Spese militari e sanità pubblica
Nicoletta DenticoL’incremento delle spese militari è una vergogna, ha detto Papa Francesco. Tanto più intollerabile perché, dopo i due anni di pandemia che hanno devastato il servizio sanitario e lasciato un’eredità di disuguaglianze profonde, nel 2022 il governo ha previsto un nuovo taglio di 6 miliardi di spesa nell’ambito della sanità pubblica. Ma ha un senso mettere in relazione le scelte sulle spese militari e quelle per proteggere la salute di tutti, oppure è una forzatura? I meccanismi che generano gli effetti indiretti di una guerra sulla salute sono molteplici. Non sempre vengono analizzati con sufficiente attenzione. Nicoletta Dentico prova a farlo con un ampio contesto e la consueta precisione: dagli effetti a lungo termine delle armi ai danni ambientali provocati dalle bombe, passando per l’erosione dei diritti sia nel paese aggredito che in quello aggressore. Sì, quella relazione c’è, eccome. La guerra provoca enormi danni alla salute pubblica delle popolazioni coinvolte e forse quelli che saltano agli occhi con più evidenza non sono quelli destinati a durare più a lungo nel tempo
Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo ha violato il diritto internazionale invadendo l’Ucraina e scatenando una devastante guerra di aggressione che perdura da oltre un mese. La responsabilità dell’invasione e del brutale conflitto armato che ne consegue ricade unicamente sul presidente Putin, il quale persegue da due decenni una politica imperialista ultrareazionaria.
La nostra solidarietà va al paese aggredito e alla sua popolazione profondamente violata dalla guerra, senza dimenticare però la solidarietà a quanti in Russia si sono opposti finora alla politica bellicista del proprio governo, pagando un prezzo altissimo per il loro esplicito dissenso.
Neppure questa cosa possiamo dimenticare: che anche la Nato e diversi Paesi occidentali che la compongono perseguono a loro volta una politica imperialista che, nella storia recente, non ha esitato a più riprese a ricorrere all’uso della guerra, in violazione del diritto internazionale, provocando stragi tra la popolazione civile. Questo fatto storico, incontestabile, non può essere addotto però come attenuante della scellerata strategia di Vladimir Putin.
Fatta questa premessa, il nostro obiettivo qui è dimostrare come uno sguardo sanitario sull’attuale scenario ucraino, vale a dire uno sguardo rivolto alla promozione e alla tutela della salute, possa fornire una bussola per tracciare un posizionamento genuinamente politico e umanitario rispetto al conflitto che infiamma l’Europa, e per intravedere un percorso di fuoriuscita dall’attuale disordine globale.
Sono a decine gli scenari di guerra oscurati e tuttora in corso che incendiano il pianeta; una lente sanitaria può tornare molto utile dunque a sospingere il dibattito e la azione politica verso un mondo meno vocato alla belligeranza. Lo segnalava opportunamente lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, in uno dei suoi libri sulla storia della medicina, in riferimento alle prime due guerre mondiali:
Il fatto che nessuno – o pochissimi – tra i protagonisti della medicina (…) si sia posto il problema della prevenzione di una tra le più micidiali pandemie della storia delle società umane deve far riflettere sull’effettiva coerenza di una scienza medica che, nel mentre si professa al servizio della vita, rifiuti di accamparsi e si dichiari neutrale. (…) Se l’ideologia e la politica al potere portano seco, o non contrastano efficacemente, una calamità sociale e biologica come la guerra, la medicina, se non vuol essere «un modo del potere», deve esercitare una critica coraggiosa del calamitoso contesto ideologico-politico. (…) I medici devono esplorare una nuova provincia della medicina preventiva: la prevenzione della guerra.
Per assumere il punto di vista sanitario non occorre essere medici o infermieri, ovviamente. Chi esercita una professione sanitaria ha qualche scusa in meno per non farlo, però.
Guerre moderne e impatto sulla salute
La narrazione mediatica della guerra in Ucraina, con le sue inevitabili forzature emotive, sembra talvolta costruita in modo da aver scoperto per la prima volta l’orrore della guerra. Purtroppo, la conduzione di una guerra moderna prevede da decenni oramai la distruzione di dighe, centrali elettriche, sistemi di approvvigionamento idrico, ospedali, scuole, strade, ponti, ferrovie, aeroporti. Da questo punto di vista, l’attuale conflitto in Ucraina non si distingue affatto da quanto è stato documentato negli interventi di alleanze ONU (Golfo 1991) o della NATO (Repubblica Federale di Jugoslavia, 1999), della coalizione angloamericana (Afghanistan 2002, Iraq 2003) o della Russia in Cecenia (1999) e in Siria (2015). Si tratta del resto della stessa modalità militare usata da Israele nelle sue “operazioni speciali” in Libano (2006) e a Gaza (2009). Sempre, l’obiettivo finale è quello di distruggere deliberatamente l’ambiente fisico e la fibra sociale di un intero paese e del suo territorio. Sempre, l’esito è la devastazione di un trauma che raramente trova una sua ricomposizione.
