25 luglio 2012

La memoria del pane






 
Desidero recuperare oggi la recensione di Corrado Stajano di un libro bellissimo di Predrag Matvejevic, Pane nostro, pubblicato da Garzanti nel 2010.

Predrag Matvejevic ha scritto un gran poema sul pane. Il pane come la vita, come il mondo, dal tempo dei tempi. Ancora oggi. Studenti e giovani laureati senza lavoro e senza futuro, scesi in piazza in questi giorni in Tunisia contro il governo autoritario del presidente Ben Ali, e poi anche in Algeria, hanno chiamato il loro movimento di protesta «la rivolta del pane». Una rivolta finita nel sangue. Matvejevic, nato a Mostar, nella Bosnia-Erzegovina, da padre russo e madre croata, scrittore sapienziale anomalo (Pour une poétique de l' événement, Venezia minima, Mediterraneo), professore alla Sorbona, al Collège de France, alla Sapienza, ha lavorato per decenni a questo suo Pane nostro (Garzanti): un debito pagato al padre vestito di stracci, provato dal gelo e dalla fame, condannato nella Germania nazista ai lavori forzati, che nei giorni del Natale 1942 ebbe da un pastore protestante, con l' inestimabile dono di un momento di ospitalità, una fetta di pane e un bicchiere di vino. La guardia lasciò fare. E anche in memoria dello zio Vladimir scomparso in un gulag staliniano che morì invocando «pane, pane!». Le tragedie del Novecento e le sue maledizioni non hanno risparmiato Matvejevic, un senza patria vittima della caduta delle nazionalità, che ne ha patite tante fin da bambino. Ha subìto persecuzioni, processi, ha visto franare più mondi. Con quel pane nello zaino, come gli antichi soldati, al quale doveva tener fede. Non ha problemi stilistici, Matvejevic, nel raccontare. C' è tutto e di tutto, nel suo libro, tra antropologia, religione, storia. Probabilmente è la Mesopotamia la prima terra dove il grano fu seminato e mietuto. Nell' Iliade le donne impastano la bianca farina per la cena dei mietitori; nell' Antigone di Sofocle il coro canta un inno all' aratro; nell' Agamennone di Eschilo viene ricordato il «pane della schiavitù». I romani cominciano a cuocere il pane molto più tardi dei greci, per lungo tempo mangiarono infatti la polenta di grano. «Pane e lavoro», «Pane e acqua», «Panem et circenses», «Non si vive di solo pane»: sono molti i modi di dire entrati nel linguaggio durante i secoli. Come la qualità del pane: il panis palatinus dell' imperatore, il panis castrensis dei soldati, il panis sordidus degli schiavi. Le matrone curavano la bellezza del volto strofinandolo con la mollica di pane inumidita. Matvejevic è un pozzo di saperi. Il Corano: «Allah fa germogliare i chicchi». (Forse il simbolo dell' Islam - la falce di luna con la stella nel mezzo - è nato durante il lavoro notturno nei campi, esposti di giorno a una insopportabile calura). Il giudaismo, poi, le aspre polemiche, gli scismi, il pane azzimo e quello lievitato. Cristo: «Io sono il pane della vita. Chi viene a me non resterà di certo affamato». Luca: «Il misero Lazzaro voglioso di una briciola di pane di quelle cadute dalla mensa del ricco Epulone». Tommaso d' Aquino: «Ecce panis angelorum». Per i marinai il pane era meno angelico, un assillo nelle lunghe traversate. «Otri ben confezionati» custodivano nell' Odissea farina e pane. Nei registri delle tre caravelle di Cristoforo Colombo le voci più rilevanti erano sempre la farina, il vino e il bizcocho: la cambusa doveva essere sempre tenuta chiusa a chiave. C' è qualcosa, in questa bibbia del pane che Matvejevic non ha raccontato? Il pane di Africo, un paese della Calabria, fatto con il mischio, farina di lenticchie, cicerchie e orzo dal gusto acido e amaro, che Umberto Zanotti Bianco, grande intellettuale che in quei luoghi fece opera di civiltà, inviava nei primi decenni del Novecento agli amici di tutta l' Italia per testimoniare la terribile miseria degli abitanti e chiedere aiuto. Non ha ricordato, lo scrittore, la felicità incredula, alla fine della Seconda guerra mondiale, all' apparire del primo pane bianco. E le parole di Sandro Pertini, l' 8 luglio 1978, nel suo discorso di insediamento da presidente della Repubblica: «Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai». *** Al tempo del fascismo sulle pareti delle botteghe dei fornai erano state pitturate d' obbligo, in grossi caratteri, delle scritte: «Amate il pane, profumo della mensa, gioia del focolare». E anche: «Rispettate il pane, orgoglio del lavoro». Erano gli anni della battaglia del grano inventata per diminuire le importazioni, un mezzo fallimento. Mussolini, a torso nudo, nelle immagini dell' Istituto Luce, un cappello bianco in testa, dava il via alla trebbiatura. Compariva anche in piedi sul trattore o nei campi con un falcetto in mano. Nei paesi si moltiplicavano le massaie rurali, i contadini salutavano romanamente tra un covone e l' altro tenuto ritto come una colonna. Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta del Novecento, in Italia, in Europa, il mondo contadino cessò di esistere, così com' era stato in quasi due millenni. Matvejevic potrebbe scrivere un altro libro su quel che allora accadde. L' organizzazione del lavoro tagliò le professionalità, le macchine sostituirono gli uomini. Molte cascine della Bassa padana sono abbandonate, altre sono diventate condomini, seconde case. La meccanizzazione, il computer che stabilisce i programmi dell' alimentazione del bestiame, della semina, del raccolto, hanno preso il posto dei contadini. In una grossa cascina di 300 ettari dove vivevano 70 famiglie ed erano impegnati nel lavoro un centinaio di uomini sono sufficienti ora 6 contadini e un paio di avventizi. I giovani non hanno più voluto fare il mestiere dei padri. I «bergamini» - i mungitori - approdati alla valle del Po sono indiani che amano molto gli animali. Dove non sono arrivati il cemento o gli specchi neri dell' energia fotovoltaica resiste ancora l' antico paesaggio - i faggi delle Bucoliche di Virgilio - ma le armi dei rudi campagnoli delle Georgiche davvero non esistono più. Resta la memoria, sorretta dai film, dai libri. L' albero degli zoccoli di Ermanno Olmi che nasce dalla cultura sociale cristiana e descrive gli umili che non si ribellano è una terribile denuncia della disumanità della vita contadina assai più di Novecento, di Bernardo Bertolucci, il film dei ribelli e della lotta di classe. Il museo di Ozzano Taro, vicino a Parma, creato da Ettore Guatelli, imponente raccolta dei poveri oggetti della quotidianità contadina (aratri a chiodo di legno, erpici, trebbiatrici a mano, ruote di carri, spaventapasseri, accette, vanghe) e la Casa museo di Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, nel Siracusano: ecco come vivevano uomini e donne tra le loro cose amate e disamate. La fatica e la violenza appaiono sovrane. L' uno e l' altro museo non suscitano nostalgia, ma certamente affetto perché rappresentano i simboli più antichi delle opere e dei giorni dell' uomo. Il libro, poi, che nessuna rivoluzione tecnologica riuscirà a cancellare. Più al Nord che al Sud, più la cascina che il feudo. Riccardo Bacchelli e il suo Mulino del Po (1938-1940), ingiustamente dimenticato, un secolo di storia italiana, tra la ritirata di Napoleone e la battaglia del Piave, vista da un mulino ferrarese. E, accomunato dalla storia, Le strade di polvere (1987) di Rosetta Loy, una comunità del Monferrato, tra la battaglia di Marengo, la sconfitta di Lissa, gli albori dello Stato unitario: il tempo crudele e insieme magico di un mondo che non lascia traccia, ma che è ben caldo nei cuori. E poi, alla rinfusa, gli scrittori che si sono occupati del mondo contadino, Luigi Meneghello, di Malo (Vicenza), Andrea Zanzotto, di Pieve di Soligo (Treviso), che in molti dei suoi versi, soprattutto quelli in dialetto, fa sentire il respiro del mondo contadino in cui vive. E nel Sud: Ignazio Silone, Francesco Jovine (Le terre del sacramento), Vincenzo Consolo, coi suoi ribelli del Sorriso dell' ignoto marinaio e con Le pietre di Pantalica. Ma è accaduto che siano stati scrittori-non scrittori a lasciare il segno più profondo sul mondo contadino del loro tempo. Carlo Levi con il suo Cristo si è fermato a Eboli, il libro scritto sul confino lucano, protagonisti i contadini oppressi dalla fame e dalla miseria e i padroni, i «luigini» di sempre. E infine Nuto Revelli, Il mondo dei vinti: 270 testimonianze contadine che danno il senso della distruzione di un popolo di cui sono come il testamento. Gli emarginati di sempre, i «sordomuti», i sopravvissuti al grande genocidio. Nelle povere vicende dei contadini dell' Alta Langa si rispecchiano le vicende dei contadini d' Abruzzo e della Ciociaria venuti a Roma lasciando i paesi d' origine, dei contadini della Bassa padana arrivati a fare i portinai a Milano, dei contadini del Napoletano, divenuti operai dell' Alfasud e contadini della domenica, dei calabresi giunti a Torino per lavorare alla Fiat, accasermati alla Falchera, dei contadini-marinai di Capo Passero, di Noto. Dalla campagna alla fabbrica al terziario all' elettronica. E adesso? 

Stajano Corrado, Corriere della Sera, 12 gennaio 2011.


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