ANTONIO BORGESE, LA LEALTÀ DELLA
PAROLA
A
settant'anni dalla morte, riediti due testi da Nave di Teseo
Vizi di forma
«Se ognuno nella lontananza dalla
patria soffre, la sofferenza dello scrittore è doppia; perché non solo i legami
degli affetti, ma quelli del linguaggio, gli sono vivi e dolenti in ogni
fibra». Con queste e altre parole, scritte a Boston il 18 agosto 1933, un
accademico di nome Giuseppe Antonio Borgese intendeva
comunicare a Benito Mussolini che non avrebbe mai firmato il giuramento di
fedeltà al regime. Romanziere amato da Giacomo Debenedetti, vera e propria
autorità della critica militante dell’epoca (ai suoi articoli su «La Stampa» e
«Il Corriere» si devono la categoria di poesia «crepuscolare»,
nonché la scoperta di autori come Tozzi e Moravia), con quella lettera Borgese
prendeva coscienza di una cosa precisa: il suo soggiorno all’estero in qualità
di visiting professor all’Università di Berkeley (motivo per
cui, tecnicamente, il giuramento del 1931 non gli era stato chiesto) era un
vero e proprio esilio oltreoceano. «La scrittura della lettera a Mussolini è
stata finora il momento più bello, o il momento più alto, della mia vita»,
avrebbe detto qualche mese dopo. E per una presa di posizione chiara e
definitiva, quella stessa lettera sarebbe arrivata (con la nota di Borgese
«Ecco il mio suicidio») a un altro antifascista in esilio, Gaetano Salvemini,
affinché venisse pubblicata sui «Quaderni di Giustizia e libertà».
Tra i pochissimi professori
universitari italiani che non dichiararono fedeltà al regime, Borgese fu, di
fatto, l’unico a rimetterci la pensione, e il solo a non figurare ufficialmente
fra gli accademici antifascisti: poiché si trovava in visiting, un
decreto ministeriale del 20 novembre 1934 lo dichiarò, meno politicamente e più
burocraticamente, «dimissionario». La chiara fama di oppositore al regime,
però, gli venne da Goliath, The march of Fascism, stampato a New
York nel ’37: il libro con cui provò a spiegare il fascismo italiano agli
stranieri rileggendo Dante e Machiavelli. Saranno ben diciassette, alla fine,
gli anni che vedranno Borgese – nato nel 1882 a Polizzi Generosa, sulle Madonie
– spostarsi in diversi atenei americani, dalla Columbia di New York
all’Università di Chicago, e assistere a quel momento storico in cui
«l’università che aveva generato la bomba atomica ne deprecava l’uso» (Borgese,
1958).
Nel settantesimo anniversario della
morte dello scrittore, scomparso a Fiesole il 4 dicembre del 1952, e in
coincidenza con il centenario della marcia su Roma,
una felice collaborazione tra La Nave di Teseo e la Fondazione Giuseppe Antonio Borgese restituisce al
pubblico due testi – entrambi pensati e scritti in lingua inglese – di una
delle personalità più complesse, poliedriche, e anche controverse del primo
Novecento italiano. Di Golia esisteva già un’edizione italiana, pubblicata
subito dopo la fine della guerra, nel 1946, da Arnoldo Mondadori: lo stesso
editore che nel 1935 aveva ritenuto inopportuno un nuovo contratto a Borgese:
secondo la versione ufficiale, per via di una «situazione singolarissima
dell’odierno mercato librario» (Gerbi, p. 68). I Fondamenti della
repubblica mondiale – originariamente Foundations of the World
Republic, pubblicati postumi dalla University of Chicago Press, nel 1953 –
appaiono, invece, per la prima volta in lingua italiana, tradotti da Lorenzo
Matteoli e Andrea Terranova; e contengono, in appendice, il Disegno
preliminare per una Costituzione mondiale (già ristampato qualche anno
fa dalle Edizioni di Soria e Letteratura di Roma): ossia, quel Preliminary
Draft of a World Constitution, che lo scrittore aveva elaborato negli Stati
Uniti insieme a un apposito comitato, e a cui aveva collaborato anche Elizabeth
Mann, figlia di Thomas Mann, nonché seconda moglie di Borgese. A quella bozza
di costituzione, che gli valse una proposta di nomina al Nobel per la pace del
‘52, negli ultimi anni di vita lo scrittore guardò come all’opera più
importante della propria esistenza, in linea con il suo «caparbio umanesimo»
(Di Grado, 2012), e con quell’idea di letteratura intesa come buona azione a cui
ambiva da sempre: «Aspiro, per quando sia morto, a una lode: che in nessuna mia
pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio» (Sciascia,
1985).
