Desidero recuperare oggi la
recensione di Corrado Stajano di un libro bellissimo di Predrag Matvejevic, Pane nostro, pubblicato da Garzanti nel 2010.
Predrag
Matvejevic ha scritto un gran poema sul pane. Il pane come la vita, come il
mondo, dal tempo dei tempi. Ancora oggi. Studenti e giovani laureati senza
lavoro e senza futuro, scesi in piazza in questi giorni in Tunisia contro il
governo autoritario del presidente Ben Ali, e poi anche in Algeria, hanno
chiamato il loro movimento di protesta «la rivolta del pane». Una rivolta
finita nel sangue. Matvejevic, nato a Mostar, nella Bosnia-Erzegovina, da padre
russo e madre croata, scrittore sapienziale anomalo (Pour une poétique de l'
événement, Venezia minima, Mediterraneo), professore alla Sorbona, al Collège de
France, alla Sapienza, ha lavorato per decenni a questo suo Pane nostro (Garzanti):
un debito pagato al padre vestito di stracci, provato dal gelo e dalla fame,
condannato nella Germania nazista ai lavori forzati, che nei giorni del Natale
1942 ebbe da un pastore protestante, con l' inestimabile dono di un momento di
ospitalità, una fetta di pane e un bicchiere di vino. La guardia lasciò fare. E
anche in memoria dello zio Vladimir scomparso in un gulag staliniano che morì
invocando «pane, pane!». Le tragedie del Novecento e le sue maledizioni non
hanno risparmiato Matvejevic, un senza patria vittima della caduta delle
nazionalità, che ne ha patite tante fin da bambino. Ha subìto persecuzioni,
processi, ha visto franare più mondi. Con quel pane nello zaino, come gli
antichi soldati, al quale doveva tener fede. Non ha problemi stilistici,
Matvejevic, nel raccontare. C' è tutto e di tutto, nel suo libro, tra
antropologia, religione, storia. Probabilmente è la Mesopotamia la prima terra
dove il grano fu seminato e mietuto. Nell' Iliade le donne impastano la bianca
farina per la cena dei mietitori; nell' Antigone di Sofocle il coro canta un
inno all' aratro; nell' Agamennone di Eschilo viene ricordato il «pane della
schiavitù». I romani cominciano a cuocere il pane molto più tardi dei greci,
per lungo tempo mangiarono infatti la polenta di grano. «Pane e lavoro», «Pane
e acqua», «Panem et circenses», «Non si vive di solo pane»: sono molti i modi
di dire entrati nel linguaggio durante i secoli. Come la qualità del pane: il
panis palatinus dell' imperatore, il panis castrensis dei soldati, il panis
sordidus degli schiavi. Le matrone curavano la bellezza del volto strofinandolo
con la mollica di pane inumidita. Matvejevic è un pozzo di saperi. Il Corano:
«Allah fa germogliare i chicchi». (Forse il simbolo dell' Islam - la falce di
luna con la stella nel mezzo - è nato durante il lavoro notturno nei campi,
esposti di giorno a una insopportabile calura). Il giudaismo, poi, le aspre
polemiche, gli scismi, il pane azzimo e quello lievitato. Cristo: «Io sono il
pane della vita. Chi viene a me non resterà di certo affamato». Luca: «Il
misero Lazzaro voglioso di una briciola di pane di quelle cadute dalla mensa
del ricco Epulone». Tommaso d' Aquino: «Ecce panis angelorum». Per i marinai il
pane era meno angelico, un assillo nelle lunghe traversate. «Otri ben
confezionati» custodivano nell' Odissea farina e pane. Nei registri delle tre
caravelle di Cristoforo Colombo le voci più rilevanti erano sempre la farina, il
vino e il bizcocho: la cambusa doveva essere sempre tenuta chiusa a chiave. C'
è qualcosa, in questa bibbia del pane che Matvejevic non ha raccontato? Il pane
di Africo, un paese della Calabria, fatto con il mischio, farina di lenticchie,
cicerchie e orzo dal gusto acido e amaro, che Umberto Zanotti Bianco, grande
intellettuale che in quei luoghi fece opera di civiltà, inviava nei primi
decenni del Novecento agli amici di tutta l' Italia per testimoniare la
terribile miseria degli abitanti e chiedere aiuto. Non ha ricordato, lo
scrittore, la felicità incredula, alla fine della Seconda guerra mondiale, all'
apparire del primo pane bianco. E le parole di Sandro Pertini, l' 8 luglio
1978, nel suo discorso di insediamento da presidente della Repubblica: «Si svuotino
gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai». *** Al tempo
del fascismo sulle pareti delle botteghe dei fornai erano state pitturate d'
obbligo, in grossi caratteri, delle scritte: «Amate il pane, profumo della
mensa, gioia del focolare». E anche: «Rispettate il pane, orgoglio del lavoro».
Erano gli anni della battaglia del grano inventata per diminuire le
importazioni, un mezzo fallimento. Mussolini, a torso nudo, nelle immagini
dell' Istituto Luce, un cappello bianco in testa, dava il via alla trebbiatura.
