Il testo che segue è opera del sociologo
Pierre Bourdieu. Apparso sulla rivista Cahiers du Genre, 2002/2, n. 33 e
ripreso sul n. 112 di Lettera Internazionale, è stato pubblicato ieri da La Repubblica.
Pierre
Bourdieu, Così dall’antichità a oggi la sottomissione della donna sta nello
sguardo maschile.
Esistono
molti lavori di antropologia comparata relativi all’area mediterranea che
tendono a mostrare che la Cabilia, per ragioni storiche, ha funzionato come un
luogo in cui si è preservato intatto una specie di inconscio mediterraneo,
quell’inconscio rintracciabile sia nei
testi della
Grecia antica sia della Grecia attuale o dell’Italia del sud, ma anche della
Spagna o in genere di tutte le coste del Mediterraneo. La Cabilia ha conservato
questo sistema ancora funzionante e di conseguenza ci mette sotto gli occhi il
nostro stesso inconscio culturale in materia di mascolinità e di femminilità.
Ciò è dovuto alla costanza delle strutture simboliche sulle quali è basata la
nostra rappresentazione della divisione del lavoro tra i sessi.
E se questa
costanza è attestata, si pone la questione delle condizioni sociali che la
rendono possibile. In altre parole, che cosa deve esserci di specifico nella
logica del simbolico di cui fa parte la rappresentazione dell’opposizione
maschile-femminile affinché, al di là dei cambiamenti economici, al di là delle
trasformazioni tecnologiche, si possano cogliere somiglianze così profonde tra
stati così differenti della società?
Se il
dominio maschile può perpetuarsi, senza dubbio con alterazioni, ma minori di
quanto non si creda, nonostante i cambiamenti tecnologici ed economici
sopravvenuti, ciò ha forse a che fare con il fatto che l’ordine simbolico, o
quello che chiamo il mercato dei beni simbolici, costituisce un ambito
relativamente autonomo rispetto all’ordine economico e all’ordine tecnologico.
Esiste una
logica specifica dell’economia dei beni simbolici distinta da quella economica,
e questa logica può in parte funzionare anche all’interno dell’ordine più
strettamente economico (e qui avrei potuto ricordare un bel lavoro sulle
hostess a pagamento che in Giappone accompagnano gli uomini a spese delle
grandi società, lavoro che mostra come le burocrazie moderne utilizzino le
strutture più tradizionali della divisione del lavoro tra i sessi per assolvere
funzioni economiche ultra-razionali).
La logica
specifica dell’economia simbolica si perpetua infatti perfino negli ambiti più
strettamente economici come quello delle imprese e viene osservata soprattutto
in determinati universi, per esempio quello della produzione culturale (non è
un caso se si tratta di uno dei campi più femminilizzati), della letteratura,
dell’arte, della televisione, della radio, o quello religioso (dove si
incontrano, e ancora una volta non è un caso, molte forme di volontariato
femminile), e infine nell’ordine domestico.
Andrebbe
anche mostrata, ma anche questo richiede troppo tempo e spazio, la logica
specifica di questa economia e ciò che fa sì che essa si perpetui anche a
dispetto di tutte le necessità economiche nelle società più pervase dalla
logica capitalistica.
Ma
soprattutto è necessario mostrare che alla base della situazione dominata della
donna, e del suo perpetuarsi al di là delle differenze temporali e spaziali,
c’è il fatto che in questa economia la donna è più oggetto che soggetto. Vanno
ricordate a questo punto le famose analisi di Lévi-Strauss sullo scambio delle
donne reinterpretandole in maniera tale da introdurvi la dimensione politica
(penso al dominio che presuppone lo scambio e che si compie e si riproduce
attraverso di esso). Mi soffermerò un attimo solo sul ruolo passivo attribuito
alla donna e che mi sembra trovarsi, ancora oggi, a fondamento del rapporto che
le donne hanno con il proprio corpo, un rapporto che ha a che fare con il fatto
che il loro essere sociale è un essere-percepito, un percipi, un essere per lo
sguardo e, se si può dire così, un essere tramite lo sguardo, suscettibile di
venire utilizzato, a questo titolo, come un capitale simbolico.
L’alienazione
simbolica alla quale sono condannate, visto che sono destinate a essere percepite
e a percepirsi attraverso le categorie dominanti cioè maschili, si ritraduce
nell’esperienza stessa che le donne fanno del proprio corpo e dello sguardo
degli altri che è stato messo molto ben in luce e analizzato da una
fenomenologa americana di cui non avrò purtroppo il tempo di riassumere
l’analisi. Poiché temo molto di essere frainteso, cercherò di spiegarmi con un
esempio, rifacendomi a un bell’articolo sulle donne e lo sport. L’articolo
mostra che la pratica intensiva di una certa disciplina sportiva determina
nelle donne una trasformazione del rapporto con il proprio corpo e permette
loro di accedere a una visione di esso che si potrebbe definire maschile;
consente loro insomma di avere un corpo per sé invece di essere un corpo per
gli altri, dà loro un corpo che è in sé il proprio scopo. Cosa che lascia
peraltro chiaramente emergere il fatto che il corpo imposto in tempi normali è
dunque un corpo-per-l’altro, un corpo abitato dallo sguardo degli altri, un
essere percepito.
L’alienazione
legata al fatto di avere un corpo visibile, e di trovarsi quindi sempre sotto
lo sguardo degli altri, presenta gradi diversi: è tanto più potente quanto più
si scende nella gerarchia sociale perché si hanno più opportunità di avere un
corpo poco conforme ai canoni dominanti. E trova il proprio limite proprio
nelle donne alle quali l’esperienza del corpo come corpo per l’altro si impone
con forza particolare per via del ruolo che è loro prescritto nel mercato dei
beni simbolici, dove sono oggetto, essere percepito, capitale simbolico, che
devono gestire – e di cui sono in qualche maniera le contabili – davanti agli
uomini. La trasformazione del rapporto con il corpo attraverso lo sport si
accompagna a una trasformazione profonda dei rapporti con gli uomini. Le donne
smettono in questo caso di apparire femminili, cioè disponibili, almeno
simbolicamente. Il loro rapporto con il proprio corpo è cambiato al punto che
non rispondono più alle attese socialmente costituite su che cos’è una donna.
Si potrebbero senza dubbio fare considerazioni simili per quanto riguarda il
cambiamento del rapporto con il corpo legato alle professioni intellettuali.
Un’ultima
parola per esprimere un rimpianto: ho ricordato l’esistenza di un’economia dei
beni simbolici relativamente autonoma rispetto alle basi economiche della
società – un’autonomia relativa, evidentemente –, ma non ho analizzato su che
cosa si fonda tale autonomia e il modo in cui si radica nella logica della
riproduzione biologica e soprattutto sociale. Non ho mostrato come le nuove
tecnologie della riproduzione biologica, per esempio, possono contribuire a
trasformare la dicotomia produzione/riproduzione che è il fondamento
dell’economia dei beni simbolici. Lungo questa strada, avrei potuto affrontare
il problema del nesso tra rapporti sociali tra i sessi e rapporti sociali tra
le classi. Ma non posso fare altro che enunciare i titoli dei temi che avrei
voluto trattare e fermarmi.
(Da: La Repubblica del 24 luglio 2012)
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