Alice Munro ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Festeggiamo questo riconoscimento riproponendo l'inizio di un suo racconto e un articolo di Daniela Brogi dedicato a Munro e ad altre grandi scrittrici canadesi contemporanee.
ALICE MUNRO - NEMICO, AMICO, AMANTE
e una matassa crespa di capelli rossi, si presentò in stazione per informarsi riguardo alla spedizione di certi mobili.
L’impiegato faceva sempre un po’ lo spiritoso con le donne, specie con quelle bruttine, che sembravano apprezzare.
- Mobili?- disse, come se nessuno avesse mai avuto prima un’idea simile.- Dunque, vediamo. Di che genere di mobili stiamo parlando?
Un tavolo da pranzo con sei sedie.Una camera da letto completa, un divano, un tavolo basso, alcuni tavolini, una lampada a stelo. E anche una cristalliera e una credenza.
- accidenti. una casa intera.
- Non direi proprio, – ribattè lei.- Mancano le cose di cucina e ci sono mobili per una sola camera da letto.
Aveva tutti i denti ammucchiati davanti, come se fossero pronti a litigare.
- Le servirà il furgone,- fece lui.
- No, voglio spedirli per ferrovia. Vanno a ovest, nel Saskatchewan.
Gli si rivolgeva a voce alta, come se fosse sordo o scemo, e c’era qualcosa di strano nel modo in cui pronunciava le parole. Un accento.Olandese, pensò lui- c’era parecchio movimento di olandesi in quella zona-, anche se, delle donne olandesi, a questa mancava la stazza o la bella carnagione rosea o i capelli biondi.Poteva essere sotto i quaranta, ma che importanza aveva?Miss bellezza non doveva esserlo stata mai.
L’uomo si fece molto professionale.
- Prima di tutto le ci vorrà il furgone per trasferire la roba quida dovunque si trovi. E poi, sarà meglio controllare che in questo posto nel Saskatchewan ci passi il treno. Se no, dovrà farla venire a prendere, che so, a Regina.
- E’ GDynia, .-disse.- Il treno ci passa.
Lui prese una guida cincischiata che stava appesa a un chiodo, e le chiese come si scriveva.Lei si servì della matita a sua volta
legata a una corda e scrisse su un pezzo di carta estratto dalla borsetta: GDYNIA.
- E che razza di nome sarebbe?
Disse che non lo sapeva.
Le prese la matita per scorrere rigo a rigo.
Questa è la pagina iniziale di un racconto della scrittrice premio Nobel, primo dei nove racconti raccolti nel libro intitolato “NEMICO, AMICO, AMANTE”
Daniela Brogi - Alice Munro e le altre
È impossibile fermarsi all’argomento
della pura coincidenza per così tanti nomi provenienti da un unico
territorio: il Canada è il paese delle grandi scrittrici.
Basta ripensare alle più note per capire
che non è una questione esclusivamente riducibile al genere, con le
relative recinzioni che potrebbero derivarne: a fare valore è la qualità
alta del lavoro, l’attenzione alla scrittura, tant’è vero che scrivere short stories,
anziché romanzi, non è una discriminante. E così possiamo citare Anne
Hébert (1916-2000), nata nei pressi della città di Québec: tre suoi
romanzi - I bambini del Sabba, L’ultimo giorno d’estate e Un vestito di luce -
sono stati tradotti da Maria Piera Nappi (il primo e il terzo), e da
Vilma Porro (il secondo), e pubblicati dalla coraggiosa casa editrice di
Luciana Tufani; Mavis Gallant (Montréal, 1922), pubblicata da Rizzoli (Varietà di esilio; Un fiore sconosciuto; Piccoli naufragi,
traduzioni di Giovanna Scocchera e Chiara Gabutti); Alice Munro
(Wingham, Ontario, 1931), che da molto tempo merita il Nobel; Margaret
Atwood (Ottawa, 1939), di cui qui ci limitiamo a ricordare The Blind Assassin (2000) e la raccolta Moral Disorder (2006)
tradotti da Raffaella Belletti per Ponte alle Grazie; Carol Shields
(1935-2003), nata nell’Illinois ma cittadina canadese, Premio Pulitzer
per la narrativa nel 1995 con The Stone Diaries (1993, tradotto
da Alessandra Cremonese Cambieri per Rizzoli e nel 2009 da Barbara
Ronca per Voland); Anne Michaels (1958), l’autrice di Fugitive Pieces (1996,
pubblicato da Giunti nella traduzione di Roberto Serrai); e, infine,
Deborah Willis (Calgary, Alberta, 1982), ottima esordiente con la
raccolta di racconti Vanishing and Other Stories (Svanire, appena pubblicata da Del Vecchio nella traduzione di Anna Baldini e Paola Del Zoppo).
