Ecco la recensione del bel libro di Giuseppe Muraca pubblicata oggi dalla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI (fv)
LA FERVIDA STAGIONE DELLE RIVISTE DEL SECONDO 900
di Francesco Virga
Le riviste hanno svolto un ruolo importante nella storia
d’Italia. Basti pensare al peso che hanno avuto, nella prima metà del 900,
La Voce di Prezzolini, La Critica di Benedetto
Croce, La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e L’Ordine Nuovo di
Gramsci.
Giuseppe Muraca, nel suo ultimo libro, Un fare
comune. Da “Politecnico” a “Diario”. Riviste italiane del secondo (Il
Convivio Editore, Catania 2024), propone una rassegna critica di alcune
riviste culturali che hanno animato il dibattito pubblico in Italia dalla fine
del Secondo conflitto mondiale al 2000. Essendo impossibile in una recensione
dare pieno conto di tutte queste riviste e delle problematiche ad esse
connesse, concentreremo la nostra attenzione su due testate che Muraca ha
saputo ben analizzare nel corso del suo lavoro: Il Politecnico e
i Quaderni Piacentini. Non si può ignorare, infine, il breve
saggio di Gabriela Fantato sulle riviste femministe degli anni Settanta con cui
si conclude il libro.
Muraca muove proprio dall’analisi de Il Politecnico di
Elio Vittorini a cui dedica le sue pagine migliori. La rivista segnò una svolta
nella storia culturale nazionale, innanzitutto per la volontà di superare lo
steccato tradizionale tra le due culture: la cultura scientifica e quella
umanistica.
La prima idea della nuova rivista sorge nel clima della
Resistenza antifascista, intorno al 1943, quando sorgono i primi Comitati di
Liberazione Nazionale (C.L.N.). L’idea diventa progetto nel corso delle
riunioni organizzate da Elio Vittorini a Milano, nei primi mesi del 1945; a
queste riunioni partecipano diversi intellettuali antifascisti tra cui i futuri
redattori: Franco Fortini, Franco Calamandrei e il famoso grafico Albe
Steiner. Ai promotori si uniscono presto, come collaboratori, Giansiro
Ferrata, Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Giulio Preti, Oreste Del Buono, Sergio
Solmi, Antonio Giolitti, Antonio Banfi, Felice Balbo, Carlo Bo e Italo Calvino.
Il primo numero del Politecnico esce il 29
settembre del 1945 con un memorabile editoriale firmato dallo scrittore
siciliano intitolato Una nuova cultura che si apre con queste
parole: «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una
cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini» [corsivo
mio].
Vittorini chiarisce, nelle prime righe dell’articolo,
il suo pensiero:
«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in
questa guerra. […]. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di
soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di
case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le
quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più
sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau. Di chi è la
sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che,
attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei
bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era
sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini
sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e
distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava la
inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava
l’inviolabilità loro? Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la
cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo
latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo
ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce,
Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana,
Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa
cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha
avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad
esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e
perché il fascismo ha potuto commetterli? Dubito che un paladino di questa
cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da
quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che
l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse
nessuna, influenza civile sugli uomini [corsivo mio] [1].
Ecco il punto: la vecchia cultura ha fallito perché, essendo
patrimonio esclusivo di una èlite, è rimasta sostanzialmente estranea alla
società e a gran parte del popolo. In altri termini, sono stati i suoi limiti
di classe a rendere inefficace la grande cultura del passato; Vittorini lo dice
chiaramente questo quando afferma:
«Essa (la vecchia cultura) ha predicato, ha insegnato, ha
elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma
non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha
condotto eserciti per la società. […]. La società non è cultura perché la
cultura non è società» [2].
Questo editoriale scosse l’intellighenzia del tempo. Nei
numeri successivi della rivista intervennero tanti a dire la loro ma penso che
pochi compresero fino in fondo il senso delle parole di Vittorini. Ancora oggi,
infatti, tanti dimostrano di non averle ben comprese [3].
