20 luglio 2012

L' UMANITA' DIETRO I NUMERI





Dal manifesto di oggi prendo un articolo di Sandro Medici*

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Aumenta la povertà. Cresce la disoccupazione. Diminuiscono salari e stipendi. Redditi familiari ai minimi storici. Record di cassa integrazione. La precarietà del lavoro dilaga. Le rilevazioni sulla condizione sociale nel nostro paese ormai si susseguono incalzanti: sempre più allarmanti, quasi disperanti. Tutte ci restituiscono un panorama dolente di un paese piegato e stremato. Un’opacità che induce alla rassegnazione e soffoca anche la speranza.
Sono gli effetti di una crisi economica che da tempo attraversa i continenti. Ma è anche la conseguenza di scelte sciagurate, agite per contrastare le ricadute finanziarie, che però si scaricano come un flagello sulla platea sociale. Un flagello che diventa pena e sofferenza, angoscia di una condizione materiale in cui si dibattono milioni di persone impoverite e tormentate da bisogni che niente e nessuno più può soddisfare perché lo stato sociale è in via di estinzione.
Anziane e anziani, adulti e perfino minori che si ritrovano sulla soglia della sopravvivenza e che quindi si rivolgono all’amministrazione pubblica per essere aiutati, trovando quest’ultima svuotata e disarmata. Chi perde il lavoro e chi non ce l’ha, chi chiude bottega, chi s’indebita con le banche, chi non riesce a pagare le tasse; chi viene sfrattato o è senzacasa, chi non può più pagare l’affitto o il mutuo o le utenze, la luce, il gas, il telefono; chi non ce la fa a tirare avanti con la sola pensione o chi resta solo e vive nell’abbandono; chi si dibatte tra esclusione e precarietà affettiva; chi scappa da abusi e violenze e non sa dove andare, cosa fare; chi ha bisogno (e diritto) a sussidi e assistenza perché disabile o anziano fragile o malato; chi vive in strada o clandestino o variamente labile, o inesorabilmente emarginato, respinto, derelitto.

L’umanità dietro i numeri
E’ tutta quest’umanità che poi si trasforma in numeri e percentuali, che finisce nelle statistiche e nelle classificazioni, che compone voci e insiemi, grafici e tabelle. E che infine viene bell’e confezionata, metodologicamente ordinata e scientificamente redatta.
Ma è molto diverso quando questa densità sociale afflitta si palesa concretamente: carne e ossa, sguardo e respiro. Quando chi ha diritto a essere sostenuto e aiutato ti viene a cercare, ti spara addosso tutta la sua collera, t’insulta e si dispera.
Sono un amministratore locale, lavoro in un Municipio romano di duecentomila abitanti, periferia sud-est. A stento, fino a qualche anno fa, si riusciva a gestire (e più o meno soddisfare) la domanda sociale che si rivolgeva ai servizi comunali. Sussidi e contributi non bastavano mai: ma insomma, prendi di qua, trasferisci di là, alla fine nessuno (o quasi) restava escluso. Una ventina di nuovi asilo-nido, una manciata di nuovi centri anziani, case-famiglia per accogliere disabili adulti, servizi d’accoglienza per donne in difficoltà, centri per persone fragili, una cospicua assistenza domiciliare, personale di sostegno nella scuola dell’obbligo, progettazione condivisa con utenti e soggetti gestori, welfare comunitario, sperimentazioni e prefigurazioni per includere e abbattere le liste d’attesa: tutto questo (e anche altro) e in definitiva le tante richieste si riuscivano a fronteggiare.

Non è più così. Oggi tutte le amministrazioni di prossimità, quelle che erogano servizi e tutelano i diritti sociali, non sono più nelle condizioni di fare quello che dovrebbero. Non garantiscono ciò imporrebbe la legge, oltreché la coscienza civile.
C’è un anziano signore con una gamba divorata dalla cancrena. Passa la giornata seduto su una panchina nei giardini del Municipio, di notte sale al quarto piano e dorme su un divano. L’hanno più volte ricoverato, sta in ospedale qualche giorno e poi torna da noi. Parla poco, preferisce guardare e chissà cosa pensa dietro quegli occhi azzurri e sfiniti.

Un paio di giorni fa, una signora ha voluto a tutti i costi parlare con me, sperando che potessi aiutarla. Sono rimasto a sentirla per circa mezz’ora. Tra i suoi problemi, quelli di sua figlia, di suo genero e della sua nipotina c’è da compilare un catalogo di guai e avversità, e soprattutto di richieste d’assistenza. Una pensione al minimo, uno sfratto esecutivo, una disoccupazione cronica, un disagio mentale, una vistosa anoressia. L’ho salutata dicendole che avrei provato ad aiutarla. Non so quanto ci riuscirò. E’ probabile che non ci riuscirò.

