29 luglio 2012

IL MONDO DI ELSA MORANTE





Torniamo a parlare di Elsa Morante tramite l’introduzione di Goffredo  Fofi ad una  celebre opera della scrittrice che torna in libreria in occasione del centenario della sua nascita.
In coda al pezzo di Fofi indichiamo dei link che riproducono  alcune memorabili  recensioni della I edizione del libro della Morante. 



Goffredo Fofi, In quei ragazzini tutte le speranze della Morante

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Nelle poesie, nei poemetti di Il mondo salvato dai ragazzini c’è la Morante dei romanzi già scritti, in particolare L’isola di Arturo, e di quelli ancora da scrivere, La Storia e Aracoeli, anche se a una prima lettura questi tre titoli sembrano così distanti e diversi tra loro. Il mondo salvato dai ragazzini è una sintesi sorprendente, comprensibile solo a distanza. Quando il libro uscì, nei primi mesi del ’68, non se ne comprese appieno l’ampiezza, la novità.
Si era nel vivo di un movimento che in qualche modo era stato annunciato e invocato molti mesi prima dalla pubblicazione su «Nuovi Argomenti» della Canzone degli F.P. e degli I.M., letta con la dovuta attenzione da pochi, e tra questi dai collaboratori dei «Quaderni piacentini» su sollecitazione dello psicoanalista libertario Elvio Fachinelli. La causa? La distanza, che non è mai stata colmata e che anzi continua a crescere, tra chi agisce e chi pensa, o meglio: tra chi agisce e chi evoca e canta. E d’altronde il ’68 trovò molte simpatie in molti degnissimi rappresentanti delle generazioni precedenti, ma non fu tra loro che andò cercando i suoi maggiori.
Non era prevedibile, il nostro ’68, quando Elsa scrisse la Canzone, nonostante le anticipazioni statunitensi. Ma era come se la Canzone lo prevedesse, fosse stata scritta con quella convinzione, e avesse eletto i suoi lettori tra coloro che, nelle università ma non solo, si sperava giungessero a ribellarsi. E Il mondo salvato dai ragazzini diventò dunque, volendolo essere, una voce nel deserto ma che si rivolgeva a lettori specifici, ai «ragazzini» delle ultime grandi rivolte possibili, ben oltre quelle della classe operaia dei gruppi e partiti marxisti passati e futuri.
Alle definizioni del libro che Elsa Morante volle elencare nella quarta di copertina – «È un manifesto. È un memoriale. È un saggio filosofico. È un romanzo. È un’autobiografia. È un dialogo. È una tragedia. È una commedia. È un documentario a colori. È un fumetto. È una chiave magica. È un testamento. È una poesia» -, e che ci sembrano oggi tutte adeguate, ne mancavano forse due più prosaiche e banali: È un comizio, È una predica. Sembrano insulti e non lo sono, se appena si rende alle parole il loro significato più profondo: di invito (orazione) e di monito (spiegazione).
Non si può comprendere appieno il valore di questo libro nella sua complessità e varietà e nel compendio che propone, se non si tiene conto della sua aspirazione a incidere nella realtà con i mezzi della poesia attraverso i lettori potenzialmente più ricettivi di tutti, i giovani, i nuovi. Ed è infine questo il risultato più ardito a cui la poesia abbia mai potuto aspirare. Veggente come l’amato Rimbaud (si conosce una piccola incisione moderna del volto di Rimbaud su cui la Morante ha scritto una dedica paradossale: «A Elsa, Arthur») e in quanto tale anche profeta: annunciatrice, suscitatrice.

