Il
testo che pubblichiamo è un estratto della lectio magistralis dedicata all’imperfezione
nell’arte che Umberto Eco ha tenuto ieri sera alla Milanesiana, al Teatro Dal
Verme di Milano. Il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, giunto alla
tredicesima edizione, è infatti dedicato quest’anno all’imperfezione.
. . .
Di solito l’imperfezione si definisce
rispetto a un genere, un canone, una legge. Guglielmo d’Alvernia, nel suo Tractatus
de bono et malo, riteneva turpe uno che avesse tre occhi o un occhio solo,
il primo per avere ciò che disdice, il secondo per non avere ciò che si
conviene… Quindi è imperfetto qualcosa che ha troppo o troppo poco rispetto
alla norma. Che è poi quello che diceva ancora Leopardi nello Zibaldone:
«la perfezione di un essere non è altro che l’intera conformità colla sua
essenza primigenia».
Benissimo. Ma è imperfetta la
Venere di Milo a cui mancano le braccia, eppure le folle vanno al Louvre
per ammirarla (…). Talora celebriamo come seducenti creature affette da
strabismo di Venere, nasi come quello di Barbra Streisand, Montaigne celebrava
il fascino delle zoppe e troviamo in Tanizachi la lode delle gambe ricurve
della donna giapponese. Ma il fascino è fenomeno imprendibile e certamente non
ha nulla a che vedere né con la perfezione né con la bellezza.
Forse quello che dobbiamo chiarire
meglio è il criterio di imperfezione nell’arte. Dove, tanto per cominciare,
almeno ai tempi nostri non possiamo più applicare una norma, altrimenti un
volto di Picasso sarebbe imperfetto. È che l’opera d’arte pone la norma a se
stessa. Quello che cerchiamo nell’opera d’arte non è più la rispondenza a un
canone del gusto, ma a un criterio che è interno, dove l’economia e la coerenza
formale donano la legge alle proprie parti.
Due sarebbero le forme di imperfezione
che si possono imputare a un’opera d’arte. Mancare di alcune parti che il tutto
esigerebbe, o averne qualcuna in più. Manca di qualcosa la Venere di Milo,
e molti imbecilli hanno cercato di farla ridiventare perfetta; una di queste,
con tanto di braccia, ho visto in un museo californiano delle cere con la dicitura
«così com’era quando fu ideata da un ignoto scultore».
Ma perché giudichiamo sciocco il
tentativo di perfezionare la Venere di Milo? Perché guardandola ci
affascina il tentativo di immaginare continuamente il tutto perduto. Il che ci
fa pensare al gusto, nato nel Settecento, e che si riassume nel termine estetica
delle rovine. Prima si traeva pretesto dalle rovine per riflettere sulla
fragilità delle umane sorti, su un passato non più recuperabile. Diderot, nel Salon
del1767, dirà ancora che «L’effetto di queste composizioni, buone o cattive che
siano, è di lasciarvi in uno stato di dolce melanconia… Siamo soli, orfani di
tutta una generazione che non c’è più». Ma lentamente la riflessione
moralistica ha lasciato il posto a una contemplazione della rovina in quanto
tale, in cui s’inserisce il gusto per l’irregolare. Così l’estetica delle
rovine capovolge il concetto di perfezione formale e compiutezza dell’opera
d’arte. Ancora Diderot scriverà: «Perché un bello schizzo ci affascina più di
un quadro compiuto? È che ha più vita, e meno forme. Quando s’introducono
le forme, la vita viene meno».
Nell’estetica delle rovine l’opera può
essere goduta non solo malgrado ma grazie al suo deperimento. Ed ecco perché ci
piace la Venere di Milo così com’è, più che se avesse quelle sue
inutili braccia. Non ci parla solo della sua bellezza formale, che possiamo
facilmente ricostruire, ma del mondo perduto da cui proviene.
Tanto va detto vale per le opere
d’arte a cui manca qualcosa. Ma quelle che di qualcosa hanno troppo? Ecco il
problema della zeppa.