La guerra fa male alla salute. Molto male. La constatazione è banale. Nel caso dell’Ucraina, i dati riportati dall’Oms dopo un mese di combattimenti (al 31 marzo) parlano di 18 milioni di persone colpite dalla guerra, 4 milioni di rifugiati, 6,4 milioni di sfollati interni, 1935 civili feriti e 1232 civili uccisi. Sono dati parziali e non del tutto attendibili su morti e feriti, vista l’impossibilità di accesso umanitario ai siti degli attacchi – Mariupol è la città più devastata, ma non l’unica sotto assedio. Sono numeri destinati ad aumentare, drammaticamente. A un mese dall’inizio dell’invasione, l’Oms ha identificato specifiche aree di significativo rischio sanitario – oltre ai traumi e alle ferite, la salute materna e neonatale, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione, l’insorgenza di malattie infettive e la impossibile gestione delle malattie croniche, i rischi legati ad azzardi tecnologici nella conduzione della guerra, la salute mentale, il traffico di esseri umani e l’escalation della violenza sessuale e di genere. Ha inoltre verificato attacchi diretti a 18 strutture sanitarie, bersagli d’elezione delle guerre moderne, come già visto in Afghanistan, o in Yemen. In Siria, Physicians for Human Rights è riuscita a documentare 601 attacchi su 400 diverse strutture sanitarie da marzo 2011 – inizio della guerra – a febbraio 2022. 942 persone, tra medici e infermieri, sono stati uccise.
La guerra produce sempre un asfittico blackout di informazioni e si possono fare con estrema difficoltà stime da prendere per quello che sono: stime appunto. Ma la letteratura scientifica che si è cimentata sulla conta dei morti ha calcolato che, anche soltanto per gli effetti diretti, si computa solitamente almeno un morto civile per ogni soldato ucciso. Da tenere sempre presente che i morti e i feriti per gli effetti indiretti, ancora meno documentati e documentabili, rappresentano un multiplo di quelli diretti.
I meccanismi che generano gli effetti indiretti di una guerra sulla salute sono molteplici. Non sempre analizzati con sufficiente attenzione. Possono essere provocati dalla distruzione o dai danneggiamenti appunto delle strutture sanitarie, delle fonti di rifornimento di energia elettrica, dell’approvvigionamento idrico/alimentare, dall’impossibilità dello smaltimento dei liquami. Sono dovuti alla sistematica sottrazione di risorse a favore dell’investimento militare, ovvero all’aumento delle diseguaglianze sociali e all’erosione dei diritti che invariabilmente si producono sia nel paese aggredito sia in quello aggressore. I bombardamenti di industrie (chimiche e non solo) scatenano conseguenze rilevanti e di lunga durata sull’ambiente, e sulla salute. Ci sono poi gli effetti a lunga latenza delle armi (mine, bombe a grappolo e altri ordigni non esplosi, armi chimiche).
Nel caso dell’Ucraina, per la prima volta, siamo direttamente esposti al pericolo di incidentale attivazione delle centrali nucleari, ciò che comporterebbe un netto sconfinamento degli effetti indiretti della guerra ben oltre i territori direttamente interessati al conflitto. Infine, come documentato dal New York Times, gli analisti non escludono il ricorso russo ad ordigni nucleari tattici. Ma tra gli effetti indiretti e di lunga gittata sulla salute vanno annoverati l’interruzione di ogni attività culturale e dell’istruzione, il caos generale che la guerra produce, le migrazioni forzate e la precarizzazione di popolazione avviate a una vita sospesa, in assenza di un progetto migratorio. Le priorità cambiano, le persone si concentrano sulla sopravvivenza immediata e tutto il resto non conta più.
Le caratteristiche dei conflitti armati moderni – l’assenza di limiti spaziali e temporali; la privatizzazione e digitalizzazione del conflitto; la non discriminazione tra obiettivi militari e civili; la normalizzazione di uno “stato di eccezione” sul piano del diritto internazionale; gli effetti di lungo periodo e la sempre possibile escalation in guerra atomica – sono tali per cui nessun fine solidaristico nei confronti del paese sotto assedio può, oggi, giustificare il ricorso al mezzo della guerra, che rappresenta un indiscusso fattore di rischio per la salute pubblica mondiale.
