05 luglio 2012

VINCENZO CONSOLO E LEONARDO SCIASCIA








Ripropongo un’intervista di Goffredo Fofi a Vincenzo Consolo, pubblicata nel 1993 sul n. 2 della rivista Dove sta Zazà.

Cosa dobbiamo a Sciascia
a cura di Goffredo Fofi.

Vincenzo Consolo è il maggior scrittore siciliano di oggi, certo uno dei più radicali nelle sue scelte (un linguaggio non recuperabile dalla medietà televisivo–giornalistica, su temi poeticamente alti e storicamente centrali). Abbiamo chiesto all’autore di La ferita dell’aprile, di Il sorriso dell’ignoto marinaio, di Retablo, di Le pietre di Pantalica e di Nottetempo casa per casa una testimonianza sulla figura e sull’opera di Sciascia, suo maestro e suo amico.

Cosa è stato Sciascia per te?

Sciascia mi ha illuminato su una parte della Sicilia, su una zona morale della Sicilia che io non conoscevo. Io avevo conosciuto si e no una certa età, una certa epoca, una Sicilia che chiamerei «verghiana», una Sicilia di sentimenti, di rassegnazione, di stasi e di dolore inesprimibile che era il mondo verghiano. Naturalmente, avevo letto anche Pirandello, ma mi sembrava che il ragionamento pirandelliano posasse tutto su una frattura, su un vallo che esisteva tra la realtà e quella realtà dialettica che era il ragionamento pirandelliano, che poggiava proprio su questa frattura e quindi entrava in una sfera di ragionevole illogicità, un po’ come nel mondo kafkiano, dove c’è una realtà che poggia, che viene costruita su una sorta di metafisica. Leggendo Sciascia mi accorsi per la prima volta, e anche con consolazione, che esisteva una Sicilia dove il pensiero si muoveva, una Sicilia di ragione che io non conoscevo. La conobbi leggendo il primo libro, Le parrocchie di Regalpetra. Quando pubblicai il mio primo racconto, La ferita dell’aprile, la mia prima preoccupazione fu di mandarglielo dichiarando il mio debito nei suoi confronti, perché mi aveva salvato dall’abbandono verso la zona del sentimento, della mancanza di ragione che credo sia il male maggiore della Sicilia. Anche lo stesso Vittorini, per esempio, un uomo fortemente impegnato con la storia, mi aveva educato a questo abbandono al lirismo. Forse, se devo trovare un precedente a Sciascia lo trovo, sia pure in altre forme e con altri toni e presupposti, in Brancati: un Brancati loico, sarcastico, che però interpretava la realtà siciliana in quella chiave di erotismo che noi conosciamo, con la distruzione di quelli che erano i luoghi comuni, la stupidità del mondo attraverso la chiave del sarcasmo e del comico.
Sciascia mi ha fatto vedere per la prima volta l’esistenza di una Sicilia del ragionamento. Andandolo a trovare, quando pubblicai il mio primo romanzo ancora abitava a Caltanissetta ed era un maestro elementare assolutamente sconosciuto, scoprii la Sicilia del Nisseno, al confine con il mondo agrigentino, e mi accorsi della sua esistenza e dell’esistenza di ragioni storiche per cui quella Sicilia era diversa da tutto il resto dell’isola, ed era la Sicilia dove c’era stata la rivoluzione degli zolfatari, i lavoratori dello zolfo che avevano trovato nel primo socialismo della fine Ottocento, nel socialismo romantico, la speranza di riscatto, il desiderio di cambiare la loro condizione sociale. Sappiamo che queste cose finirono con i fasci siciliani e con la repressione; però nell’agrigentino io ho notato una diversità da tutto il contesto siciliano: l’uomo agrigentino aveva imparato a far muovere il pensiero, cosa che in altre zone della Sicilia non avevo ancora potuto constatare.
La mia sirena, diciamo il mio pericolo era un altro uomo a cui era vicino e che era Lucio Piccolo. Lucio Piccolo lo conoscevo da bambino perché era di un paese vicino al mio. Per me era un ricco barone e lo pensavo quindi come una persona irraggiungibile, essendo io figlio di popolani. Poi quando pubblicò il suo primo libro di liriche, quando fu scoperto da Montale era il 1956, lo incontrai in una tipografia legatoria del mio paese, quella in cui aveva pubblicato le nove liriche che lo fecero scoprire a Montale e vincere il premio San Pellegrino. Mi invitò ad andarlo a trovare e cominciai a frequentarlo. Piccolo mi insegnò cosa era la poesia, cosa era la letteratura; ma c’era in questo anche un rischio, perché mi trasportava verso quella tendenza al lirismo e al barocchismo che è spesso della letteratura siciliana. Sciascia fu il correttivo a questa seduzione, il correttivo all’abbandono verso il lirismo, verso la Sicilia del sentimento con il ragionamento, con la percezione e la comprensione della storia. Prima di Sciascia c’era stata naturalmente la lezione di tutti i grandi meridionalisti, e ho capito che Sciascia apparteneva a questo filone (non ultimo Carlo Levi con il Cristo e con Le parole sono pietre) a questo tipo di letteratura memorialistica. Il mio primo racconto aveva l’ambizione di contemperare le due anime siciliane, l’anima lirica e l’anima razionale e storicistica.