Croce scriveva ne La poesia:
«Nella poesia non s’incontrano solo le imperfezioni… ma anche cose impoetiche
eppure non correggibili… Sono queste le parti convenzionali o strutturali, che
esistono in ogni opera poetica, ora appena visibili, ora visibilissime,
specialmente nelle opere di grande estensione e complessità. Un caso molto noto
di queste parti convenzionali e strutturali sono quelle giunte e quei
riempitivi che i francesi chiamano “chevilles” e gli italiani “zeppe”… Chi
ricorda i quattro mirabili versi, coi quali l’Ariosto esprime lo sbigottimento
e lo smarrimento di Fiordiligi al presentarsi a lei, soli e taciturni, i due
baroni, compagni di Brandimarte nel sostenuto combattimento (“Tosto che
entràro, ed ella loro il viso – vide di gaudio in tal vittoria privo, –
senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso, – che Brandimarte suo non è più
vivo!”) potrà avvertire che nel terzo verso “annunzio” e “avviso” sono due
vocaboli che dicono lo stesso e forse nessuno dei due con piena proprietà, e
che “avviso” è stato scelto per la rima. Ma quel ritmo accelerato, ottenuto con
la sequela dei due vocaboli, distaccati e legati a una dalla cesura, è come il
battere precipitoso del cuore di Fiordiligi e crea una superiore immagine poetica,
e la rima in fine del verso riconduce quel battito all’aspetto e allo
sbigottimento innanzi all’apparire dei due, a quel loro “viso” senza luce di
gaudio».
Si noti che, se così è, quegli
annunzio e avviso non sarebbero affatto zeppe, ma proprio le parole
poeticamente giuste che fan dire a Croce che quei quattro versi sono mirabili.
Ma la sua ostinazione a voler distinguere struttura da poesia la fa continuare
in tal modo: «Ma la giusta accettazione di questi “pezzi strutturali” non deve
essere pervertita nell’ingiusta accettazione di essi come poesia: che è
l’errore che commettono gli interpreti poco intendenti».
Invece nella sua Estetica
Luigi Pareyson, nel rivendicare il carattere di totalità della forma artistica,
e quindi rifiutando di selezionare nell’opera sporadici momenti di poesia, come
fiori cresciuti tra la sterpaglia della struttura, pensava che struttura e
zeppe fossero essenziali all’opera, che andava vista come tutto organico in cui
tutto ha una funzione. Così affrontava il problema dei presunti momenti morti
facendoli rientrare nel progetto formativo, momento essenziale e non marginale
ed estraneo: se «il tutto risulta dalle parti unite a costituire un intero…non
potrà esservi particolare trascurabile o minuzia irrilevante; e se nell’interpretazione
alcune parti possono risultare meno importanti di altre, questo avviene perché
si attua nella forma organizzata una distribuzione di funzioni».
Mi pare che la zeppa possa anche
essere un avvio mediocre, utile per ottenere un finale sublime. Una sera, alle
tre di notte, sul colle dell’infinito di Recanati, dove stanno scolpite le
prime parole di una delle poesie più belle di tutti i tempi, mi sono reso conto
che «Sempre caro mi fu quest’ermo colle» è un verso assai banale, che avrebbe
potuto essere scritto da qualsiasi poeta minore del romanticismo, e forse di
altre epoche e correnti. Che deve essere un colle, in linguaggio “poetico”, se
non ermo? Eppure senza quell’inizio scontato la poesia non prenderebbe avvio, e
forse occorreva che banale fosse, perché potesse essere avvertito in fine il
sentimento panico di quel naufragio, poeticamente memorabile.
Oserei dire, sia pure per amor di
tesi, che un verso come «Nel mezzo del cammin di nostra vita» ha la
cantilenante dignità di una zeppa. Se non ci fosse stata la Divina Commedia
dietro non gli avremmo dato molta importanza, forse l’avremmo registrato come
un modo di dire (…).
Che cosa dire però per quelle opere,
che la critica esigente esilia nella paraletteratura, che nell’intento di
accontentare il lettore non prestano attenzione allo stile e talora sono tutte
quante una sola zeppa? Prendiamo l’esempio de II conte di Montecristo.
Esso è uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra
parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le
letterature.
Il Montecristo scappa da
tutte le parti. Pieno di zeppe, spudorato nel ripetere lo stesso aggettivo a
distanza di una riga, incontinente nell’accumulare questi stessi aggettivi,
capace di aprire una divagazione sentenziosa senza più riuscire a chiuderla
perché la sintassi non tiene, e così procedendo e ansimando per venti righe, è
meccanico e goffo nel disegnare i sentimenti: i suoi personaggi o fremono,
o impallidiscono, o si asciugano grosse gocce di sudore che colano loro dalla
fronte, balbettano con una voce che non ha più nulla di umano, si alzano
convulsamente dalla sedia e vi ricadono, con l’autore che premura sempre,
ossessivamente, di ripeterci che la sedia su cui son ricaduti era la stessa su
cui erano seduti un secondo innanzi.
