora, piuttosto, a discussioni e dibattiti con spazi centrali per racconti e saggi su «Paragone» e «Nuovi Argomenti» e «Tempo Presente», prima ancora che uscissero in volume. E polemiche importanti su come usare il boom economico, senza precedenti per la condizione economica degli scrittori bisognosi che si erano “arrangiati” durante il fascismo. Approfittare del boom per le avanguardie sperimentali, dopo aver sfamato i piccini? Oppure, sfruttarlo riutilizzando la narratività tradizionale, e magari aggiornandola, come faceva Moravia coi Racconti romani sul «Cor­riere della sera» e La ciociara?

Possono sembrare «quisquilie e pinzillacchere», oggidì. Ma a quei tempi, nei primi anni Sessanta, occupavano paginoni di gossip letterario, ed ebbero effetti editoriali importanti, anche drammatici. Nel ’63, infatti, sotto il patronato di Luciano Anceschi, direttore del «Verri» e sponsor di ogni avanguardia europea, si fondò a Palermo il «Gruppo 63», piattaforma di coetanei sperimentali come Pagliarani, Sanguineti, Eco, Manganelli, Barilli, Giuliani, Guglielmi, Colombo, il sottoscritto, e molti altri. Vi si precipitarono «i Daci e i Moravi» per seguire i procedimenti. Ma il vero antagonista era Giorgio Bassani, in quanto esponente della Tradizione (o del Sistema) contro l’Alternativa.

Lo so che tutto questo adesso pare ridicolo, e contrario ad ogni “leggerezza”. Ma il mio romanzone Fratelli d’Italia venne tirato in ballo con acidità e gossip, giacché non storico ma al tempo presente, e allora pettegolezzaio sulla società romana contemporanea. Vi furono stronzate che coinvolgevano i «migliori nomi»: letture ad alta voce in pizzeria di copie provvisorie che avevo dato in lettura (come si usa) per eliminare dettagli involontari ma forse precisi; megere che circolavano dichiarando che «quella lì sarei io, ma io non sono affatto così»…
Fu increscioso. Bassani ed io ci seccammo, ovviamente. Oltre tutto, lui aveva pubblicato i miei primi “omnibus” nella sua «Biblioteca di letteratura» feltrinelliana. E qui vorrei rievocare un grazioso episodio. Gli avevo mandato L’Anonimo lombardo presso «Botteghe Oscure», ma qualche pecione redazionale aveva smarrito la letterina d’accompagno. Così l’Anonimo rimase a lungo tale, perché i colleghi letterati non ne capirono la fonte. Solo Pasolini l’individuò. E così venne pubblicato, in un grosso volume che includeva Le piccole vacanze appena edito da Calvino per Einaudi. Anche perché allora tanti scrittori e registi venivano denunciati da vari pm “competenti”, ma si diceva che questi non leggessero oltre le prime pagine. Parigi o cara fu invece pubblicato nella «Biblioteca di letteratura», perché – sostenne Bassani – costituiva un romanzo di formazione che si può scrivere solo una volta nella vita.

Fratelli d’Italia ovviamente non gli piaceva: un collage di frammenti giornalistici, giustamente lo definì: non solo contrario ad ogni buona tradizione narrativa (e proprio per questo lo composi così, con una struttura che riorganizzava i frammenti), ma anche oggetto di gossip spiacevoli. Che ci voleva allora per spostarlo dalla collana del Gattopardo a quella del Dottor Zivago? No problem, secondo Giangiacomo Feltrinelli. Ma poi tante beghe editoriali interne divennero personali, e me ne andai in America.

In quei lontani tempi, non esistevano ancora gli editors e managers di tipo commerciale. E si consultavano gli amici scrittori per suggerimenti soprattutto stilistici. Ricordo che Mario Soldati considerava decisivi i nomi dei personaggi. Con argomenti anche perentori: «Dame in stile anni Trenta? Era basilare il pittore Ferruccio Ferrazzi! Dunque le devi chiamare Ferri-Fazzi!». E così Bassani mi chiedeva se «Malnate» fosse un cognome appropriato per un personaggio lombardo dei Finzi-Contini. Gli feci notare che in Brianza le località sono in «ate», mentre i cognomi sono in «ati». E oltre tutto, le nonne d’una volta chiamavano «malnatt» i nipotini bricconcelli. Però lui preferiva Malnate. Poi, la presentazione del romanzo fu trionfale, da Einaudi, a Roma, nel ’62, con Soldati e Garboli e Goffredo Bellonci e il sottoscritto, e altri ancora. E qualche gossip inter nos perché Bassani sfoggiava un paltò cammello mai ancora visto su un autore nostrano.

Si ridacchiava insieme (ma lui era solenne, privo di ironia), quando Fedele d’Amico ironicamente gli diceva «senti un po’ ’sta caciaretta», e sedeva al piano eseguendo «B-B-B-ach!». O quando in campagna da Luigi Magnani entrava il padre ed era identico a «B-B-B-rahms!». La maestosa balbuzie funzionava infatti per le «B» iniziali (come la sua), e si rimpianse poi di non averlo interpellato sulle concittadine Balboni, spose di Antonioni e di Pasinetti.

Ma che Ferrara “stretta” (direbbe Leopardi), in questo Romanzo senza Estensi (come interessavano alla Bellonci), né Metafisica e De Chirico (quanta letteratura!), e senza i vari nobili o “busoni”, come venivano chiamati i ferraresi dai vari conterranei. E in una collana feltrinelliana di «Comete» che (ai miei tempi) significava avanguardie, ma si presenta adesso, per Bassani, come un “Meridiano” Mondadori alla buona, senza rilegature o apparati, come qui.

Bassani fu sempre serissimo, nel portamento come sulla pagina. Con pena e fatica praticamente manzoniane, dichiarava, scrisse e riscrisse parola dietro parola sacralmente ogni trama, costruendo e mai decostruendo personaggi e dialoghi con raffinatezze minuziose. Ah, quel gusto ossessivo per i dettagli e ninnoli puntuali, sofisticati, significanti, nella pittura d’assieme… Li apprezzavamo storicamente, insieme, quando erano di moda. Peccato che poi la letteratura e le arti sceniche abbiano preso vie diverse, prive di perfezionismi per i protagonisti e i caratteristi e i bibelots: zucarìn, Skiwasser, Nautilus, il giovane Panzini, il giovanissimo Valgimigli, la Dilambda, i làttimi…

(Da: La Repubblica del 26 maggio 2012)

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