Il programma del Politecnico [4] puntava
anche ad aggiornare e sprovincializzare la cultura italiana, mettendola a
confronto con le diverse culture del mondo intero. Gli articoli e le inchieste
dei primi numeri del settimanale comprendevano analisi accurate sul latifondo
meridionale e le grandi industrie italiane; notizie aggiornate sulla Russia
sovietica, sul franchismo e la guerra civile spagnola, sulla società e sulla
letteratura americana. Non mancavano, inoltre, contributi teorici sulle diverse
interpretazioni del marxismo, dell’esistenzialismo e della psicoanalisi,
articoli di divulgazione scientifica, di critica letteraria,
cinematografica, artistica e di costume.
Vittorini, insieme ai suoi più stretti collaboratori – tra
cui spiccavano Franco Fortini, Carlo Bo, Felice Balbo, Giulio Preti – riescono
a creare un vero e proprio laboratorio politico-culturale sperimentale che si
poneva il compito di formare le masse e di cambiare la società italiana. Il
lavoro del settimanale venne avviato con grande entusiasmo, Vittorini scriveva
a molti intellettuali per invitarli a collaborare. Fortini ha ben descritto il
clima e l’entusiasmo che animava i redattori della rivista:
«Capitavano i personaggi di quegli anni: operai affamati,
giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, […].
Arrivavano montagne di manoscritti la più parte diari di guerra, di prigionia,
di vita operaia. […]. Si aveva l’impressione che dovunque il settimanale
giungesse molti animi scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre
incerte astruse parole. Era per noi la conferma della scoperta che avevamo
fatto durante la guerra; quella delle incredibili possibilità
della nostra provincia, delle energie latenti delle classi mute (GRASSETTO
MIO) […] Era l’indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo
attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che
l’opera alla quale era degno consacrarsi fosse di conoscere davvero che cosa
significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani»
[corsivo mio] [5].
Le parole di Fortini ci sembrano particolarmente felici e
calzanti per capire lo spirito che animava i principali autori della rivista.
D’altra parte lo stesso Vittorini affermava che «Per fare Il
Politecnico ci vogliono le fiamme sul didietro».
La rottura tra la Direzione del PCI e Vittorini, in gran
parte, è un segno delle prime avvisaglie della guerra fredda che dividerà
l’Europa proprio in quegli anni. Ad innescare la polemica è un articolo di
Mario Alicata pubblicato dal periodico comunista Rinascita che attacca senza
mezzi termini la linea culturale del Politecnico considerata troppo ecumenica
ed aperta nei confronti dell’Occidente e della cultura borghese. Contro
Vittorini interviene lo stesso Togliatti in una nota nello stesso periodico che
Il Politecnico, ormai trimestrale, pubblica nel Natale del 1946. Il
segretario nazionale del PCI, dopo aver ricordato di aver “salutato con gioia”
la nascita del Politecnico, rimprovera allo scrittore siciliano di
aver tradito il programma iniziale della rivista e di procedere in modo
equivoco alla ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente.
Vittorini nel numero natalizio che pubblica la lettera di Togliatti fa sue
alcune osservazioni critiche del segretario del PCI ma si riserva di
rispondergli in modo più articolato e approfondito successivamente. Cosa che
farà tre mesi dopo, ed esattamente nel n. 35 del marzo 1947, in una lunga
lettera aperta che affronta il tema di fondo dei rapporti tra cultura e
politica.
Lo scrittore siciliano, innanzitutto, ritorna a parlare
della sua idea di cultura precisando di essere «l’opposto di quello che in
Italia s’intende per ‘uomo di cultura’. Io non ho studi universitari. Non ho
nemmeno studi liceali. Potrei quasi dire che non ho affatto studi. Non so il
greco. Non so il latino. Entrambi i miei nonni erano operai e mio padre,
ferroviere, ebbe i mezzi per farmi appena frequentare le scuole che un tempo si
chiamavano tecniche. Quello che io so o credo di sapere l’ho imparato da solo
nel modo vizioso in cui si impara da soli. Le lingue straniere, per esempio, le
so come un sordomuto: posso leggere o scrivere in esse, tradurre da esse, ma
non posso parlarle né capire chi le parla». Lo scrittore siciliano precisa,
innanzitutto, di essersi iscritto al PCI per motivi umani e politici e non
ideologici. È stata l’esperienza della Resistenza al fascismo a condurlo,
insieme a tanti altri, al PCI. Nella prassi Vittorini ha verificato che i
comunisti «erano i migliori, e migliori anche nella vita di ogni giorno, i più
onesti, i più seri, i più sensibili, i più decisi e nello stesso tempo i più
allegri e i più vivi» [6].