Nei tuoi libri c’è sempre l’ossessione della storia: il linguaggio e la storia sono i due poli tra cui tu ti muovi, la tragedia della storia e il linguaggio come modo di esorcizzarla, di congelarla, di tenerla a bada. In questo senso il tuo «barocco» non è un barocco di furia, è un barocco di tragedia, molto poco consolatorio.

Fra me e Sciascia ci sono dieci anni di differenza, ma sono dieci anni importantissimi perché segnano il passaggio da una generazione a un’altra. Sciascia ha cominciato a operare letteralmente in una Sicilia ancora dialettale; il suo impegno letterario era quello di uscir fuori da questa dialettica e di scrivere una lingua di assoluta comunicazione e, diciamo, nazionale. Ha quindi scelto una cifra linguistica di tipo illuministico, affondando nel modello dell’illuminismo francese ma passando attraverso il Manzoni dei Promessi sposi, con una scelta di campo che combaciava perfettamente con quello che egli voleva fare, con il suo progetto letterario. Prima della pubblicazione del Giorno della civetta, mi parlò per la prima volta del romanzo giallo. Io, da letteratino di provincia qual ero, che amavo le letterature altissime e assolute, avevo un grande disprezzo per il poliziesco, per il romanzo giallo. Facevamo allora delle ricognizioni della Sicilia, era come un voler prendere possesso dell’isola con dei viaggi, paese dopo paese, negli anni dell’immediato dopoguerra, una sorta di rivisitazione della nostra terra, che io peraltro non conoscevo. Ho scoperto la Sicilia interna grazie a quei viaggi che facevo per andare a trovare Sciascia a Caltanissetta. Eravamo un giorno alla villa dei mostri a Bagheria e il discorso cadde sul romanzo giallo. Io dicevo che il romanzo giallo non mi piaceva, che non mi piaceva la meccanicità della narrazione, che il romanzo giallo non aveva un impegno con la scrittura, e lui sorrideva sornione, perché era proprio sul punto di pubblicare Il giorno della civetta. Quando uscì, capii cos’era l’impegno di Sciascia: voleva raccontare, con grande generosità e rinunciando alla letteratura assoluta, attraverso il romanzo giallo poteva raccontare quello che era la realtà contingente non solo della Sicilia ma anche dell’Italia. Ha fatto grande letteratura partendo da un genere letterario che era, diciamo così, ipotecato come romanzo d’intrattenimento. Il giallo era un genere ostico alla tradizione italiana e soprattutto siciliana. Quella del romanzo giallo è una struttura logicissima, e in una terra dove di logico non c’è niente… Un luogo come la villa dei mostri di Palagonia è emblematico del punto più alto dell’irrazionalità e della follia sicula, la villa da cui Goethe è scappato spaventato… Sciascia aveva scelto uno strumento narrativo quanto mai efficace, quanto mai appuntito contro l’irrazionalità della storia che stavamo vivendo, contro l’irrazionalità e l’anarchia del potere, l’insondabilità del potere eccetera.