Perché Dumas facesse così, lo sappiamo
bene. Non perché non sapesse scrivere. I Tre Moschettieri è più secco, rapido,
magari a scapito della psicologia, ma fila via che è un piacere. Dumas scriveva
così per ragioni di denaro, era pagato un tanto a riga e doveva allungare.
Per non dire dell’esigenza, comune a
tutto il romanzo d’appendice, per ricuperare i lettori disattenti da puntata a
puntata, di ripetere ossessivamente il già noto, così che un personaggio
racconta un fatto a pagina cento, ma a pagina centocinque incontra un altro
personaggio e gli ripete paro paro la stessa storia – e si veda nei primi tre
capitoli quante volte Edmond Dantès racconta a cani e porci che intende
sposarsi ed è felice: quattordici anni al castello d’If sono ancora pochi per
un piagnone di questa razza.
Anni fa, su invito di Einaudi, avevo
accettato di tradurre il Montecristo. L’idea mi affascinava. Prendere
un romanzo di cui ammiravo la struttura narrativa e di cui mi orripilava lo
stile, e cercare di restituire quella struttura in uno stile più rapido,
scattante, ma (ben inteso) senza “riscrivere”, bensì alleggerendo il testo là
dove era inutilmente ridondante – e facendo risparmiare (all’editore e al
lettore) qualche centinaio di pagine. Dumas era un artigiano pronto a
modificare il suo prodotto secondo le esigenze del mercato e se avesse ricevuto
un soprassoldo per ogni parola risparmiata non sarebbe stato il primo ad
autorizzare tagli ed ellissi?
Un esempio. Il testo originale dice:
«Danglars arracha machinalement, et l’une après l’autre, les fleurs d’un
magnifique oranger; quand il eut fini avec l’oranger, il s’adressa à un cactus,
mais alors le cactus, d’un caractère moins facile que l’oranger, le piqua
outrageusement». La traduzione letterale vorrebbe che si dicesse: «Danglars
strappò macchinalmente, uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio; e
quando ebbe finito con l’arancio si rivolse a un cactus, ma allora il cactus,
meno facile di carattere dell’arancio, lo punse oltraggiosamente». Ma si potrebbe
dire benissimo, senza perdere nulla: «Strappò macchinalmente, uno dopo l’altro,
i fiori di un magnifico arancio; quando ebbe finito si rivolse a un cactus, il
quale, di carattere più difficile, lo punse oltraggiosamente».
Sono ventinove parole italiane contro
le quarantadue francesi. Più del venticinque per cento di risparmio (…). Ho
provato, e per circa cento pagine. Poi mi sono arreso perché mi sono chiesto se
anche le ampollosità, la sciatteria, le ridondanze, non facessero parte della
macchina narrativa. Avremmo amato il Montecristo come lo abbiamo amato
se non l’avessimo letto le prime volte nelle sue traduzioni ottocentesche?
È vero, Montecristo è uno dei
romanzi più appassionanti che mai siano stati scritti. In un colpo solo (o in
una raffica di colpi, in un cannoneggiamento a lunga gittata) riesce a
inscatolare nello stesso romanzo tre situazioni archetipe capaci di torcere le
viscere anche a un boia, l’innocenza tradita, l’acquisizione, per colpo di
fortuna, da parte della vittima perseguitata, di una fortuna immensa che lo
pone al di sopra dei comuni mortali, e infine la strategia di una vendetta in
cui periscono personaggi che il romanzo si è disperatamente ingegnato a rendere
odiosi oltre ogni limite del ragionevole.