Il Canada, però, sembra rimandare non
soltanto a un territorio, ma alle esperienze del mondo che si sono
sedimentate in questo luogo; il Canada sta per una cultura, un
immaginario, un modo simile di dare attenzione, attraverso il
linguaggio, alla posizione e agli incroci delle vite umane nel tempo,
oltre che nello spazio: da questo punto di vista, è il posto dove più
che altrove è durata l’esperienza viva di quanto le storie degli altri e
degli antenati possano arrivare da lontano, perché è terra di
immigrazione altissima, ma anche perché è una nazione, diversamente
dagli Stati Uniti, dove le differenze di partenza hanno mantenuto più
spazio: in senso fisico, materiale, simbolico.
È davvero più di una coincidenza,
allora, il fatto che la maggior parte delle narratrici canadesi – ma il
discorso vale in parte anche per le poesie di Anne Carson (Toronto,
1950) – lavori attorno a un nucleo di domanda centrale: come recuperare
il passato e dargli voce, sopravvivendo all’angoscia dei ricordi, per un
verso, e per l’altro rappresentando la natura “vivente” di questa
materia. Non si tratta tanto e solo di una questione filosofica, ma di
un problema affrontato a titolo di scrittrici. È un interrogativo,
dunque, che non chiede risposte di contenuto, ma, anzitutto, di lavoro
sulla scrittura. La memoria, così, diventa un problema di tecnica
narrativa: la costruzione del testo deve dare voce alla memoria, da un
lato, e dall’altro imitare, esprimere, quanto accade ai ricordi durante
lo svolgimento della vita reale. Non si tratta, infatti, di una
narrativa semplicemente riferibile al genere dell’autobiografia, ma di
un discorso capace di costruirsi, attraverso la sua forma, come
un’immagine degli anni. Può trattarsi, per esempio, dei racconti di
Gallant, come di quelli dei libri di Munro: i singoli testi sono tracce
autoconcluse di un intero che può esistere, ma solo come profilo di
un’ombra – e l’uso di questa immagine, vale la pena precisarlo, non
c’entra nulla con la retorica dell’abbandono sentimentale.
Il senso del tempo – come oblio, come
recupero incerto, ma anche come reinvenzione permanente – non guarda mai
a un punto finale di armonia; piuttosto arriva dalle fratture a vista tra
i singoli testi, che compongono una struttura fortemente scandita (in
singoli racconti, in parti, in capitoli dai titoli autonomi, o in
paragrafi tematici: linee spezzate, in ogni caso, che smantellano i
confini tra racconto e romanzo), e puntano a un effetto di
discontinuità, perché il tempo dei ricordi non fa stare tutto insieme,
ma è sconnesso e sconnette sempre; la tensione non si scioglie mai. «Ci
fanno sudare, le nostre bugie» (A. Munro, Chi ti credi di essere?, traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 2012, p. 53)
Per questi aspetti, così centrali, quasi
tutte queste scrittrici recuperano l’esperienza di Margaret Laurence
(1926-1987, nata a Neepawa, piccolo villaggio nella pianura sterminata
del Manitoba). Laurence è stata autrice di racconti e, soprattutto, di
un famoso ciclo di cinque romanzi (“Ciclo di Manawaka”), scritto tra il
1964 e il 1974, di cui adesso la casa editrice Nutrimenti propone il
primo e l’ultimo testo: The Stone Angel (L’angelo di pietra), 2011) e The Diviners (I rabdomanti, 2012), tradotti entrambi da Chiara Vatteroni; assieme a questi, gli altri tre romanzi sono: A Jest of God; The Fire-Dwellers; A Bird in the House, ed erano stati pubblicati tra il 1994 e il 2000 da La Tartaruga.
Ciascun volume del ciclo è ambientato
intorno a Manawaka, cittadina immaginaria ispirata al luogo natale di
Laurence, di cui si ripercorrono gli ultimi cento anni di storia. Hagar,
ne L’angelo di pietra, è una donna di novant’anni, ammalata,
non del tutto in sé, dispettosa e prossima alla morte, che ricostruisce
la propria vita dentro un mondo di relazioni con l’esterno fatto ormai
più che altro di pensieri («Si sta avvicinando furtivamente una
vecchietta con una gonna di cotone rosa stampato a fiori e
impillaccherata dalle tracce di vecchi pasti. Che vuole da me questa
vecchia? Dovrei forse parlarle? Non ci siamo mai presentate. Sarebbe un
comportamento sfacciato»: p. 103). Morag Gunn, ne I rabdomanti,
ha quarantasette anni ed è una famosa scrittrice di romanzi che riflette
attorno al proprio destino, magari chiedendosi «che cosa è andato
male?», o cercando i nodi irrisolti della propria famiglia, guardando,
attraverso i ricordi, cosa permane delle esistenze che ci hanno
preceduto e accompagnato nella propria vita, e, viceversa, cosa si
nasconde, del nostro presente, nei frammenti delle biografie altrui;
tant’è vero che i luoghi a cui tornano in continuazione entrambi i
romanzi di Laurence sono le tre zone fisiche e simboliche di raccolta
dei resti della vita umana: quella monumentale del cimitero (dove si
trova la statua votiva dell’angelo di pietra che dà il titolo al primo
libro); quella molesta della discarica; e, infine, la terra di mezzo tra
vita e morte della casa di riposo, che torna anche nel libro di Munro (Chi ti credi di essere?).