Il giallo di Sciascia non ti ha però influenzato, semmai ti ha influenzato di Sciascia Morte di un inquisitore come vago antecedente dell’Ignoto marinaio…

Quando ho incominciato a narrare, pensavo di scrivere un romanzo di tipo sociologico come Le parrocchie di Regalpetra, volevo fare una sorta di diario, di resoconto della realtà di un luogo che conoscevo, del luogo della mia nascita, della mia infanzia, della mia esperienza. Quando mi misi al tavolino per scrivere, però, la mia mano andò subito in un altro senso: non mi venne la forma diaristica, cominciai invece a narrare in forma lirico – espressiva, in cui aveva una parte preponderante il linguaggio. Siccome l’io narrante era un adolescente, questa voce di adolescente mi servì per un linguaggio di tipo trasgressivo, che non poteva essere l’italiano. Ne venne una forma speculare alla lingua limpida e cristallina che aveva scelto Sciascia; quello di Sciascia non era un italiano curiale o impiegatizio, era un italiano completamente reinventato; dietro la sua limpidezza si sentiva la matrice di una realtà incandescente come quella siciliana. Nella prosa di Sciascia ci sono dei calchi ben precisi di un substrato di tipo dialettale, anche se poi il dialetto è superato e viene in primo piano questa trasparenza ed estrema comunicabilità della scrittura. Io ho voluto fare un’operazione contraria, ho voluto rompere il codice linguistico italiano muovendomi da una trasgressione di tipo adolescenziale e creando così una lingua d’impasto tra l’italiano e, più che il dialettale, un gergo adolescenziale, proprio per dire della trasgressione della materia di cui stavo narrando, un romanzo – lo chiamo romanzo solo per convenzione, semmai è un romanzo breve o un racconto lungo -, La ferita dell’aprile, in cui intendevo raccontare il secondo dopoguerra siciliano. È un romanzo di tipo pseudo autobiografico, ma di un autobiografico c’è poco. Ho voluto raccontare un’ennesima possibilità della Sicilia, con forte attenzione verso la realtà sociale e storica; ho voluto raccontare la ricostruzione dei partiti in Sicilia, ma con grande dissacrazione e grande disincanto, evidenti soprattutto dal punto di vista linguistico. Capivo bene che avrei dovuto raccontare non di me, ma della Sicilia così come me l’aveva insegnata Sciascia; e però invece di scrivere nel modo saggistico e illuministico, ho cercato di rendere tutto questo attraverso lo strumento linguistico, un eterno strumento trasgressivo e anti–italiano.





