Oggi mi piace rispolverare un vecchio articolo del Manifesto dedicato a due personaggi tornati alla ribalta in questi giorni.(fv)
Cattivo carattere e romanzi falliti. Bob Dylan e Philip Roth
Nicola Lagioia
«Non sono venuto al
mondo per renderle la vita facile», ha dichiarato Philip Roth poco
prima dell'uscita di Everyman a un giornalista che gli faceva
notare come la conversazione appena conclusa non fosse stata
un'esperienza rilassante. «È un grande scrittore, ma forse era
meglio non incontrarlo», questa invece potrebbe essere la sintesi
del coro che si è di recente sollevato alla Columbia University in
occasione del conferimento a Roth del Grinzane Masters Award, visto
che l'autore di Pastorale americana aveva limitato il discorso
commemorativo per Primo Levi a qualche stralcio di un suo dialogo con
lo scrittore torinese pubblicato da anni. «Ma mi state lasciando
andare! Me la sono goduta nel mio modo rivoltante ancora una volta! E
mi state lasciando andare!», questo infine, qualcuno lo avrà
riconosciuto, è Mickey Sabbath, forse il più scatenato tra i
personaggi di Roth, quando inveisce contro un poliziotto che lo ha
graziato dopo averlo sorpreso a pisciare sulla tomba di sua madre (la
madre del poliziotto...) nonché amante adulterina di Sabbath.
Philip Roth è arrivato a
settantaquattro anni complicando la vita a chiunque abbia avuto a che
fare con lui oltre le pagine stampate. E se il carattere difficile
dei suoi personaggi gli ha assicurato un posto d'onore nella
letteratura americana del secondo Novecento, il suo carattere
difficile, la scontrosa accoglienza che riserva a chi cerca di
intervistarlo o di blandirlo, lo ha aiutato a invecchiare conservando
egoismo e personalità, tutto ciò che insomma contribuisce a
fecondare una categoria umana sempre più a rischio: l'individuo. Non
è annegato nell'alcol come Fitzgerald. Non ha consentito che la
propria riserva aurea si trasformasse in uno strumento di rovina come
Capote con la high society. Non si è lasciato tentare
dall'invisibilità come Salinger e Pynchon. Solo la sua fede nei
limiti umani, una fede senza sbocchi escatologici che nasce da un
feroce amore per la mortalità in tutte le sue forme, soltanto questo
probabilmente gli ha consentito di non restare vittima del rise and
fall in salsa cristica che l'occidente utilizza da tempo come trono e
patibolo per la fama.
Il primo libro di Roth è
del '59. Soltanto tre anni dopo esordirà su vinile un altro
personaggio destinato a diventare un'icona a stelle e strisce, di
ceppo ebraico come Roth, e come lui dotato di un carattere per niente
conciliante: Bob Dylan, appena tornato a suonare in Italia e
riportato in libreria da Feltrinelli con Tarantula, suo primo
e unico romanzo, ritradotto e commentato in una nuova edizione (a
cura di Alessandro Carrera e Sandro Pettinato, traduzione di Andrea
D'Anna, pp. 340, euro 10). E d'accordo, si tratta di un libro
pressoché illeggibile, uno spericolato tentativo di convertire alla
propria cifra Blake, Burroughs e Friedrich Nietzsche, un'impresa
superiore alle forze del menestrello di Duluth. Ma certi fallimenti
(purché molto fragorosi e altrettanto personali) meritano molta più
attenzione dei piccoli trionfi di chi sceglie di essere epigono a
tutti i costi.
«Il successo è l'altra
faccia della persecuzione...», diceva sconsolato Pasolini in una
trasmissione televisiva di tanti anni fa. Sia Roth che Dylan sono
stati però tanto fedeli all'ideologia della propria individualità
artistica da intuire che sputare sulla fama rischiava di essere
l'altra faccia del narcisismo: un'assicurazione sulla futura
prevedibilità. Riuscire nell'impresa di essere se stessi
conservandosi vivi vuol dire tutelare, senza ammaestrarlo, il
patrimonio di contraddittorietà proprio di ogni essere umano. E per
questo un cattivo carattere è fondamentale. Il risultato è una
salvifica inafferrabilità. Ecco Dylan che canta We are the World
dietro l'innocuo carrozzone di Usa for Africa. Ma eccolo offendere i
folk-addicted con la provvidenziale «svolta elettrica» di
Newport ed eccolo, anni dopo, spiazzare i fan sabotando le proprie
canzoni, smembrate da arrangiamenti in bilico tra ridicolo e sublime.