Riflettere sulla propria storia significa ripensare a cosa è stato
seppellito, rifiutato come «robaccia», oppure cercare, come un
rabdomante, le vene d’acqua nascoste sotto la corrente del nostro gran
daffare: «Ricordo la loro morte, ma non la loro vita. Eppure sono
dentro di me, mi scorrono nel sangue a mia insaputa e si muovono in
incognito nella mia testa» (I rabdomanti, p. 31).
L’aspetto più sperimentale della
scrittura di Laurence è quello che ha lasciato le maggiori tracce anche
nelle autrici successive. Si tratta della scommessa, affrontata in senso
tecnico, di comporre una narrazione intorno alla memoria di un luogo
mettendo su un edificio testuale che fosse capace non tanto di
recuperare il passato, ma di far trovare al presente il posto nel
passato – «Non era colpa di nessuno. Dove cominciano le cause, fino a
dove bisogna risalire?»(L’angelo di pietra, p. 236).
È una questione di “taglio” della
storia, come si vede, che l’autrice risolve lavorando su due piani: in
primo luogo organizzando una struttura sezionata in nuclei di racconto
che non procedono secondo un modulo di scorrimento uniforme e graduale,
ma sono composti di incroci continui tra scene del passato e situazioni
presenti, e potrebbero dunque esistere anche da soli. Come in molte
raccolte di racconti di Munro, e particolarmente nel bel libro del 1977
appena pubblicato da Einaudi Who Do You Think You Are?, non siamo in presenza di opere dove, superata la prima pagina, la voce narrante racconta in flashback la
propria storia, ma di trame vive della memoria che ricostruiscono la
vita presente delle protagoniste man mano che si riprendono parti del
passato – «tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto»: I rabdomanti, p. 17).
In secondo luogo, Laurence escogita un
punto di vista autobiografico tutto particolare, perché nutre i ricordi
della vita presente, creando un senso continuo di sovrapposizioni e
slittamenti tra la familiarità con cui l’io riprende la propria storia e
l’estraneità con cui questa storia rivive sulla superficie, ora perché
si mescola al presente (alternando magari, ne L’angelo di pietra,
il ricordo dei piaceri sessuali di cinquant’anni prima alle sensazioni
fisiche di un esame radiologico all’addome: p. 116), ora perché è
rivista, trasformata dal presente. «Un pregiudizio comune è che non
possiamo cambiare il passato – tutti cambiano costantemente il loro
passato, ricordandolo, correggendolo. Che cosa è successo in realtà? Una
domanda priva di senso. Ma alla quale continuo a cercare di rispondere,
sapendo che non c’è risposta». (I rabdomanti, p. 77). Se ci pensiamo, è un passaggio che potrebbe funzionare anche per capire uno dei libri più noti di Alice Munro, La vista da Castle Rock,
dove la ricostruzione del passato scozzese delle origini si mescolava –
procedendo anche qui per scansioni mentali e narrative – al memoir della propria vicenda famigliare. E vale anche per l’ultimo pubblicato, Chi ti credi di essere?,
dove il recupero delle memorie della protagonista, Rose, è, nel
medesimo tempo, anche una riflessione continua su quanto, ogni volta che
l’io ripensa e rivede se stesso nel passato, narri a sé e agli altri, a
furia di tagliare tra i ricordi, una storia sempre viva e diversa.
[Questo articolo è uscito sul «Manifesto»]
Alice Munro è da anni la mia scrittrice preferita, i suoi racconti sono piccoli preziosi gioielli. Cresciuta in un ambiente umile e modesto, ha fatto della sua esperienza di vita l'occasione per parlare di donne e uomini comuni, semplici, quotidiani, sempre però con grande cura dello stile e scioltezza della narrazione. Quanta umanità nelle sue opere!
RispondiEliminaSono tanto felice per questo Nobel:-)