Alberto
Arbasino, Ritorno a
Bassani
II romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani (Feltrinelli, pp. 800, 40 euro)
appare come una presa di possesso territoriale forse analoga ai Dubliners di
James Joyce, ma piuttosto improbabile per altre capitali o ex-capitali grandi e
piccole come Roma, Parigi, Vienna, Londra. I segreti di Milano di
Giovanni Testori o I segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci si
consideravano egregi esempi di narratività piuttosto tradizionale a un livello
che mezzo secolo fa era medio-borghese, e oggi potrebbe sembrare elitario, agli
utenti.
Attualmente, infatti, il lettore medio di bestseller desidera piuttosto
commissari e noir e killer e delitti e indagini, a Ferrara come a Voghera o a
Novara o Matera. Magari coppie in crisi e intellettuali in crisi, in un
bilocale con problemi di fine-mese e posti-motorino. O nostalgiche rimembranze
degli antichi sapori e odori dei quattro nonni ed otto bisnonni, di decine di
zie e cognate e cugine con le loro ricette e salsine pubblicizzate una ad una
su pagine di giornali piene di griffe e fragranze e vacanze e prezzi di mode
giovani per qualunque età.
Lo stile appare fornito dagli stilisti, mentre ogni aura
risulta provvista dai vari media, con siti, fiction, format, pensieri
deboli e facili, entertainment, relax. File e code e notti bianche per
qualsiasi evento. Una tv del dolore gradita a tutti, con tanti cattivi e tante
vittime. Continue e compatte commemorazioni collettive di stragi ed eccidi e
massacri attempati o quotidiani con sfilate e fiaccolate luttuose nella
puntuale seriosità cimiteriale. Dolorosa e doverosa. Sui media minori e nella
vita quotidiana di massa, invece, meticolose discussioni e trasmissioni interminabili
su bazzecole calcistiche e automobilistiche.
In caduta verticale e marginale, e confinata nei territori specialistici –
più o meno ovattati e blindati – ogni lettura per impegno o svago di buon
livello, come si usava appunto cinquant’anni fa.
Si era normalmente abituati, allora, piuttosto, a discussioni e dibattiti
con spazi centrali per racconti e saggi su «Paragone» e «Nuovi Argomenti» e
«Tempo Presente», prima ancora che uscissero in volume. E polemiche importanti
su come usare il boom economico, senza precedenti per la condizione economica
degli scrittori bisognosi che si erano “arrangiati” durante il fascismo.
Approfittare del boom per le avanguardie sperimentali, dopo aver sfamato i
piccini? Oppure, sfruttarlo riutilizzando la narratività tradizionale, e magari
aggiornandola, come faceva Moravia coi Racconti romani sul «Corriere
della sera» e La ciociara?
Possono sembrare «quisquilie e pinzillacchere», oggidì. Ma a quei tempi,
nei primi anni Sessanta, occupavano paginoni di gossip letterario, ed ebbero
effetti editoriali importanti, anche drammatici. Nel ’63, infatti, sotto il
patronato di Luciano Anceschi, direttore del «Verri» e sponsor di ogni
avanguardia europea, si fondò a Palermo il «Gruppo 63», piattaforma di coetanei
sperimentali come Pagliarani, Sanguineti, Eco, Manganelli, Barilli, Giuliani,
Guglielmi, Colombo, il sottoscritto, e molti altri. Vi si precipitarono «i Daci
e i Moravi» per seguire i procedimenti. Ma il vero antagonista era Giorgio
Bassani, in quanto esponente della Tradizione (o del Sistema) contro
l’Alternativa.