Pensieri e parole
L’antifascismo di Borgese è fatto
anche di silenzi. Nel ’25 lo scrittore non firma il manifesto degli
intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, probabilmente per un
contrasto d’altra natura con il filosofo napoletano, a cui il giovanissimo Borgese
(«una delle migliori speranze degli studi letterarii in Italia», credeva Croce,
salvo accusarlo, qualche anno dopo, d’essersi messo a fare il giornalista
piuttosto che lo studioso) doveva la pubblicazione della propria tesi di laurea
e lo spazio riservatogli su «La Critica». L’anno prima, l’autore tace davanti
al delitto Matteotti. Golia, però, farà spazio all’ipotesi che
Mussolini abbia ucciso il segretario del PSI non con le parole, ma addirittura
con il pensiero: «Nonostante tutte le prove raccolte, una mente oggettiva a cui
non piace addossare sulle spalle di un suo simile più colpa di quanto non sia
strettamente necessaria può ancora supporre che i gregari di Mussolini diedero
un’interpretazione erronea e brutale alle sue parole, e che mentre egli
manifestava ira o proferiva minacce nel tono sanguinario degli ubriaconi di
Romagna, essi credettero di capire nelle sue frasi violente ma imprecise una
condanna a morte [...] Ma noi non siamo seguiti solo dalle nostre azioni, ma
anche dai nostri pensieri e dalle nostre passioni. Le forze del male e il
desiderio di violenza che noi abbiamo scatenate nella nostra fantasia lavorano
da sole senza curarsi delle intenzioni nel momento specifico; e le frecce del
nostro desiderio colpiscono bersagli che la nostra coscienza non aveva mirati»
(p. 342). Il silenzio di Borgese, dunque, somiglia a quella lotta interna di
parole cara al suo conterraneo Sciascia, che gli dedicherà le pagine di Per
un ritratto dello scrittore da giovane: il silenzio proprio dei siciliani
«che si rodono dentro e soffrono», coltivando la «silenziosa fragile speranza
dei siciliani migliori» (Sciascia, 1958). «Io credo che ogni disperazione è
fascista», si legge in Golia (p. 34).
Liberi e ingrati
Non mancano, quindi, i margini di
ambiguità (Gerbi, p. 44) nella parabola letteraria e politica di Borgese, i cui
diari americani, custoditi dalla Biblioteca dell’Università di Firenze,
sono ancora parzialmente inediti:
«uomo portato a peccare fortiter in un suo mito di azione
letteraria», come lo definì Debenedetti, che con il suo «modello umanistico,
ottocentesco, grande-borghese, polemicamente scelto nel pieno del caos
novecentesco e piccolo-borghese» (Di Grado, 2020), riesce ad amare profondamente
l’amico Gozzano («per questo – scriverà nel ’17 introducendo Verso la
cuna del mondo – egli è e rimane un maestro: per avere contribuito a
restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del
riferire l’esperienza interna qual è, del collocare il valore poetico
nell’accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in
onore la verità dell’emozione e la lealtà della parola»), e contemporaneamente,
a ripudiare D’Annunzio senza alcuna ferocia («Anche allora – si legge nella
raccolta di saggi Risurrezioni – non mi andava a garbo quel
tono radicalmente negatore verso D’Annunzio che era ed è proprio dei
dannunziani incorreggibili, i quali, pieni zeppi del suo spirito, credono di
diventar liberi mostrandosi ingrati»). Anche per questo genere di contraddizioni,
Vittorini l’avrebbe ritenuto colpevole di imparentarsi – lui in senso pure
letterale – a tutta la schiera di autori decadenti e “impolitici” da bandire in
nome di «una nuova cultura» (Di Grado, 2012).