Gli occhi della disperazione
Con la disperazione negli occhi, un ragazzone senegalese mi ha chiesto se potevo autorizzarlo a mettere su una bancarella. «Un aiuto, prego» – diceva continuamente. I vigili urbani l’avevano più volte dissuaso dal vendere abusivamente e lui non riusciva a capire perché. Ho provato a spiegarglielo di nuovo, ma credo che per lui licenze commerciali, suolo pubblico, ambulantato abbiano continuato a restare cose misteriose. Prima d’andarsene m’ha regalato una giraffa di legno.
Una giovane donna mi ha confessato d’aver occupato un seminterrato in un edificio di case popolari perché era stata sfrattata, e con la sua bambina non ce la faceva più a vivere dentro la sua utilitaria. Chi c’era prima di lei, abusivo anch’esso, l’ha denunciata e quindi rischia di essere sgomberata. «Prima, là dentro, affittavano i letti agli immigrati – dice agitatissima – perché non posso starci io e mia figlia? Se mi cacciano – aggiunge con la pena nel cuore – c’è il rischio che i servizi sociali mi tolgano la bambina».
Una ragazza mi ha fermato per strada, urlando contro di me e contro tutti. Suo padre è malato di Sla, e fino all’anno scorso avevamo attivato un servizio domiciliare per questi casi. Poi hanno tagliato i fondi sociali e siamo stati costretti a interrompere quest’attività. «Sono disperata – diceva – io lavoro e non posso occuparmi di mio padre e l’unico reddito familiare è il mio: come faccio ad andare avanti così?». Bella domanda. Ho provato a spiegarle che il Comune ci aveva ridotto i trasferimenti e che dunque non potevamo più assicurare quel servizio. Temo che non sia servito a nulla. Se n’è andata con tutte le sue ragioni al seguito e io sono rimasto solo con la mia pena.
«Preside’, m’aiuti lei» – con una voce appena sussurrata, la settimana scorsa, un anziano signore mi ha confidato che con la sua pensione non riesce più a vivere. E’ solo, suo figlio vive all’estero e pare non se la passi troppo bene. Aveva cercato il suo nome nella lista dei sussidi, ma non l’aveva trovato. Ce n’erano altri, di nomi, di altri anziani che evidentemente stanno messi peggio di lui. Abbiamo parlato un po’, gli ho detto quello che lui già sapeva e che io sono stanco di ripetere, e cioè che i soldi non sono sufficienti. Ci siamo salutati, ho stretto quella mano un po’ tremolante. Mi ha sorriso e ringraziato. Mi è scappato un gran sospiro e sono scappato via.

La fotografia del Social center
Nel nostro Municipio da diverso tempo c’è un servizio preziosissimo, retaggio di stagioni in cui si potevano fare progetti interessanti. E’ il Social center, uno sportello unico a cui rivolgersi per l’intera offerta dei servizi sociali: invece di costringere i cittadini a sbattersi da un ufficio all’altro, in questo centro si possono risolvere con efficacia ed efficienza tutti i problemi di pertinenza comunale. Ma il Social center è anche un formidabile strumento di analisi territoriale dei bisogni e della domanda: dalla semplice ricognizione di quanto arriva a quello sportello si coglie immediatamente quali sono le esigenze più diffuse, i soggetti più a rischio, le necessità a cui corrispondere. Ebbene, dagli ultimi dati rilevati (anno 2011) si coglie intanto una sensibile crescita delle persone che si rivolgono al centro, intorno al 28% da un anno all’altro. Sono in particolare persone anziane, quelle che richiedono sussidi e sostegno (+39%). Di queste, il 69% segnala disagi derivanti da una condizione di solitudine e il 52% chiede un’assistenza sanitaria più accurata; mentre all’89% dichiara di considerare insufficiente la propria pensione. Ma il dato che forse più di tutti allarma e avvilisce è che, se fino al 2009 le richieste di sussidio trovavano un pressoché totale accoglimento, l’anno scorso le persone anziane che non hanno potuto ricevere alcun aiuto sono più del 300% di quelle che l’hanno ottenuto.
Forse lo sapevamo già che in questa nostra società sempre più affannata e ripiegata, sono gli anziani i più esposti al disagio e al malessere. Ma non sono purtroppo i soli. Le figure sociali a rischio crescono costantemente. Nuovi sintomi si stratificano su quelli tradizionali, laddove al malessere sociale si aggiunge e s’intreccia quello di natura psicologica (o psichiatrica). C’è il «barbonismo domestico», persone che in casa accumulano di tutto, rifiuti, carte, plastiche, mangiano appena e si esprimono con aggressività. C’è una generalizzata diffidenza paranoide, che spinge a interpretare tutto e tutti come minaccia. C’è un intensificarsi delle richieste di pacchi alimentari, a riesumare l’odioso rito elemosiniero, peraltro incoraggiato dalla stessa giunta Alemanno. C’è il rifugiarsi dove possibile: nei condotti fognari, nelle grotte naturali o in quelle che si scavano in proprio. C’è la progressiva diffusione di abusi e violenze domestiche, spesso derivante da frustrazione sociale.
Insomma, raccontata da una periferia romana, si conferma che la crisi produce povertà e insicurezza. Ma per attenuarne gli effetti non si possono massacrare i più deboli, quasi fossero scorie umane da sacrificare, nella speranza che chi resiste possa poi almeno cavarsela in seguito. Sui tempi lunghi saremo tutti morti, diceva un grande economista, ma il problema è sopravvivere nei tempi brevi.

Ps. Mentre si consuma la messa in liquidazione del welfare, nel mio territorio sono in corso due vertenze operaie che mettono a rischio centinaia di posti di lavoro: negli stabilimenti di Cinecittà e nell’ippodromo di Capannelle.

* Presidente del Municipio X – Cinecittà, Roma
 

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