Lo so che tutto questo adesso pare ridicolo, e contrario ad ogni
“leggerezza”. Ma il mio romanzone Fratelli d’Italia venne tirato in
ballo con acidità e gossip, giacché non storico ma al tempo presente, e allora
pettegolezzaio sulla società romana contemporanea. Vi furono stronzate che
coinvolgevano i «migliori nomi»: letture ad alta voce in pizzeria di copie
provvisorie che avevo dato in lettura (come si usa) per eliminare dettagli
involontari ma forse precisi; megere che circolavano dichiarando che «quella lì
sarei io, ma io non sono affatto così»…
Fu increscioso. Bassani ed io ci seccammo, ovviamente. Oltre tutto, lui
aveva pubblicato i miei primi “omnibus” nella sua «Biblioteca di letteratura»
feltrinelliana. E qui vorrei rievocare un grazioso episodio. Gli avevo mandato L’Anonimo
lombardo presso «Botteghe Oscure», ma qualche pecione redazionale aveva
smarrito la letterina d’accompagno. Così l’Anonimo rimase a lungo tale, perché
i colleghi letterati non ne capirono la fonte. Solo Pasolini l’individuò. E
così venne pubblicato, in un grosso volume che includeva Le piccole vacanze
appena edito da Calvino per Einaudi. Anche perché allora tanti scrittori e
registi venivano denunciati da vari pm “competenti”, ma si diceva che questi
non leggessero oltre le prime pagine. Parigi o cara fu invece pubblicato
nella «Biblioteca di letteratura», perché – sostenne Bassani – costituiva un
romanzo di formazione che si può scrivere solo una volta nella vita.
Fratelli d’Italia ovviamente non gli piaceva: un collage di frammenti giornalistici,
giustamente lo definì: non solo contrario ad ogni buona tradizione narrativa (e
proprio per questo lo composi così, con una struttura che riorganizzava i
frammenti), ma anche oggetto di gossip spiacevoli. Che ci voleva allora per
spostarlo dalla collana del Gattopardo a quella del Dottor Zivago?
No problem, secondo Giangiacomo Feltrinelli. Ma poi tante beghe editoriali
interne divennero personali, e me ne andai in America.
In quei lontani tempi, non esistevano ancora gli editors e managers di tipo
commerciale. E si consultavano gli amici scrittori per suggerimenti soprattutto
stilistici. Ricordo che Mario Soldati considerava decisivi i nomi dei
personaggi. Con argomenti anche perentori: «Dame in stile anni Trenta? Era
basilare il pittore Ferruccio Ferrazzi! Dunque le devi chiamare Ferri-Fazzi!».
E così Bassani mi chiedeva se «Malnate» fosse un cognome appropriato per un
personaggio lombardo dei Finzi-Contini. Gli feci notare che in Brianza
le località sono in «ate», mentre i cognomi sono in «ati». E oltre tutto, le
nonne d’una volta chiamavano «malnatt» i nipotini bricconcelli. Però lui
preferiva Malnate. Poi, la presentazione del romanzo fu trionfale, da Einaudi,
a Roma, nel ’62, con Soldati e Garboli e Goffredo Bellonci e il sottoscritto, e
altri ancora. E qualche gossip inter nos perché Bassani sfoggiava un paltò
cammello mai ancora visto su un autore nostrano.
Si ridacchiava insieme (ma lui era solenne, privo di ironia), quando Fedele
d’Amico ironicamente gli diceva «senti un po’ ’sta caciaretta», e sedeva al
piano eseguendo «B-B-B-ach!». O quando in campagna da Luigi Magnani entrava il
padre ed era identico a «B-B-B-rahms!». La maestosa balbuzie funzionava infatti
per le «B» iniziali (come la sua), e si rimpianse poi di non averlo
interpellato sulle concittadine Balboni, spose di Antonioni e di Pasinetti.
Ma che Ferrara “stretta” (direbbe Leopardi), in questo Romanzo senza
Estensi (come interessavano alla Bellonci), né Metafisica e De Chirico (quanta
letteratura!), e senza i vari nobili o “busoni”, come venivano chiamati i
ferraresi dai vari conterranei. E in una collana feltrinelliana di «Comete» che
(ai miei tempi) significava avanguardie, ma si presenta adesso, per Bassani,
come un “Meridiano” Mondadori alla buona, senza rilegature o apparati, come
qui.
Bassani fu sempre serissimo, nel portamento come sulla pagina. Con pena e
fatica praticamente manzoniane, dichiarava, scrisse e riscrisse parola dietro
parola sacralmente ogni trama, costruendo e mai decostruendo personaggi e
dialoghi con raffinatezze minuziose. Ah, quel gusto ossessivo per i dettagli e
ninnoli puntuali, sofisticati, significanti, nella pittura d’assieme… Li
apprezzavamo storicamente, insieme, quando erano di moda. Peccato che poi la
letteratura e le arti sceniche abbiano preso vie diverse, prive di
perfezionismi per i protagonisti e i caratteristi e i bibelots: zucarìn,
Skiwasser, Nautilus, il giovane Panzini, il giovanissimo Valgimigli, la
Dilambda, i làttimi…
(Da: La Repubblica del 26 maggio 2012)
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