Militarismo e guerra vanno considerati alla stessa stregua di altre cause prevenibili di malattie e morte. La richiesta di armi o di altro sostegno militare da parte di chi è impegnato in una lotta armata di difesa rispetto all’aggressione subita è legittima. Ma altrettanto legittimo va considerato il rifiuto di tale richiesta, in relazione alla necessità di prevenzione di un’ulteriore escalation del conflitto. Lo scrive con implacabile lucidità Hannah Arendt nel suo saggio sulla violenza: “Dato che il fine dell’azione umana, a differenza dei prodotti finali della manifattura, non può mai essere previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti”. Non si difende un popolo aggredito con più violenza e più guerra. L’atteggiamento alternativo possibile, senza voltarsi dall’altra parte, è il sostegno alla resistenza nonviolenta, è il ricorso a forze di interposizione, senza timidezza nel far valere il diritto internazionale e la tenacia della diplomazia. Per la costruzione della pace, quasi ad ogni costo.
La minaccia atomica: un’apocalisse possibile
Le recenti dichiarazioni sia del presidente russo che del presidente americano di essere disposti a considerare l’utilizzo di armamentario nucleare a loro disposizione palesano la coltre minacciosa sotto la quale l’umanità si trova a vivere, finché queste armi continuano ad esistere. Più che di armi bisognerebbe parlare di “campi di sterminio montati su missili”, con la definizione di Michael Christ di International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), associazione fondata nel 1980 da medici statunitensi e sovietici per la prevenzione della guerra nucleare, premio Nobel per la Pace nel 1985. Anche nel 2017 il comitato del Nobel ha puntato alla abolizione delle armi nucleari assegnando il premio per la Pace a ICAN, la campagna nata per far avanzare il trattato internazionale sulla messa al bando delle armi nucleari (UN Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, TPNW).
Crediamo sia importante sottolineare come qualsiasi ragionamento sulla “guerra giusta” perda ogni senso residuale se confrontato con il potenziale distruttivo della moderna tecnologia nucleare, realtà più che mai plausibile nella vicenda ucraina: ciò non equivale ad assumere una posizione di equidistanza o a negare la legittimità di una resistenza, anche armata, di fronte ad una aggressione. Siamo ciechi di fronte all’apocalisse, non riusciamo ad immaginarci che possa capitare davvero, diceva Günther Anders.
Può esistere una iusta causa per legittimare il sostegno a una guerra in cui il ricorso allo strumento nucleare viene anche solo contemplato? Meglio farebbe l’Italia, in questa situazione di tensioni senza limiti, a prendersi la briga di firmare repentinamente il trattato di messa al bando delle armi nucleari entrato in vigore il 22 gennaio 2021, e partecipare al primo incontro degli Stati-Parte in programma a Vienna dal 21 al 23 giugno. Altro che l’aumento al 2% del bilancio delle spese militari!
Conclusioni
Difficile negare che la militarizzazione del discorso politico, la servitù militare con la presenza di armi nucleari sul suolo italiano (si stimano da 70 a 90 ordigni), l’incondizionato sostegno finanziario all’industria bellica (il cui lavoro è stato considerato essenziale persino in tempo di pandemia) e lo scriteriato commercio delle armi – anche in violazione della legge 185/90 per regolamentarlo – facciano parte di quello che Giorgio Cosmacini definirebbe un “calamitoso contesto ideologico-politico”in cui le soluzioni militari possono apparire le uniche possibili. Certo, è molto più facile stare dalla parte di chi proclama di voler difendere il popolo ucraino mandando armi.
Ma non è vero che non esista una alternativa a questa distruzione. Solo che l’Europa deve apparecchiarla con lena, con un’opzione incondizionata per la diplomazia. Lo sostiene coraggiosamente anche il movimento pacifista ucraino. Dalla brutalità di quest’ultima tragedia bellica, che non sappiamo quando finirà, occorre trarre la spinta per un nuovo disegno di sicurezza europea, e per la trasformazione dell’esercito in una organizzazione di interposizione e protezione, anche tramite i corpi civili.
La comunità di sanità pubblica deve sentirsi chiamata in causa in questo momento di dialogo pubblico e attivarsi senza nascondimenti, anche con l’impegno di società scientifiche e dell’associazionismo sanitario e sociale, non facendosi tentare da capziose forme di pacifismo belligerante.
L’incremento delle spese militari è una vergogna, ha detto Papa Francesco. Tanto più intollerabile perché nel 2022 il governo ha previsto un taglio di 6 miliardi di spesa in ambito di sanità pubblica, dopo due anni di pandemia che hanno sconquassato il servizio sanitario e lasciato un’eredità di disuguaglianze profondissime nella società. Anche questa, una guerra ai diritti fondamentali.
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