10 ottobre 2013

IL DIRITTO DI AVERE DIRITTI




 




Stefano Rodotà ha vinto la quinta edizione del Premio De Sanctis per la Saggistica con Il diritto di avere diritti (Laterza). Sarà premiato oggi a Roma alle 18 a Villa Doria Pamphili. Pubblichiamo un brano tratto dal prologo del libro ringraziando l’autore e la casa editrice




Diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia. Orfani di un territorio che dava loro radici e affidava alla sovranità nazionale la loro concreta tutela, sembrano ora dissolversi in un mondo senza confini dove sono all’opera poteri che appaiono non controllabili. Un tempo, al sovrano prepotente l’umile mugnaio di Sans-Souci poteva semplicemente ricordare i giudici che sedevano a Berlino. Ma, oggi, chi è il sovrano e dove sono i giudici? Dovremo altrimenti rassegnarci al fatto che, «non avendo alcun appello sulla terra che renda loro giustizia», troppi siano ormai destinati a essere «abbandonati all’unico rimedio che rimane in tali casi, cioè l’appello al cielo»?
Nello spazio globale i diritti si dilatano e scompaiono, si moltiplicano e si impoveriscono, offrono opportunità collettive e si rinserrano nell’ambito individuale, redistribuiscono poteri e subiscono soggezioni, soprattutto agli imperativi della sicurezza e alla prepotenza del mercato. Andamenti contraddittori, che sono il segno d’un tempo che non conosce tragitti lineari e vive di conflitti acutissimi.
Nelle diverse dimensioni istituzionali, che contribuiscono a comporre la galassia della globalizzazione, è tutto un incessante riscrivere il catalogo dei diritti. Si reinterpretano quelli già riconosciuti, se ne aggiungono di nuovi, si interviene negandoli tutti, senza che sia però possibile chiudersi nell’angustia delle storiche frontiere, perché la circolazione e il confronto tra i diversi modelli sono imposti, in primo luogo, dal prepotente emergere di comuni bisogni materiali, dalla comune influenza dell’innovazione scientifica e tecnologica, dalla violenza di una finanza senza regole, dunque da quell’intreccio di relazioni e dipendenze, da quella nuova distribuzione dei poteri, da quel continuo obbligo di fare i conti con gli altri, con tutti gli altri, che appunto chiamiamo globalizzazione.
È questo il mondo nuovo dei diritti. Un mondo non pacificato, ma ininterrottamente percorso da conflitti e contraddizioni, da negazioni spesso assai più forti dei riconoscimenti. Un mondo troppe volte e troppo spesso doloroso, segnato da sopraffazioni e abbandoni. E così «i diritti parlano», sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia, e uno strumento per combatterla. Registrarne minutamente le violazioni non autorizza conclusioni liquidatorie. Solo perché sappiamo che vi è un diritto violato possiamo denunciarne la violazione, svelare l’ipocrisia di chi lo proclama sulla carta e lo nega nei fatti, far coincidere la negazione con l’oppressione, agire perché alle parole corrispondano le realizzazioni.
Lo storico appello alla «lotta per il diritto» si declina, oggi, come lotta per «i diritti». E proprio il dilatarsi degli orizzonti spaziali e temporali, insieme alla percezione sempre più diffusa che la persona non può essere separata dai suoi diritti, scardina la cittadinanza come proiezione e custodia di una identità oppositiva, feroce, escludente, che separa e non unisce. La cittadinanza cambia natura, si presenta come l’insieme dei diritti che costituiscono il patrimonio d’ogni persona, quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, e così avvicina e non divide, offrendo anche all’eguaglianza una nuova, più ricca dimensione. È rivelatore questo mutamento di significato del riferimento alla cittadinanza, la cui connotazione «esclusiva» è ormai accompagnata, e spesso beneficamente offuscata, da una sua versione «inclusiva», appunto quella dei diritti di cittadinanza.
Questo mutare dell’idea di cittadinanza rende meno proponibile la tesi che vuole ogni discorso sui diritti solo come la coda lunga di una pretesa egemonica, irrimediabilmente colonialista, di un Occidente che vuole imporre i suoi valori a culture e tradizioni diverse, negandone ragioni e particolarità, continuando a praticare un imperialismo che si tinge con i colori della democrazia e invece legittima l’uso della forza.
Oggi dobbiamo guardare assai più in profondo, oltre le stesse ipotesi e ricerche di chi, come Amartya Sen, si è impegnato nel mostrare come esistano radici culturali comuni proprio intorno a valori fondativi dei diritti. Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni; i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi; i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali; luoghi in tutto il mondo vengono «occupati» per difendere diritti sociali. E si potrebbe continuare.
Tutti questi soggetti ignorano quello che, alla fine del Settecento, ebbe principio intorno alle due sponde del «Lago Atlantico», non sono succubi d’una qualche «tirannia dei valori», ma interpretano, ciascuno a suo modo, libertà e diritti nel tempo che viviamo. Qui non è all’opera la «ragione occidentale», ma qualcosa di più profondo, che ha le sue radici nella condizione umana. Una condizione storica, però, non una natura alla quale attingere l’essenza dei diritti. Perché, infatti, solo ora tanti dannati della terra li riconoscono, li invocano, li impugnano? Perché sono essi i protagonisti, i rabdomanti di un «diritto trovato per strada»?
Un innegabile bisogno di diritti, e di diritto, si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica. E così, con l’azione quotidiana, soggetti diversi mettono in scena una ininterrotta dichiarazione di diritti, che trae la sua forza non da una qualche formalizzazione o da un riconoscimento dall’alto, ma dalla convinzione profonda di donne e uomini che solo così possono trovare riconoscimento e rispetto per la loro dignità e per la stessa loro umanità. Siamo di fronte a una inedita connessione tra l’astrazione dei diritti e la concretezza dei bisogni, che mette all’opera soggetti reali. Certo non i «soggetti storici» della grande trasformazione moderna, la borghesia e la classe operaia, ma una pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie. Non un «general intellect», né una indeterminata moltitudine, ma una operosa molteplicità di donne e uomini che trovano, e soprattutto creano, occasioni politiche per non cedere alla passività e alla subordinazione.

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