A seguito del V Congresso Nazionale (1945/46) l’adesione di
Vittorini al PCI è ancora più convinta perché egli interpreta il deliberato del
Congresso di non porre alcun obbligo ideologico ai militanti come una chiara
apertura ad una lettura non dogmatica del pensiero di Marx: «ha riportato il
marxismo italiano sulla strada più propria del marxismo, che è la grande strada
aperta della filosofia come ricerca e non il vicolo cieco della filosofia come
sistema». Anche per questo, afferma con forza Vittorini, «il diritto di
parlare non deriva agli uomini dal fatto di possedere la verità, quanto
piuttosto dal fatto che si cerca la verità» [corsivo mio] [7].
Di conseguenza Vittorini vede nel libro di Lenin, Materialismo ed
empiriocriticismo, considerato un testo sacro in URSS, il rischio di
una ricaduta del marxismo nel Sistema e nel dogmatismo. Questo rischio il
marxismo italiano non lo corre grazie soprattutto al pensiero di Gramsci [8].
Nel corso di questa lettera il Direttore del Politecnico fa
più di una concessione a Togliatti, riconoscendo apertamente di essersi
sbagliato sui rapporti tra politica e cultura; concorda pienamente nella
critica a Benedetto Croce e ammette che «c’è anche nella cultura la tendenza
all’inerzia» (ivi: 127-130). Soltanto nelle conclusioni Vittorini prende
nettamente le distanze da Togliatti e, precisamente, nei paragrafi
intitolati: Suonare il piffero alla rivoluzione? e Uno
sforzo contro l’arcadia (ivi: 132-138). È in queste pagine che
lo scrittore di Uomini e no difende a spada tratta le sue
scelte culturali, spiegando le ragioni per cui ha pubblicato sulla rivista
Hemingway, Kafka e tanti altri scrittori borghesi. Vittorini afferma:
«Rifiutare e ignorare i migliori scrittori della crisi del
nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla
crisi della società occidentale contemporanea. […]. Molta letteratura della
crisi è senza dubbio di provenienza borghese. Discende dal romanticismo, è
intrisa di individualismo e decadentismo. Ma è anche carica della necessità di
uscirne. Si può chiamare letteratura della borghesia solo nel senso che è
autocritica della borghesia. I suoi motivi borghesi sono motivi di vergogna
d’essere borghesi e di disperazione d’essere borghesi. Dunque è rivoluzionaria»
[9].
L’atteggiamento critico giusto nei confronti degli autori da
cui vogliamo prendere distanza, osserva Vittorini, non è quello di ignorarli o
insultarli ma quello che hanno utilizzato con intelligenza sia Marx con Balzac
che Gramsci con Benedetto Croce. Suonare il piffero alla
rivoluzione non è rivoluzionario, conclude polemicamente la sua lunga
lettera a Togliatti
Lo scontro tra Vittorini e il PCI di Togliatti rimane uno
degli episodi cruciali della politica e della cultura del nostro ultimo
dopoguerra. Muraca, pur ricostruendo in modo problematico questo scontro, alla
fine riesce a cogliere i termini reali del conflitto:
Riguardo a quest’ultimo va detto che Vittorini – prima
ancora di conoscere integralmente gli scritti del sardo e alcuni documenti
relativi alla rottura che c’era stata nel 1926 tra i due dirigenti comunisti
nel giudicare la piega che aveva preso l’ URSS dopo la morte di Lenin – è stato
uno dei primi ad intuire l’originalità del pensiero gramsciano. Non a
caso pubblicherà sul Politecnico mensile un saggio dell’eretico Lukacs
e alcune lettere dal carcere di Gramsci. Cose che contribuiscono ad evidenziare
la modernità e la lungimiranza della rivista.