Su questa ossatura si dipana la
rappresentazione della società francese dei cento giorni e poi della monarchia
di Luigi Filippo, coi suoi dandies, i suoi banchieri, i suoi magistrati
corrotti, le sue adultere, i suoi contratti di matrimonio, le sue sedute
parlamentari, i rapporti internazionali, i complotti di Stato, il telegrafo
ottico, le lettere di credito, i calcoli avari e spudorati di interessi
composti e dividendi, i tassi di sconto, le valute e i cambi, i pranzi, i
balli, i funerali, e su tutto troneggia il tema principe del feuilleton, il
Superuomo. Ma diversamente da tutti gli altri artigiani che han tentato questo
luogo classico del romanzo popolare, Dumas del superuomo tenta una sconnessa e
ansimante psicologia, mostrandocelo diviso tra la vertigine dell’onnipotenza (dovuta
al denaro e al sapere) e il terrore del proprio ruolo privilegiato, tormentato
dal dubbio e rasserenato dalla coscienza che la sua onnipotenza nasce dalla
sofferenza. Per cui, nuovo archetipo che si innerva sugli altri, il conte di
Montecristo (potenza dei nomi) è anche un Cristo, dovutamente diabolico, che
cala nella tomba del castello d’If, vittima sacrificale dell’umana malvagità, e
ne risale a giudicare i vivi e i morti, nel fulgore del tesoro riscoperto dopo
secoli, senza mai dimenticare di essere figlio dell’uomo. Si può snob,
criticamente avveduti, saper molto di trappole intertestuali, ma si è presi nel
gioco, come nel melodramma verdiano. Mélo e Kitsch, per virtù di
sregolatezza, rasentano il sublime, e la sregolatezza si ribalta in genio.
Ma potremmo gustare le rivelazioni, le
agnizioni a catena attraverso le quali Edmond Dantès si svela ai suoi nemici (e
noi si freme, ogni volta, anche se sappiamo già tutto) se non intervenissero, e
proprio come artificio letterario, la ridondanza, e l’indugio spasmodico che
precede il colpo di scena? Se il Montecristo fosse riassunto, se
la condanna, la fuga, la scoperta del tesoro, la riapparizione a Parigi, la
vendetta, anzi le vendette a catena, avvenissero tutte nel giro di due o
trecento pagine, l’opera avrebbe ancora il suo effetto, riuscirebbe a
trascinarci anche là dove, nell’ansia, si saltano le pagine e le descrizioni
(si saltano, ma si sa che ci sono, si accelera soggettivamente ma sapendo che
il tempo narrativo è oggettivamente dilatato)? Si scopre così che le orribili
intemperanze stilistiche sono, sì, “zeppe” ma le zeppe hanno un valore
strutturale, come le barre di grafite nei reattori nucleari, rallentano il
ritmo per rendere le nostre attese più lancinanti, le nostre previsioni più
azzardate. Il romanzo dumasiano è una macchina per produrre agonia, e non conta
la qualità dei rantoli, conta il loro tempo lungo.
È una questione di stile, salvo che lo
stile narrativo non ha nulla a che vedere con lo stile poetico. Il Montecristo
ci dice che, se narrare è un’arte, le regole di quest’arte sono diverse da
quelle di altri generi letterari. E che forse si può narrare, e far grande
narrativa, senza fare necessariamente quello che la sensibilità moderna chiama
opera d’arte.
Ci sono epopee sbilenche, che non
pongono capo a un’opera perfetta ma a un fiume lutulento. Può darsi che non
soddisfino le regole dell’estetica, ma soddisfano la funzione fabulatrice, che
forse non è così direttamente connessa alla funzione estetica. Sconnesse come
una serie di miti Bororo, forse riscrivibili come il ciclo Bretone. Ci sono
cioè delle opere sgangherate che, proprio perché sgangherate, possono produrre
un Mito.
«Sono i cannoni o è il mio cuore che
batte?». Ogni volta che si proietta Casablanca, a questo punto il
pubblico reagisce con un entusiasmo riservato di solito alle partite di calcio.
A volte è sufficiente una sola parola: i fan giubilano ogni volta che Bogey
dice “kid”. Spesso gli spettatori citano le battute canoniche prima che gli
attori le pronuncino. Secondo i canoni estetici tradizionali se i film di
Dreyer, Ejzenstejn o Antonioni sono opere d’arte, Casablanca
rappresenta un prodotto estetico molto modesto. È un’accozzaglia di scene
sensazionali messe insieme in maniera poco plausibile, i personaggi sono
psicologicamente improbabili e gli attori recitano in modo affrettato.
Ciononostante, è un grande esempio di discorso cinematografico, ed è diventato
un cult movie.