Guerra e pace
«Propaganda» («una violenza le cui
armi sono le parole», p. 276) è una delle tante parole che Borgese cerca di
definire e risemantizzare nei Fondamenti, un’opera che – portando
avanti la tesi che l’epoca delle nazioni sia finita – riflette sul cambiamento
dei significati di parole come «guerra» (da istituzione sacra e irrecusabile a
«crimine» p. 463) e «pace» («sopravvivenza, un termine infelice, scelto da
Roosevelt per la seconda guerra mondiale, vuol dire arrendersi a metà. La
volontà di vivere va molto al di là della sopravvivenza», p. 126), non senza
tirare in ballo la letteratura: «La letteratura dell’armistizio della prima
guerra mondiale, in qualunque lingua, in qualunque genere letterario, poema o
dramma, storia o diario, è un lamento unico e [...] infinita ripetizione dello
stesso disgusto e dello stesso orrore» (pp. 161-162). Il problema della lingua
universale, centrale nei Fondamenti («Sono ancora alti i muri
linguistici che dividono in orticelli parrocchiali lo spazio globale
dell’intercomunicazione, gli interpreti e le cuffie alle riunioni
internazionali a malapena li controllano», p. 79), Borgese se lo poneva già –
seppure diversamente – in Golia: «perché Dante non scrisse la Divina Commedia
nella lingua di Roma, in quel latino che era la lingua dell’impero e della
Chiesa? Se il suo sogno e il suo concetto possedevano, com’egli voleva che
possedessero, una validità universale, perché non scelse il latino che era la
lingua universale?» (p. 55). E se il governo mondiale vagheggiato dallo
scrittore ha come precondizione la fine della guerra fredda, che gli pare «una
guerra di parole» attorno all’ambiguità del concetto di «giustizia» (p. 276),
i Fondamenti – primo di una serie incompiuta di tre libri che,
non a caso, si sarebbero dovuti intitolare Sintassi – poggiano
su un problema di lessico: «non c’è nessun pericolo più serio per la nostra
civiltà della volgarità con la quale abbiamo dequalificato l’uso di parole come
giustizia, libertà, uguaglianza, democrazia, fraternità» (pp. 221-222).
Swim or sink
Dopo il pestaggio di alcuni suoi
allievi all’Università di Milano, nel febbraio del 1931, Borgese si era subito
messo a studiare l’inglese con il metodo Berlitz, nell’ottica di recarsi a
tenere i suoi corsi in un’università americana. Il germanista Borgese conosceva
bene il tedesco, anche in virtù degli anni trascorsi a Berlino in qualità di
corrispondente, ma con la moglie Elizabeth, che pure parlava l’italiano,
comunicherà sempre in inglese. Golia gli costerà «una grande
fatica tecnica, perché «lo scrivo in inglese, lingua in cui so dire certe cose
ma non certe altre» (p. 13); e la scelta di scrivere in inglese l’aveva fatta
«non per lusso ma per la necessità che forzava l’italiano emigrato, chiusaglisi
la patria, a farsi sentire nella lingua nuova se voleva farsi in qualche modo
sentire, [...] feci del mio meglio, come altri già aveva fatto nel
Risorgimento, per avanzare in inglese; onde, a chi con cortesia d’ospite me ne
faceva merito, dicevo swim or sink, cioè “bere o
affogare”» (pp. 27-28). Con il tempo, Borgese «comincia – come nota Robert
Redfield nell’introduzione ai Fondamenti – a pensare e a
scrivere in inglese, nuova “sua lingua che rielaborò”, addirittura fino a
“sviluppare l’interlingua, un latino evoluto”, necessaria per un mondo
unificato» (p. 25).