La funzione del poeta è, nella visione della Morante, la più alta possibile, è quella di chi deve mettere in guardia i lettori (il mondo) dai pericoli che covano al suo interno – il maggiore tra tutti quello dell’irrealtà -, ricordandogli la bellezza del vero, della realtà.
Veggente sì, ma veggente, se così si può dire, armata, poiché è suo compito anche quello, da rendere il più possibile concreto, di affrontare «il drago notturno, per liberare la città atterrita». Sono pochi i poeti che, nei turbamenti e nelle tempeste del Novecento, hanno osato chiedere così tanto alla poesia: un’ambizione smisurata, che La Storia reitera reinventando il grande romanzo dell’Ottocento, e che non poteva non andare incontro alla dichiarazione di sconfitta, già cento volte intuita, narrata più tardi in Aracoeli.
Poiché «fuori del Limbo non v’è Eliso». La Nota introduttiva alla prima edizione economica del libro, nel 1971, è assolutamente chiara nella definizione del progetto morantiano di poesia come politica e come religione. Pochi scrittori hanno osato assumersi un compito così arduo, scomodo e pesante, e pochi hanno chiesto così tanto alla poesia. Quando l’hanno fatto è stato in epoche di massima trasformazione, in epoche rivoluzionarie, quando lo scontro con il potere è stato più grave. E potremmo, di conseguenza e senza forzar troppo, considerare Il mondo salvato dai ragazzini come il documento più alto del ’68 e dei suoi dintorni – insieme a Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e forse a Contro l’università di Guido Viale. Però con una profondità più radicale e in una luce assai più intensa, poiché la Morante sapeva vedere più indietro e più avanti; sapeva vedere oltre senza rinunciare a una leggibile precisione, a riferimenti comprensibili, senza mai dimenticare che bisogna parlare a tutti, ai ragazzini come alle professoresse, e soprattutto agli «analfabeti» della bellissima citazione da César Vallejo «por el analfabete a quien escribo», che apre La Storia e che chiude, annunciando quella fatica, la prefazione del ’71 al Mondo salvato dai ragazzini.
Questi due libri, che andrebbero letti insieme al saggio Pro o contro la bomba atomica, sono bensì libri di speranza e non di disperazione, di apertura e non di chiusura, ed è forse per questo, per il radicamento nel proprio tempo, per il dialogo forte col proprio tempo e per la scelta di lettori non abituali – gli studenti, «gli analfabeti» – che essi hanno faticato a venire accettati, non dai lettori – pochi per il primo, tanti per il secondo – ma dagli «alfabetizzati» per definizione: gli intellettuali letterati e critici e artisti suoi contemporanei (con le debite eccezioni in coloro che sapevano capire, e cioè nei grandi poeti dalle visioni più larghe: c ’è stato infatti un tempo, ancora molto vicino a noi ma che oggi ci appare lontanissimo, in cui c’era ancora chi sapeva ascoltare per tradurla nella nostra povera lingua la felliniana -leopardiana – «voce della luna»).

Forse il rapporto da indagare con più attenzione, se qualcuno vorrà mai farlo, è quello tra Elsa e Pasolini, amici-e-lontani perché al tempo della rivolta dei «ragazzini» fu assai diverso il loro modo di reagire alla novità che quei ragazzini portavano. E se ognuno deve qualcosa all’altro, è pur vero che tra il «pazzariello» ideale della Morante e il «pazzariello» ideale di Pasolini la distanza è assai grande. Dietro quello morantiano c’è pur sempre l’Arthur/Arturo/Artù dell’Isola e c’è la sconfitta del suo sogno di avventura liberatoria o semplicemente di un’età adulta da «eroe» in grado di controllare il proprio destino che, nel Mondo, è quella di Edipo, folgorato dalla conoscenza e dalla sofferenza che ne consegue e che sarà più tardi quella, ancor più cupa, di Aracoeli. Dietro il «pazzariello» pasoliniano (che nei film, e si pensa soprattutto all’episodio più ardito ed esemplare, quello del Fiore di carta, ha i tratti di Ninetto Davoli) c’è una materialità che contrappone alla Storia la Natura, la cui spontanea bellezza è uccisa dalla concretezza di una trasformazione economica e di un’evoluzione sociale piuttosto che dal metafisico cozzo dell’esperienza con la vita, dalla comprensione dell’inguaribile povertà della propria condizione-dell’umana condizione. (…)
C ’è un breve testo postumo di Elsa Morante che risale agli anni in cui il movimento dei «ragazzini» andava perdendosi in interne diatribe e nel ritorno a una visione della politica di stampo partitico e leninista, verticistico e autoritario, ancora una volta ragionando soltanto in funzione della «presa del potere». È il Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito), che sembra una spiegazione o un’aggiunta didascalica ai temi più immediati del Mondo: la rivoluzione è una«assoluta necessità», ma il suo compito è «liberare tutti gli uomini dal Potere affinché il loro spirito sia libero». L’esercizio del potere è un vizio degradante, un vizio che rende ciechi alla realtà: questa la persuasione che avrebbe dovuto fare della rivolta dei ragazzini una svolta, mentre così non è stato. È per ricordarlo un’ultima volta, che Elsa ha scritto La Storia, un romanzo dal titolo così ambizioso, e tuttavia così leggibile, accessibile, il cui scopo è mettere in guardia da quanto la Storia da sempre riserva agli umani, poiché padroni ne diventano coloro che ambiscono al Potere e fanno di tutto per averlo. Se anche ¡giovani, se anche il ’68 rischiano di lasciarsi trascinare da questa abituale deriva, il romanzo La Storia sarà per Elsa l’ultimo appello, l’ultimo memento. (…)
Quando Elsa scrive Aracoeli, la sua speranza nell’anti-potere della poesia come religione e politica, come filosofia, è ormai morta: ciò che aveva temuto è accaduto, anche da quest’ultimo scontro con il drago dell’irrealtà ella è uscita sconfitta. Come i suoi amati Felici Pochi, nel cui elenco noi possiamo includerla senza paura di sbagliare. E il problema non è la sua sconfitta, ma quella, ancora una volta, del mondo.

Fonte:  La Repubblica 14 luglio 2012


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