Quali sono i requisiti necessari per
trasformare un libro o un film in un oggetto di culto? Curiosamente, un libro
può dar vita a un fenomeno di culto anche se è un capolavoro. Sia I tre
moschettieri che La Divina Commedia sono annoverati tra i libri
culto; e i triviagames sono più diffusi tra i fan di Dante che
tra quelli di Dumas. Per trasformare un’opera in un oggetto di culto bisogna
essere capaci di smembrarla, smontarla, scardinarla in modo da poter ricordare
solo parti di essa, prescindendo dal loro rapporto originario con il tutto. Nel
caso di un libro, è possibile smontarlo, per così dire, fisicamente,
riducendolo a una serie di stralci. Al contrario, un film deve essere già
sgangherato, zoppicante e sconnesso di per sé. Un film compiuto, dato che non
possiamo rileggerlo a nostro piacimento, dal punto che preferiamo, come accade
per un libro, rimane impresso nella nostra memoria come un tutto, nella forma
di un’idea o di un’emozione principale; solo un film sgangherato sopravvive in
una serie disgiunta di immagini e picchi visivi. Esso dovrebbe mostrare non
un’idea centrale, ma molte. Non dovrebbe rivelare una «filosofia della
composizione» coerente, ma dovrebbe vivere sulla, e in virtù della, sua
magnifica instabilità.
«Posso raccontarvi una storia?» chiede
Ilsa. Poi aggiunge: «Il finale non lo so ancora». Rick dice: «Su, avanti,
ditemi. Forse, raccontandola, uscirà il finale». La battuta di Rick è una sorta
di epitome di Casablanca. Stando ai ricordi di Ingrid Bergman, il film
venne sceneggiato a mano a mano che lo si girava. Fino all’ultimo momento,
nemmeno Michael Curtiz sapeva se Ilsa sarebbe partita con Rick o Victor, e i
sorrisi misteriosi di Ingrid Bergman sono dovuti al fatto che mentre si girava
il film essa non sapeva ancora quale dei due uomini veramente amasse.
Ciò spiega perché, nella storia, lei
non scelga il suo destino. È il destino, attraverso gli sceneggiatori
imbarazzati, a scegliere lei. (… )
Allora, si è tentati di leggere Casablanca
come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al
fatto che fosse un’opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di
Shakespeare, ma all’imperfezione della sua composizione. Amleto
sarebbe l’effetto di una fusione fallita tra varie versioni precedenti della
storia, così che la sconcertante ambiguità del personaggio principale è dovuta
alla difficoltà dell’autore di mettere insieme diversi temi… Eliot ci dice che
il mistero dell’Amleto si chiarisce se, invece di considerare l’intera
azione del dramma come cosa dovuta al disegno di Shakespeare, noi riconosceremo
nella tragedia una sorta di patchwork mal riuscito di materiali tragici
precedenti (…). Così, lungi dall’essere il capolavoro di Shakespeare, il dramma
è un insuccesso artistico. «Sia la tecnica che il pensiero sono instabili. E
probabilmente i più hanno ritenuto Amleto opera d’arte perché l’hanno trovata
interessante, non che l’abbiano trovata interessante perché opera d’arte. È la
“Monna Lisa” della letteratura».
In scala minore, a Casablanca
è successo lo stesso. Portati a inventare una trama a braccio, gli autori ci
hanno messo dentro tutto, attingendo nel repertorio del già collaudato. Quando
la scelta del già collaudato è limitata, il risultato è semplicemente kitsch.
Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha un’architettura come
la Sagrada Familia di Gaudi: stessa vertigine, stessa genialità (…). Due cliché
fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente
che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento.
Come il colmo del dolore incontra la voluttà, e il colmo della perversione
rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravedere un
sospetto di Sublime.
(…) Ed ecco che su questa scia si
possono giustificare tanti casi di fascino che le estetiche più rigorose non
riescono a definire. Si prenda l’elogio che Proust fa (ne Les plaisirs et
les jours) della cattiva musica: «Detestate la cattiva musica, non
disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più
appassionatamente, di quella buona, ben di più di quella buona si è riempita a
poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini… Quante melodie, di nessun
pregio agli occhi di un artista, fan parte della schiera dei confidenti scelti
dai giovanotti sentimentali e dalle innamorate! … Un certo ritornello
insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all’istante di
ascoltare, ha accolto in sé il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto
di migliaia di vite, di cui fu la viva l’ispirazione, la consolazione sempre
pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale…
Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, deve
commuoverci come un cimitero o come un villaggio. Che importa che le case non
abbiano stile, che le tombe scompaiano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di
cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti ad una
immaginazione abbastanza benevola e rispettosa da mettere a tacere un attimo la
sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora
verde che faceva loro presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a
piangere in questo». (…)
Umberto Eco
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