Muraca in conclusione fa suo il bilancio critico del Politecnico di
uno dei principali redattori della rivista, Franco Fortini:
«Nata da una forse ingenua fiducia nel garibaldinismo
culturale; cresciuto fino ad intravedere quale avrebbe dovuto il lavoro di gruppo
di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio Paese;
finito quando, all’avvicinarsi del lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è
rilevata la debolezza teorica, l’incertezza, la mancanza di pazienza, di
costanza, di tenacia e l’anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini
di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato […] tanto lungo
discorso se la sua vicenda non seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se
soprattutto –e questo è il suo merito, che nessuna critica può contestargli – i
principali problemi d’oggi sono quelli medesimi che esso ha posti e, per primo,
descritti in forma generale: da quello, affermato dalla sua esistenza, di un
linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra
dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il
pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di
nuove possibili vie di metodologia critica» [10].
Dopo l’attenta ricostruzione della storia del Politecnico,
il libro di Muraca offre un sommario esame di altre riviste sorte
successivamente – come Officina, Il Verri, Il Menabò, Discussioni ecc
– su cui sorvoliamo. Colpisce però il suo silenzio su due riviste – come Il
Ponte e Nuovi Argomenti – che hanno svolto un ruolo
non meno importante in quegli stessi anni e hanno resistito a lungo al logorio
del tempo.
«Compito dell’intellettuale è ripensare i termini storici e
gli errori attraverso i quali si è sviluppato, da noi e nel mondo moderno, il
rapporto fra intellettuali e potere politico e di riprendere coscienza, dopo un
decennio di oscuramento (morte della Resistenza e delle ideologizzazioni
forzate) della portata social-politica del proprio lavoro e della propria
esistenza. Da queste premesse scaturisce la necessità di una scelta
radicale:[…] La scelta è tra una prospettiva di omogeneizzazione progressiva
del corpo sociale nella società del benessere, eterodiretta e
pseudodemocratica, scientifica e buro-tecnocratica e una prospettiva di massimo
intervento attivo sui destini e sulle scelte, tramite la collettivizzazione
degli strumenti capitalistici di produzione e di scambio […] e attraverso
l’identificazione e lo sviluppo delle reali antitesi sociali, oggi occultate o,
detto altrimenti, della lotta di classe» [11].
Insomma Fortini, avendo rotto definitivamente col PSI,
vedeva nel nascente centro-sinistra l’ennesima “operazione Gattopardo”
italiana, e, pur consapevole degli spazi sempre più stretti che restavano alla
via rivoluzionaria, avanzava «una proposta assolutamente romantica, […], una
proposta di ‘dover essere’ »[12]. È comprensibile che i giovani di Piacenza
abbiano rivissuto nelle parole di Fortini il mito de Il Politecnico e
delle altre esperienze del marxismo critico che, nel corso del primo decennio
del dopoguerra, avevano lavorato per affermare un’altra linea rispetto allo
stalinismo e al togliattismo imperanti.
Nel primo numero dei Quaderni Piacentini, sotto
l’intestazione della rivista, veniva stampata la seguente Avvertenza:
«Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia, portata non
solo all’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni
anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che
serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve esser
seri senza essere noiosi. Con allegria» (in Muraca, 2024: 64).
Già da questa Avvertenza si poteva cogliere l’originalità
dello stile comunicativo della rivista. E sarà questa una cifra caratteristica
dei Quaderni Piacentini; così, contro tutte le retoriche
celebrazioni della Resistenza, in un altro numero della rivista si afferma:
«No, no no. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano
‘onorati’ con monumenti ‘ai caduti di tutte le guerre’ inaugurati da Vescovo,
Prefetto, Presidente del Tribunale, Commissari, Intendenti e Soprintendenti.
Meglio il silenzio. Il senso della Resistenza fu: RIVOLUZIONE,
RINNOVAMENTO».
La rivista pubblica contributi importanti di R. Solmi, C.
Cases, V. Strada, L. Amodio, S. Bologna, S. Timpanaro, R. Panzieri e F.
Fortini. Indubbiamente la rivista coprì un vuoto politico e culturale reale.
Infatti i Quaderni piacentini contribuirono, nella seconda
metà degli anni Sessanta, a diffondere un nuovo patrimonio di idee, un
atteggiamento radicale ed antagonista e a preparare il terreno all’affermazione
del Sessantotto.