Questa operazione è poi continuata…

Si, è continuata. La ferita dell’aprile è il romanzo più storicamente vicino nel tempo. Ero partito dall’assunto che tra me e Sciascia ci sono dieci anni di differenza. Quando Sciascia ha cominciato a scrivere esisteva ancora una Sicilia dialettale, quando ho cominciato a scrivere io, dieci anni dopo, appartenevo già a una generazione in cui la dialettalità stava sparendo, perché erano intervenuti, a cavallo fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, la burocratizzazione del paese, il grande fenomeno delle emigrazioni delle realtà meridionali, il grande spostamento verso il nord. Ero di fronte a una realtà diversa da quella di Sciascia. Dal primo al secondo romanzo, poi, subii biograficamente uno sradicamento e un reinnesto in una realtà diversa: scelsi di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano, consigliato anche dallo stesso Sciascia. Mi disse proprio, devo dire fraternamente, se non paternamente, «Se fossi più giovane partirei anch’io, perché qui non c’è più speranza». E in effetti in Sicilia non c’era più speranza, la storia bloccata o almeno sequestrata dal potere costituitosi con le elezioni del ’48, da questa pietra tombale che era caduta non solo sulla Sicilia ma sull’Italia, dall’instaurarsi del regime politico democristiano; tutte le speranze che si erano accese nel dopoguerra erano cadute. Nel ’68 venni dunque a Milano, attratto anche dalla sirena vittoriniana che invitava a vedere le nuove realtà sociali che si formavano, a cercare di raccontarle, di registrarle: registrare il contadino meridionale che si trasformava in operaio… Registrare anche linguisticamente, diceva Vittorini nel «Menabò» le coinè che si sarebbero formate. Ma Vittorini non aveva calcolato il valore distruttivo della televisione… Sono rimasto per anni in silenzio perché non possedevo lo strumento linguistico con cui raccontare lo sradicamento subito; e fu una pausa di tredici anni. Quando ero arrivato a Milano nel ’68 – ’69 avevo fatto molto giornalismo, ma quando mi decisi a scrivere, capii che per poter raccontare avrei dovuto tornare in Sicilia. Mi sembrava che dovessero camminare di pari passo il recupero linguistico con il recupero della storia, e venne di qui l’esigenza di andare indietro nel tempo e di scrivere in forma storica e metaforica, e la scrittura mi serviva anche a recuperare un patrimonio linguistico che si stava perdendo. Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, che uscì nel ’76, ho voluto raccontare l’Italia degli anni ’70 attraverso un romanzo ambientato nel 1860 in Sicilia attraverso i temi che allora si agitavano: l’intellettuale di fronte alla storia, l’impegno dell’intellettuale, le persone che non hanno la capacità di scrivere, e di esprimersi… Non ho fatto la storia romanzata, ho cercato di fare il romanzo storico proprio manzonianamente, attraverso il recupero del linguaggio e attraverso anche una sperimentazione della struttura narrativa, ho cercato di non fare il romanzo storico, completo e pieno senza possibilità d’intervento da parte del lettore, bensì con una struttura rotta. Non so se ci sono riuscito. Però ripeto, c’era bisogno del linguaggio. Il problema della lingua in Italia è il problema cruciale per chi scrive.
In Sciascia c’era anche un po’ l’influenza di un linguaggio requisitorio, inquisitorio, un linguaggio un po’, come diceva Stendhal, da catasto ma anche da ufficio di pubblica sicurezza, un linguaggio loicoavvocatesco. Questo linguaggio è passato in qualche modo in quello dei giudici di oggi che sono molto diversi dai giudici di ieri, dai giudici del tempo di Sciascia che usavano una retorica dell’Ottocento, fiorita, frondosa, ma reticente, che allude, che non dice mai. I giudici alla Falcone parlano invece con grande franchezza. Si potrebbe perfino dire che mentre l’intellettuale, come punta di lancia, di una messa in discussione del potere, non conta più molto in Italia, perché il suo ruolo è stato preso e distrutto dal giornalismo e dalla televisione, ai cui linguaggi si è piegato, il linguaggio dei giudici e degli avvocati, che partiva così disprezzato (dire «linguaggio avvocatesco» era un insulto) è cresciuto invece su altri versanti e ha preso molto da Sciascia. Un incrocio curioso, un innesto curioso…
Il linguaggio avvocatesco meridionale era quanto di più corrotto e di più ipotecato dal potere, era trasversale, allusivo e coperto dalla retorica. Un esempio lo si può ricavare da Delitto d’onore di Arpino, dove c’è una grande figura di avvocato… Ma anche Salvemini parlava di famosi «paglietta» meridionali che erano quanto di più corrotto culturalmente si potesse immaginare, e Carlo Levi li raffigurò nei «Luigini» del fascismo… Diciamo che la magistratura e i loro corrispettivi, gli avvocati, vivevano tutti da una cultura di tipo leguleio. Da una parte c’era il linguaggio curiale dei preti, altrettanto retorico, evasivo e illusorio, e dall’altro il linguaggio delle preture e dei tribunali, un linguaggio corrotto, quello che Vittorini odiava e disprezzava. Sciascia per la prima volta, attraverso i suoi romanzi gialli, portò una linea manzoniana nordica… Se Vittorini aveva trasferito una Lombardia in Sicilia un po’ liricamente e retoricamente, Sciascia trasferì effettivamente in Sicilia una linea di illuminismo lombardo Verri, Beccaria e Manzoni mutandola attraverso la Francia. Oggi, caduta la funzione di un intellettuale come Sciascia, il suo posto lo hanno preso i giudici. C’è stato un grande cambiamento in queste categorie statali, sono categorie che prima non si erano viste nel meridione. E non è un caso che i giudici palermitani abbiano dichiarato il loro debito ai libri di Sciascia. Sciascia ha aiutato molto alla disciplina del ragionamento attraverso il linguaggio di tipo inquisitorio e poliziesco, la prassi poliziesca del ragionamento… Molto spesso, quando prendeva provocatoriamente determinate posizioni, per esempio al tempo del terrorismo e poi dell’antimafia, quello che per lui era un ragionamento, un metodo da seguire, per molti pigri intellettuali e giornalisti è stato riassunto in slogan che tradivano il suo pensiero. Per esempio, il suo non sentirsi obbligato a fare il giudice popolare in un eventuale processo contro il terrorismo fu sintetizzato nel «né con le Br né con lo Stato»; ci furono gli stalinisti di sempre, i retori da televisione, che l’accusarono dicendo: «Sciascia sei con le Brigate rosse». Lo stesso è successo con la polemica sui professionisti dell’antimafia. Lui cercò di criticare la motivazione con cui il Consiglio superiore della magistratura aveva promosso Borsellino a Procuratore di Marsala; invece di prendersela con il Consiglio superiore della magistratura e le sue risibili motivazioni, se la presero con Sciascia… E gli stupidi del momento inveirono contro di lui dicendo che faceva il gioco della mafia. Il ragionamento e la disciplina logica sono molto difficili, noi siamo portati allo slogan, alla frase fatta e alle affermazioni apodittiche, soprattutto oggi, in questo mondo di retori e di ciarlatani da piccolo schermo.

