Uscire dalla guerra
L’anno prossimo saranno trascorsi ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Europa festeggerà ottanta anni di pace, ma nel pieno di una nuova corsa agli armamenti. Certo, l’obiettivo formale è «preservare» quella pace e «la sicurezza dei propri cittadini», ma non si può dire che questo basti a rassicurare. Anzi, le dichiarazioni di questi giorni di Draghi, Macron, Von der Leyen e Putin non sono solo schermaglie, ma attengono alla prospettiva futura che ci attende: una economia di guerra.
Ma andiamo con ordine. Il 24 febbraio, nel corso di una riunione dei 27 ministri delle finanze dell’UE, Draghi, che sta preparando un rapporto sulla competitività dell’economia europea, atteso in giugno, in un resoconto trasmesso successivamente alla stampa, ha sottolineato gli enormi investimenti necessari nei prossimi anni, non solo per raggiungere gli obiettivi climatici, ma anche per riarmare una Europa che per decenni si è affidata alla protezione degli Stati Uniti.
Il 27 febbraio Parigi insiste, “pensare a nuove azioni”. Per Kiev è “un buon segnale”. E Mosca avverte, “sarebbe inevitabile uno scontro diretto…”.
Il 28 febbraio Von der Leyen dice che «L’Europa deve spendere di più, spendere meglio, spendere europeo». «I rischi di guerra – ha aggiunto – non vanno sopravvalutati, ma devono trovarci preparati». In buona sostanza, l’intento dichiarato è di ridurre la frammentazione dell’industria militare, di promuovere la produzione europea, e di diminuire la dipendenza dagli Stati Uniti. Bruxelles vuole presentare nelle prossime settimane un pacchetto che rafforzi l’impianto attuale, nato sulla scia della guerra tra Russia e Ucraina, e che prevede sia appalti in comune di armi che acquisti di armi con l’aiuto del bilancio comunitario.
Il 29 febbraio Putin all’Occidente: “Anche le nostre armi possono raggiungervi”.
Il fatto che Bruxelles prepari fondi e regole per la strategia industriale e che la commissione vuole rafforzare la capacità di reazione militare è un fatto. Quindi non ci sono solo dichiarazioni. Di questa prospettiva dobbiamo parlare tutti e tutte per uscire dal sistema guerra!
Parlare di economia di pace in vista anche delle europee è imprescindibile e apre squarci drammatici perché ci porta a considerare quella attuale come una economia di guerra. Per avere un’idea del mondo in cui ci troviamo proviamo ad analizzare questi dati: nell’ultimo decennio, la spesa per le armi nei Paesi NATO della UE è cresciuta quattordici volte più del loro Pil complessivo; in Italia la spesa per i nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi. Un passo verso la militarizzazione che rischia sia di destabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale, sia di rallentare la crescita dell’economia e dell’occupazione in Europa e in Italia. È quanto denuncia il rapporto Arming Europe, commissionato dagli uffici nazionali di Greenpeace Italia, Germania e Spagna, che rivela il minor effetto moltiplicatore delle spese militari rispetto a quello degli investimenti su ambiente, istruzione e sanità. Nonostante le difficoltà delle finanze pubbliche italiane, la spesa militare è cresciuta con un ritmo senza precedenti anche nel nostro Paese, togliendo risorse alla spesa sociale e ambientale. Nel periodo 2013-2023, la spesa militare in Italia è aumentata del 30%. Quella per la sanità è aumentata solo dell’11%, la spesa per l’istruzione del 3% e la spesa per la protezione ambientale del 6%. Questo studio dimostra che spendere nelle armi è un cattivo affare anche per l’economia.
Greenpeace ha stimato che 1.000 milioni di euro spesi per l’acquisto di armi generano un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro, mentre la stessa cifra investita per istruzione, welfare e protezione ambientale avrebbe un effetto quasi doppio. Uno scarto ancora maggiore si registra nell’impatto occupazionale: i 3.000 nuovi posti di lavoro creati dalla spesa per le armi salirebbero a quasi 14.000 se la stessa cifra fosse investita nel settore dell’educazione, a 12.000 se investita in sanità e a quasi 10.000 nella protezione ambientale.
Come costruire una economia di pace? Prendo a prestito da Francesco Gesualdi alcuni stimoli e indicazioni generali che potrebbero essere ampliate e sviluppate. Il primo passo da compiere è la messa al bando delle industrie di armamenti. Finché produrremo armi avremo guerre perché rappresentano l’occasione di consumo di materiale bellico. La seconda grande scelta da compiere è l’abbandono del consumismo a favore della sobrietà. Il consumismo ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua. Il terzo passaggio è la capacità di orientarci totalmente verso le energie rinnovabili perché affidandoci al sole, al vento e alle altre forme di energia naturale, rompiamo la nostra dipendenza dalle risorse altrui. Il quarto intervento è la capacità di potenziare l’economia pubblica, precisando che pubblico non è sinonimo di Stato, ma di comunità. E per finire la capacità di improntare i rapporti internazionali a spirito di cooperazione ed equità. Equità per garantire la giusta remunerazione ai produttori e cooperazione per sostenersi reciprocamente e colmare gli squilibri creati da cinque secoli di economia di rapina. La cooperazione è il substrato su cui si fondano tutte le leggi fondamentali della natura e della vita.
Tutto ciò, però, è possibile solo con un cambio di paradigma culturale. In economia bisogna passare dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione. In ambito sociale bisogna passare dai princìpi di forza, vittoria, successo a quelli di mitezza, rispetto, sostegno. Perché solo predisponendoci diversamente verso l’altro potremo passare da una cultura della guerra a una cultura della pace.
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