Non possiamo chiudere questa recensione senza un accenno al
saggio finale di Gabriela Fantato con cui si conclude il libro di Giuseppe
Muraca. Il saggio s’intitola: Un pensiero eretico: il femminismo degli
anni Settanta e le sue riviste. Innanzitutto bisogna riconoscere che
ha fatto bene Muraca a non dimenticare le riviste femministe della fine del
secolo scorso anche perché, come è stato osservato da molti, tra tante
rivoluzioni fallite quella femminista risulta essere, ancora oggi, una di
quelle meglio riuscite.
Il movimento femminista in Italia si manifesta e si sviluppa
anni dopo quello francese, inglese e americano. L’ Italia degli anni Sessanta
era ancora un Paese arretrato e prevalentemente contadino. Il Codice
penale e civile, fino ai primi anni Settanta, prevedevano perfino
il delitto d’onore; il divorzio non era
consentito e l’aborto era considerato un grave reato.
Si dovrà aspettare la fine degli anni Settanta per l’affermazione di un nuovo
diritto di famiglia.
Libreria delle donne a Milano, 1970 (ph. Bibi
Tomasi)
Ma, dal punto di vista culturale, le donne italiane erano
già più avanti dei vecchi codici. Già alla fine degli anni 60 circolavano in
Italia i libri di Simone De Beauvoir e delle femministe inglesi e americane.
Nel 1970 viene pubblicato il saggio di Carla Lonzi, Sputiamo su
Hegel, che tanta risonanza avrà nei primi movimenti femministi
italiani. Il libro della Lonzi aprì anche un dibattito in campo filosofico
perché svelava il grande rimosso del corpo e della voce femminile, attraverso
un percorso di critica del pensiero occidentale. A Milano sorge la famosa Libreria
delle donne e, nel 1973, la prima rivista femminista italiana Sottosopra che
diventa portavoce delle principali istanze del movimento: insistere sulla differenza tra
uomini e donne; mettere in luce la specificità delle donne,
il corpo e il desiderio delle donne.
Naturalmente il Movimento femminista venne accolto inizialmente con sospetto
dalla stessa Sinistra che considerava eretiche tante sue posizioni.
Tutte le riviste esaminate da Giuseppe Muraca, pur nelle
loro differenze, avevano un tratto comune: erano opere di gruppo, opere
collettive, segno appunto – come ben dice l’autore del saggio – di un Fare
comune. Oggi, tra le tante cose perdute, va segnalata questa:
la perdita della voglia di fare gruppo in una società sempre più frammentata
dove sembra che ci sia spazio solo per individui isolati che se la cantano e se
la suonano da soli.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Cito dall’ottima Antologia de Il Politecnico curata
da Marco Forti e Sergio Pautasso, edita da Rizzoli Milano, 1975: 55
2[] Ivi: 56
[3] Vedi, ad esempio, cosa scrive Romano Luperini nel
suo Novecento, Loescher, Torino 1981: 384, cit. da Muraca: 15.
[4] Il “Programma” del Politecnico,
inedito per diversi anni, venne stampato la prima volta nel n. 17- 18
(luglio-settembre 1964) dei Quaderni Piacentini.
[5] Franco Fortini, Che cosa è stato il Politecnico,
in Dieci inverni citato da Muraca: 12-13.
[6] Politica e cultura. Lettera a Togliatti Il
Politecnico n.35, gennaio-marzo 1947, ora in Antologia
de Il Politecnico, op. cit.:121.
[7] Ivi: 122-123.
[8] Ivi: 128. Vittorini mostra chiaramente di
aver letto in anticipo, come Luigi Russo, almeno una parte del Quaderno
gramsciano sul Materialismo storico e la filosofia di Benedetto
Croce che sarà pubblicato da Einaudi nel gennaio del 1948: «Antonio
Gramsci ristabilisce la piena attualità del marxismo, non senza aver accolto
talune delle obbiezioni crociane, e non senza essersene giovato» (ivi: 132).
D’altra parte Togliatti, fin dal 1945, aveva preso contatto con l’editore
Einaudi per pubblicare la prima edizione tematica dei Quaderni.
[9] Ivi: 137.
[10] Franco Fortini cit. da Muraca: 18-19.
[11] Franco Fortini, Lettera ad amici di
Piacenza, in Ospite ingrato, Marietti 1985: 78-84
[12] Fortini cit. da Muraca: 62
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