Nel Sud, come in tutta l’Italia degli anni ’60, è finita una storia, è arrivata una specie di modernità, attraverso un tipo di benessere molto falso… Individui ancora nella società siciliana o nel carattere siciliano delle costanti, oppure il cambiamento è stato così radicale da costringere lo scrittore a trincerarsi in un’appartata difesa di valori, che non corrispondono però agli interessi di massa attuali?

L’unica costante siciliana è la mafia, l’unica continuità che si è avuta dopo il radicale cambiamento degli anni ’60, l’unica cosa rimasta è la mafia. La mafia del feudo si è trasferita in città, si è inurbata, ha saccheggiato le città, soprattutto Palermo; poi è diventata mafia in simbiosi perfetta con il potere, se non lo è sempre stata; quindi il grande affare della droga. Anche Sciascia a un certo punto si è arrestato di fronte all’insondabilità del male, e in un’intervista ha dichiarato: «Non ci capisco più niente». Stando a Recalmuto, conosceva la mafia contadina e aveva visto la trasformazione prima a Caltanissetta poi ad Agrigento e Palermo, e le implicazioni con il potere. Aveva raccontato tutto questo ma a un certo punto non ha potuto più raccontare… Non ha potuto più calarsi nei sotterranei del potere, tra i misteri di cui solo adesso stiamo intravedendo le fila. Dopo la sua scomparsa con Una storia semplice, credo che quelli che hanno potuto raccontare questa storia, rischiando, pagando anche con la vita il fatto di essersi calati nei sotterranei del potere, sono stati i giudici, sono stati Falcone, Borsellino e tutti gli altri…
C’è stato un cambiamento culturale da allora in poi, e io credo che oggi una letteratura siciliana – parlo della Sicilia, ma la stessa cosa si potrebbe dire dell’Italia – non rappresenta più il presente; non lo può più rappresentare perché il narratore non ha più la funzione che aveva una volta. La realtà ormai è raccontata giorno per giorno dai mezzi di comunicazione di massa, e come si fa a competere con i mezzi di comunicazione di massa? Un narratore non può farlo. Lo ha fatto Sciascia fino a un certo punto, scegliendo lo strumento letterario del romanzo giallo per cercare di capire cosa c’era di oscuro… Moravia ha detto una cosa interessante su Sciascia, che ha fatto il contrario di quello che avevano fatto gli illuministi: gli illuministi partivano dall’oscurità per arrivare alla luce, Sciascia faceva il cammino al contrario, partiva dalle cose alla luce del sole, dai morti ammazzati, per arrivare all’oscurità, all’oscurità del potere mafioso. Quando si diceva che Sciascia era un «vate» da «vaticinio» e cioè vaticinava quello che sarebbe accaduto, questo era frutto del ragionamento: se tanto mi dà tanto, succederà questo, e puntualmente le cose accadevano. Dopo di lui non è stato più possibile. Oggi la realtà ce la raccontano i giudici, la realtà della Sicilia come la realtà di Milano. La letteratura deve quindi avere altre implicazioni che non siano quelle della cronaca e allora, per quanto mi riguarda, praticare sempre di più il romanzo storico e metaforico per un linguaggio che la cronaca non contempla. Soprattutto per la questione fondamentale del linguaggio, ripeto, perché il linguaggio della cronaca è quanto di più antitetico si possa immaginare al linguaggio della letteratura. Il linguaggio della letteratura è un recupero della memoria e soprattutto della memoria linguistica; il giornalismo e la cronaca riguardano solo il presente, un eterno presente che cancella il passato e non lascia immaginare neanche l’immediato futuro. L’unico modo per salvarsi che ha la letteratura è, io credo, di spostare il registro linguistico verso quello della poesia, perché la poesia è più irriducibile, meno mercificabile.

http://www.napolimonitor.it/2012/01/24/10431/in-ricordo-di-vincenzo-consolo.html

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