Ed ecco Philip Roth: riceve tutto impettito il Pulitzer.. Ma eccolo
brutalizzare un giornalista che gli ha dato del Jewish writer e
dichiarare, lui che ha insegnato a Princeton: «Sarebbe meraviglioso
stabilire una moratoria sulle discussioni letterarie, e se si
chiudessero i dipartimenti di letteratura, se i critici fossero
banditi».
Il cattivo carattere
salva se stessi, ma non è detto che rispetto al mondo non risenta
del trascorrere del tempo. Dylan e Roth, oltre a quella di un enorme
talento, hanno avuto la fortuna di vivere in un paese e in un periodo
storico capaci di far fiorire grandi individualità sul territorio
del middlebrow. Anche l'arte ci ha guadagnato. Difficile
immaginare Alex Portnoy al di là della cortina di ferro, come è
difficile che fuori dal narcisistico eppure miracolosamente
disordinato fervore delle sottoculture giovanili potesse nascere un
capolavoro come Blonde on Blonde. E però, se l'arte è una
buona cartina di tornasole per capire dove va il mondo, stiamo forse
parlando di un'epoca in declino.
Prendiamo Everyman,
l'ultimo romanzo di Roth. Non la sua prova migliore, ma non è questo
il punto. Nel libro come al solito trionfa l'individualismo del suo
protagonista - imperfetto, rancoroso, ansioso di dare e ricevere
amore e nefandezze, in viaggio come tutti verso la morte ma capace di
fare della propria identità duramente guadagnata sul campo una
grande lezione di etica. Si è detto che questo romanzo, nella sua
icastica secchezza, è un compendio del Roth-pensiero. Tuttavia, a
differenza dei libri precedenti, qui non è la sfrenata potenza
vitalistica della scrittura a comporre «fisicamente» un'idea di
mondo ma il contrario: una precedente idea di mondo sottomette la
scrittura al suo statuto. Trattasi, per la prima volta nel caso di
Roth, di romanzo a tesi, così come per la prima volta il
protagonista principale di un suo libro non ha un nome. Quanto basta
a far pensare che Everyman (consapevole o meno Roth) non sia tanto la
carta costituzionale dell'universo del suo autore ma un
dignitosissimo, toccante congedo, attuato proprio in virtù del fatto
che questa poetica riceve in qualche modo una codificazione.
Analogamente, Modern Times, l'ultimo album di Dylan, è un
pregevole esercizio di inattualità. Il suo ascolto rigenera, ma non
si fa tutt'uno con lo spirito del tempo come fu per Highway 61.
E anche le canzoni storpiate, e il ventennale neverending tour,
più che sistemi per sconvolgere il proprio tempo sono eroici
tentativi di ipnotizzarlo, salvando il loro fautore da un'epoca in
cui tenersi un'identità comincia a diventare un esercizio disperato.
Dylan e Roth insomma ce l'hanno fatta. Ma gli altri? Quelli che
nell'89 non avevano ancora vent'anni? Al di qua e al di là delle
pagine stampate e dei cd, qual è lo spazio per l'individuo in una
società che, più che cercare un interprete a cui fare ponti d'oro o
un eretico da perseguitare per più di cinque minuti, è soprattutto
interessata a raccontare in automatico se stessa attraverso i media,
lo spettacolo, il teatro della politica e della religione - non
un'intelligenza collettiva come volevano le anime belle all'alba del
ventunesimo secolo, ma una infallibile macchina acefala per la
gestione del potere? Un Mickey Sabbath è ancora possibile, ad
esempio? E il cattivo carattere, da solo, può bastare?
il manifesto, 15 maggio, 2007
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