Melodie e litanie
Borgese era nato in Sicilia («Io
crebbi davanti ai grandi orizzonti; e udivo suoni remoti», scrive in Tempesta
nel nulla), ma aveva attraversato lo Stretto giovanissimo (nel 1908 fu il
primo cronista a dare notizia del terremoto di Messina) in direzione di sola
andata. Nel 1931, prima di salpare per l’America e impadronirsi dell’inglese,
tenne una conferenza a Catania e disse: «la stessa mia parola, nonostante la
patina spessa che il parlare la lingua comune, imparata, della nostra nazione
vi ha messo, nonostante la lunga dimestichezza con altri linguaggi e gli
accenti che vi si sono inseriti, al fondo rivela certo l’antica melodia che ho
udito da bambino; e, anche se la stessa lingua dei miei sogni non è più da
molti anni il mio dialetto materno, vi è certamente qualche cosa più in fondo
dei sogni che in me parla e vive siciliano» (Pupo, p. 92). Il sogno americano
su di lui non attecchisce: «La cruda verità – scrive in Idea della
Russia – è che, per quanto la sirena del comunismo sia ormai consunta
e malandata, d’altra parte il capitalismo non ebbe mai nulla di affascinante
per le masse, ed ora è al suo più basso loco. [...] è opinione generale,
diffusa anche in America e condivisa del resto da varie persone anche in
America, che le note caratteristiche del capitalismo siano, a torto o a
ragione, lo sfruttamento, il monopolio, la disoccupazione, l’avaro e umiliante
sussidio, e in ultimo la guerra». E così, in una lettera all’allievo Mario
Robertazzi del 26 gennaio 1932: «Se c’è una terra nuova, essa è dentro di noi e
non fuori. L’illusione che qui si potesse trovare una legge bella e fatta di
vita è caduta; ma non credo nemmeno che io l’abbia mai avuta [...]. Ho toccato
il muro del mondo; l’infinito non c’è».
Bibliografia essenziale
Testi di G. A. Borgese:
Dalla sponda del gurgite di Scilla.
Con la testa riversa e con le palme protese,
«Il Mattino», 29 dicembre 1908.
Poesia crepuscolare, «La Stampa», 10 settembre 1910.
Prefazione a G. Gozzano, Verso
la cuna del mondo, Milano, Treves, 1917.
Rubè, Milano, Treves, 1921.
Risurrezioni, Firenze, Perrella, 1922.
Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923.
Tempesta nel nulla, Treves, Milano 1931.
Lettere a Mussolini, Boston 18 agosto 1933 e Northampton Mass 18 ottobre
1934, «Quaderni di Giustizia e Libertà», XII, 1935.
Atlante americano, Parma, Guanda, 1936.
Goliath, the March of Fascism, New York, The Viking Press, 1937; Milano, Mondadori,
1946; Golia. Marcia del fascismo, Milano, La Nave di Teseo,
2022.
Idea della Russia, Milano, Mondadori, 1951.
Preliminary Draft of a World
Constitution, Chicago, University of Chicago
Press, 1947; Disegno preliminare di costituzione mondiale,
Mondadori, Milano 1949; Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013.
Foundations of the World Republic, Chicago, University of Chicago Press, 1953; Fondamenti della Repubblica
mondiale, Milano, La Nave di Teseo,
2022.
Da Dante a Thomas Mann, Mondadori, Milano, 1958.
Altri testi:
G. Debenedetti, Il romanzo
del Novecento, Milano, Garzanti, 1971-2.
I. De Seta, American
citizen. G. A. Borgese tra Berkeley e Chicago (1931-52), Roma, Donzelli,
2017.
A. Di Grado, Divergenze.
Borgese, Malaparte, Morselli, Sciascia, Napoli, ad est dell’equatore, 2020.
Id., Al di là. Soglie,
transiti, rinascite in letteratura e nel cinema, Napoli, ad est
dell’equatore, 2020.
S. Gerbi, Giuseppe Antonio
Borgese politico, in «Belfagor», LII, 1, 31 gennaio 1997, pp. 43-69.
G. Librizzi, «No, io non
giuro». Le lettere a Mussolini di Giuseppe Antonio Borgese, Palermo,
Navarra, 2013.
M. G. Macconi, Catalogo del Fondo Giuseppe
Antonio Borgese della Biblioteca Umanistica dell’Università di Firenze,
Firenze, 2008.
F. Mezzetti, Borgese e il
fascismo, Palermo, Sellerio, 1978.
I. Pupo (a cura di), Una
Sicilia senza aranci, Roma, Avagliano, 2005.
L. Sciascia, Il Quarantotto (1958),
in Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1960.
Id., Per un ritratto dello
scrittore da giovane, Palermo, Sellerio, 1985.
E. Vittorini, Una nuova
cultura, «Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945
Immagine: Tratta dalla copertina
del libro
Pezzo ripreso dal sito https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/
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