Compariva anche in piedi sul trattore o nei campi con un falcetto in mano. Nei
paesi si moltiplicavano le massaie rurali, i contadini salutavano romanamente
tra un covone e l' altro tenuto ritto come una colonna. Tra gli anni Quaranta e
gli anni Cinquanta del Novecento, in Italia, in Europa, il mondo contadino
cessò di esistere, così com' era stato in quasi due millenni. Matvejevic
potrebbe scrivere un altro libro su quel che allora accadde. L' organizzazione
del lavoro tagliò le professionalità, le macchine sostituirono gli uomini.
Molte cascine della Bassa padana sono abbandonate, altre sono diventate
condomini, seconde case. La meccanizzazione, il computer che stabilisce i
programmi dell' alimentazione del bestiame, della semina, del raccolto, hanno
preso il posto dei contadini. In una grossa cascina di 300 ettari dove vivevano
70 famiglie ed erano impegnati nel lavoro un centinaio di uomini sono
sufficienti ora 6 contadini e un paio di avventizi. I giovani non hanno più
voluto fare il mestiere dei padri. I «bergamini» - i mungitori - approdati alla
valle del Po sono indiani che amano molto gli animali. Dove non sono arrivati
il cemento o gli specchi neri dell' energia fotovoltaica resiste ancora l'
antico paesaggio - i faggi delle Bucoliche di Virgilio - ma le armi dei rudi
campagnoli delle Georgiche davvero non esistono più. Resta la memoria, sorretta
dai film, dai libri. L' albero degli zoccoli di Ermanno Olmi che nasce dalla
cultura sociale cristiana e descrive gli umili che non si ribellano è una
terribile denuncia della disumanità della vita contadina assai più di
Novecento, di Bernardo Bertolucci, il film dei ribelli e della lotta di classe.
Il museo di Ozzano Taro, vicino a Parma, creato da Ettore Guatelli, imponente
raccolta dei poveri oggetti della quotidianità contadina (aratri a chiodo di
legno, erpici, trebbiatrici a mano, ruote di carri, spaventapasseri, accette,
vanghe) e la Casa museo di Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, nel
Siracusano: ecco come vivevano uomini e donne tra le loro cose amate e
disamate. La fatica e la violenza appaiono sovrane. L' uno e l' altro museo non
suscitano nostalgia, ma certamente affetto perché rappresentano i simboli più
antichi delle opere e dei giorni dell' uomo. Il libro, poi, che nessuna
rivoluzione tecnologica riuscirà a cancellare. Più al Nord che al Sud, più la
cascina che il feudo. Riccardo Bacchelli e il suo Mulino del Po (1938-1940),
ingiustamente dimenticato, un secolo di storia italiana, tra la ritirata di
Napoleone e la battaglia del Piave, vista da un mulino ferrarese. E, accomunato
dalla storia, Le strade di polvere (1987) di Rosetta Loy, una comunità del
Monferrato, tra la battaglia di Marengo, la sconfitta di Lissa, gli albori
dello Stato unitario: il tempo crudele e insieme magico di un mondo che non
lascia traccia, ma che è ben caldo nei cuori. E poi, alla rinfusa, gli
scrittori che si sono occupati del mondo contadino, Luigi Meneghello, di Malo
(Vicenza), Andrea Zanzotto, di Pieve di Soligo (Treviso), che in molti dei suoi
versi, soprattutto quelli in dialetto, fa sentire il respiro del mondo
contadino in cui vive. E nel Sud: Ignazio Silone, Francesco Jovine (Le terre
del sacramento), Vincenzo Consolo, coi suoi ribelli del Sorriso dell' ignoto
marinaio e con Le pietre di Pantalica. Ma è accaduto che siano stati
scrittori-non scrittori a lasciare il segno più profondo sul mondo contadino
del loro tempo. Carlo Levi con il suo Cristo si è fermato a Eboli, il libro
scritto sul confino lucano, protagonisti i contadini oppressi dalla fame e
dalla miseria e i padroni, i «luigini» di sempre. E infine Nuto Revelli, Il
mondo dei vinti: 270 testimonianze contadine che danno il senso della
distruzione di un popolo di cui sono come il testamento. Gli emarginati di
sempre, i «sordomuti», i sopravvissuti al grande genocidio. Nelle povere
vicende dei contadini dell' Alta Langa si rispecchiano le vicende dei contadini
d' Abruzzo e della Ciociaria venuti a Roma lasciando i paesi d' origine, dei
contadini della Bassa padana arrivati a fare i portinai a Milano, dei contadini
del Napoletano, divenuti operai dell' Alfasud e contadini della domenica, dei
calabresi giunti a Torino per lavorare alla Fiat, accasermati alla Falchera,
dei contadini-marinai di Capo Passero, di Noto. Dalla campagna alla fabbrica al
terziario all' elettronica. E adesso?
Stajano Corrado, Corriere della Sera, 12 gennaio 2011.
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